Il declino di Cava Francese
Dopo un lungo periodo di crescita che pareva inarrestabile, con soddisfazioni economiche e morali per la SEGIS, la vera crisi si fece sentire a partire dal 1932 e, a causa di diversi fattori che vennero sommandosi o sostituendosi l’uno all’altro nel tempo, divenne praticamente inarrestabile. Essa fu in un primo tempo rintuzzata, combattuta con la eliminazione della concorrenza e diede l’impressione di non aver scalfito la solidità della ditta; fu quindi sospesa e rimandata con la testarda gestione di Grondona che si sostituì praticamente agli altri soci; fu vissuta come un periodo di passaggio durante la seconda guerra mondiale; fu scambiata con una lenta ma possibile ripresa negli anni successivi; divenne, infine, lenta agonia fino alla chiusura definitiva.
I problemi del 1932 erano determinati dalla generalizzata diminuzione dei consumi che aveva interessato privati ed enti pubblici: il primo segnale era dato da Genova che, mentre fino a quel momento aveva mantenuto costanti gli acquisti di granito per pavimentazioni, ora rallentava decisamente gli ordini. Malgrado l’azienda reggesse bene impiegando circa 300 operai, appariva evidente e preoccupante la concorrenza delle cave situate sulle coste; non più solo all’Elba, ma, più pericolose, in Sardegna: a quella ormai consolidata di Schiappacasse a Santo Stefano, se ne erano aggiunte di nuove ad Arbatax e a Terranova. Di fronte ai prezzi di vendita che continuavano a precipitare, la mano d’opera incideva per “l’80% dei costi del prodotto”. I tentativi di far intervenire la direzione dell’Associazione degli Industriali perché convincesse i rappresentanti dei lavoratori ad accettare una diminuzione dei salari aveva appena alleviato la situazione, senza riuscire a risolverla. I dirigenti SEGIS ne davano un succinto quadro nell’assemblea generale dell’anno: “Dopo discussioni a Sassari, a Roma si è ottenuta una diminuzione delle paghe del 5% poi una ulteriore riduzione del 10% per gli scalpellini, del 5% e2% per i manovali. I tacchi che nel 28 si vendevano a 130 lire oggi si vendono a 80”47.
E nell’anno seguente le difficoltà apparvero in tutta la loro gravità; malgrado i lavori presi in appalto ed eseguiti, il bilancio registrava una perdita grave.
Oltre alle cause che erano venute annunciandosi nei periodi precedenti e che ora si evidenziavano in tutta la loro drammaticità, ve ne erano altre che fino a che la società era salda erano apparse passeggere e facilmente rimediabili: si trattava di debiti contratti da alcuni soci che, malgrado i piani di rientro, risultarono praticamente inesigibili; a questa situazione interna si aggiungeva un lodo arbitrale sfavorevole a Napoli per un contenzioso sorto a causa della lavorazione della pavimentazione di piazza Garibaldi.
Ma la situazione più preoccupante, che incideva pesantemente sul bilancio, era data dai ribassi eccessivi proposti per evitare la concorrenza, dalla ulteriore diminuzione del prezzo delle lastre, da quella ancor più evidente nei pezzi speciali, dal drastico calo della produzione per minori commesse.
A fronte di questi ridimensionamenti le paghe incidevano in maniera sproporzionata rispetto ad altre aree di produzione. La concorrenza di Schiappacasse si era fatta più pressante con l’apertura di due cave prese in affitto nella stessa Maddalena, alla Trinita e nei terreni di Webber, mentre altre piccole imprese tentavano l’estrazione in diverse zone interne. Alla resa dei conti, a fronte di un costo medio per produrre un mc di granito lavorato pari a lire 309,40, il prezzo medio di vendita risultava di lire 305,30. Nel tentativo di accelerare i tempi di lavorazione e quindi incidere meno sulla mano d’opera, si erano acquistati nuovi macchinari (quali un impianto per perforare, tagliare e bocciardare pezzi come i banchettoni), che aveva esposto ulteriormente la ditta verso le banche.
La conseguenza più immediata fu la drastica riduzione degli operai che da 300 passava a 150 e la richiesta pressante ai soci di intervenire per alleviare la situazione di “un’industria che in 35 anni si è piazzata fra le prime del suo genere e che è stata vanto e decoro dell’industria italiana del granito”. L’amara conclusione finale della assemblea di quell’anno fu che, “data la situazione dell’azienda bisogna provvedere o a liquidarla o a rifornirla di capitali liquidi. E’ doloroso trovarsi in tali condizioni dopo 18 anni di continuo rendimento… Necessita o morire o provvedere..”.
Fra le proposte fatte per evitare la liquidazione comparve, come al solito, quella di trasformare la società, che scadeva naturalmente il 30 giugno 1934, in Anonima.
In questo clima di sconforto e di paura di perdere tutto quanto era stato realizzato fino a quel momento, un rimedio, che pareva in grado di risolvere la grave crisi, fu la creazione di un Comitato fra la SEGIS e Schiappacasse, firmato il 18 dicembre 1933. L’accordo prevedeva di stabilire prezzi comuni (per il materiale da pavimentazione, per il nolo e lo sbarco del materiale) e il termine per la richiesta di pagamento, fissata in 30 giorni dalla emissione della fattura; si decideva inoltre di conguagliare le forniture fissando dei parametri per l’assegnazione delle commesse affidandone il 61% a SEGIS e il 39% a Schiappacasse.
L’accordo era importante perché evitava il dissanguamento nella concorrenza fra le due ditte più capaci dell’area, ma la crisi era ormai nazionale ed investiva tutto il comparto della lavorazione del granito; perciò, sull’esempio di quanto realizzato fra SEGIS e Schiappacasse da un lato e da un consorzio nell’alta Italia dall’altro, il presidente della Federazione Nazionale dell’Industria del Marmo e del Granito, l’ing. Peverelli, presentava la proposta di un consorzio di produttori di granito delle isole che avrebbe messo insieme La Maddalena, Santo Stefano, Arbatax, Terranova e l’Elba.
Il progetto di Peverelli, contrario alla fusione delle ditte e favorevole all’unione con modalità simili a quelle già attuate da SEGIS e Schiappacasse, era determinato dalle difficoltà nelle quali si dibatteva anche la sua personale azienda, la Sarda Graniti di Arbatax. L’accordo sarebbe durato tre anni, avrebbe visto la creazione di una società commerciale attraverso la quale egli garantiva alla SEGIS, grazie ai suoi appoggi politici, un finanziamento dell’IRI per un milione, rimborsabile in 20 anni all’interesse del 3,5%.
La tentazione, ben conosciuta, di stemperare i problemi finanziari ricorrendo al sistema di pagare sempre meno gli operai che, con la crisi generale in corso, erano disponibili ad accettare anche salari bassissimi, avrebbe dovuto essere evitata dalla clausola, inserita nella bozza dell’accordo, per la quale il salario non poteva essere “inferiore ai minimi di paga stabiliti dai contratti di lavoro vigenti, che dovranno essere rigorosamente applicati”.
Un curioso avvenimento creò qualche apprensione alle due ditte appena consorziate: a gennaio 1934 si sparse la notizia, confermata subito dagli stessi interessati, che i fratelli Cudoni di Palau avevano offerto a Mussolini il “granito grezzo occorrente per i palazzi del Littorio e della Mostra della Rivoluzione”.
Schiappacasse corse subito ai ripari inviando il direttore dei lavori di Villamarina, Battista Serra, a visitare le cave dalle quali i Cudoni si proponevano l’estrazione e, subito dopo, presentò, insieme alla SEGIS, due circostanziate lettere: una al segretario del Partito Nazional Fascista, Achille Starace, l’altra alla Unione Industriale Fascista di Sassari. Nella prima, ponendo in dubbio la qualità del granito e la stessa competenza dei Cudoni, definiti ironicamente “esercenti un negozio di commestibili a Palau”, si faceva notare anche la mancanza di mezzi di produzione, di lavorazione e di trasporto per cui, per recuperare il “regalo” il partito avrebbe dovuto spendere forse più di quanto avrebbe fatto acquistandolo. Per rintuzzare poi con le stesse armi il pericolo di concorrenza, il consorzio offriva 100 metri cubi di granito in conci sbozzati e delle misure utili allo scopo, “franco bordo di navi attraccate ai pontili d’imbarco delle rispettive cave”.
All’Unione Industriale Fascista si chiedeva, in modo inequivocabile, di opporsi alla apertura di nuove cave, per non aggravare ulteriormente la “grande crisi” in atto.
I tre anni seguenti furono ritmati da un’altalena di decisioni contrastanti segno di malessere generalizzato fra i soci e delle diverse opinioni che di volta in volta parevano prevalere anche se in modo non definitivo: nell’assemblea straordinaria del 26 giugno 1934 si raggiungeva l’accordo per la proroga della società affidando a Grondona “l’esclusiva direzione degli affari sociali, nonché la messa in liquidazione, o cessione delle attività sociali o trasformazione della società”, il 30 settembre 1935 si svolgeva l’assemblea straordinaria per la liquidazione, revocata poi nel 1936.
Il 28 maggio 1937 la decisione di liquidare pareva definitiva: un bando annunciava la “vendita volontaria di immobili al pubblico incanto”, per un prezzo di lire 531.277,10, dei 23 ettari di terreno con tutto ciò che vi insisteva. Pareva ormai arrivata la definitiva fine dell’impresa: furono momenti difficili, tentativi risultati impossibili di ricucitura della società, apprensioni, calcoli, riflessioni e, infine, la decisione di Grondona di rilevare tutto.
Ma i tempi erano funesti e si correva velocemente verso la guerra: fu proprio questa a segnare l’inizio della parabola discendente, aggravata dalla morte di Grondona nel marzo del 1942; i tentativi da parte dei figli, subentrati nella direzione della cava, di mantenere in piedi il lavoro, furono fatti fino al 10 marzo 1943, quando la ditta scrisse alla Direzione Generale delle Miniere chiedendo “l’assegnazione di 50 prigionieri di guerra da impegnarsi presso le cave di granito di Cala Francese”; la richiesta veniva giustificata con la necessità di “portare a termine i conci di granito occorrenti per il grande bacino di Taranto”.
Non credo che la risposta sia mai arrivata: arrivò invece, terribile, il bombardamento aereo del 10 aprile; fra le altre conseguenze determinate dalla distruzione di gran parte dell’arsenale militare della Maddalena, ci fu la requisizione degli impianti e delle strutture di cava dove furono trasferite alcune officine della base. Paradossalmente questo arresto non fu del tutto negativo in quanto l’indennizzo pagato dallo stato ridusse, almeno in parte, le perdite che la guerra aveva portato con sé.
Il lavoro vero ricominciava a febbraio 1945, sotto la direzione dei figli di Grondona (soprattutto del suo secondogenito, Nanni), con tante speranze alimentate con il progressivo aumento degli operai impiegati, che rimase mediamente discreto fino a novembre 1948.
Le difficoltà diventavano sempre più serie: si assumevano ancora importanti lavori per la Società Italiana Opere Marittime, che impiegava il materiale della Maddalena per bacini e porti, ma che, ritardando i pagamenti, metteva in crisi la liquidità della SEGIS: sempre più frequentemente si dovette ricorrere a prestiti di famiglia in attesa di riscuotere il dovuto dai committenti. Sintomatiche le condizioni poste per la fornitura di pezzi speciali per il bacino di Napoli: “finanziare la produzione mese per mese” e ritirare i pezzi appena fatti senza deposito in cava. Malgrado gli impegni, il lavoro, terminato ad aprile 1953, si rivelò “un vero disastro” a cui non poco contribuì il tempo inclemente con 5 mesi consecutivi di acqua e vento.
Sono di questi anni le interessanti forniture per la Compagnia Francese di Lavori Marittimi, con i lavori di rifinitura del porto di Tangeri, e quelle di molazze per cartiere e per frantoi: dal 1958 al 1960 nove cartiere liguri ordinarono questi pezzi in cava, molto belli a vedersi, formati da una mola dormiente di dimensioni che superavano i due metri di diametro e da una girante leggermente più piccola, di spessore di 45 cm.
Nel 1958 la trattativa condotta per l’aggiudicazione della fornitura di materiale lavorato per il rivestimento del palazzo della banca d’Italia a Cagliari non dava buon esito: in un primo momento pareva che i prezzi offerti dalla SEGIS fossero accettati, poi quando questa precisò meglio le cifre aggiungendo le spese di imballaggio dei pezzi, il committente si ritirò aggiudicando la fornitura alla ditta Schiappacasse.
L’anno seguente un incidente azzerò gran parte della produzione già pronta: i pezzi già caricati sui vagoni per essere inviati alla banchina si rovesciarono “producendo scantonature e rotture tali da renderli inservibili”. Fu necessario rimetterli in lavorazione con tutte le conseguenze che ciò comportava.
Dal novembre 1962 le cave sono praticamente ferme. Nel 1965 si approntò la dichiarazione di cessazione delle attività, mantenendo, secondo i consigli del consulente fiscale, la società in piedi per la gestione degli immobili di proprietà della stessa. L’ufficio di Genova, già ridotto, venne abbandonato e tutti i documenti lì presenti furono trasferiti alla Maddalena. La situazione veniva così sintetizzata da Nanni Grondona: “Macchine in aumento, puffi o debiti in aumento, esigenze in aumento, pretese in aumento, viveri in aumento, reddito in diminuzione”.
Sono questi gli anni più angosciosi per Nanni Grondona: una lunga malattia che lo tenne immobile per mesi, il cattivo tempo perdurante, l’amarezza determinata dal vedere la cava agonizzare lentamente gli fecero assumere la decisione di chiudere definitivamente l’attività.
E mentre la cava si spegneva e soli rimanevano alcuni inquilini nel grande caseggiato, tutti gli attrezzi, anche i più minuti, venivano riposti e conservati, nella speranza di un risveglio che, come sappiamo, non arrivò.
Così la forgia mantenne intatti, nel suo colore nero fumo, incudini, mantici, piletti, ferri da mina, punte, punciotti; l’hangar fu riempito fino all’inverosimile di attrezzi, compresi quelli da falegname e da arrotino: perfino la vecchia carcassa della macchina Fiat 509 fu conservata. Nei locali un tempo adibiti ad uffici rimanevano le gigantografie del monumento di Ismailia, i progetti di molti lavori realizzati, gli strumenti di precisione, le piccole bilance per la polvere, l’avveniristica (per quei tempi) macchina copialettere, i libri cassa, la corrispondenza di più di mezzo secolo, i libretti personali degli operai, le denunce degli infortuni.
Fuori, a vegliare su tutto e a invecchiare con i derrick e le mancine, Arnaldo Nativi, silenzioso custode, unico dipendente rimasto ad accogliere le frequenti visite del padrone, vecchio anche lui, e di qualche visitatore poco gradito al quale rispondere sbrigativamente evitando di parlare dei febbrili tempi andati, pieni di rumori e di voci, e del presente silenzioso e vuoto.
Una relazione, che credo scritta da Nanni Grondona, relativa a quegli anni, probabilmente per qualche istituto di ricerca, descrive la situazione generale dell’escavazione in Gallura, facendo anche una breve analisi delle cause del declino e mettendo l’accento sui nuovi disinvolti sistemi di coltivazione delle cave che l’autore del documento, appartenente ad un altro mondo, non poteva approvare o condividere. “Non facile cosa il poter enumerare tutte le piccole cave attive e chiuse esistenti nella Gallura, in quanto essendo la stessa di natura prevalentemente granitica permette, specie per i piccoli lavori in loco, l’apertura di alcune di esse in prossimità dove vengono impiegati i materiali, e ciò per economizzare sull’escavazione, ma soprattutto sui trasporti che incidono notevolmente sul prezzo. Queste cave sono di durata precaria e si chiudono con la terminazione dei lavori e rappresentano il sistema di sfruttamento, in quanto i cavatori si preoccupano soltanto del guadagno e dalla cava prendono tutto ciò che non è disagevole e non comporta spese. L’altro, il sistema di vera e propria coltivazione solo e soltanto dalla Società Esportazione Graniti Sardi di La Maddalena nelle grandi e antiche cave di Cala Francese….
Fatta eccezione per le cave di La Maddalena dove i cavatori, in genere sono anche possessori del fondo, nella restante parte i proprietari affittano le cave a privati, ditte o cooperative, per lo sfruttamento mediante pagamento di un canone sulla produzione. Le cave di Olbia sono sfruttate nella quasi generalità dal sig. Luigi Serra, quelle di Tempio da Balata Giovanni Maria e dall’ing. Bianco, quelle di Santa Teresa Gallura da De Giovanni Raffaele, quelle di Arzachena da Italo Bontempelli, quelle dell’isola S. Stefano… dal sig. Stefano Schiappacasse e quelle di La Maddalena dal sig. Angelo Mordini, Paolo Moi, Migliaccio Umberto e Società Esportazione Graniti Sardi… La produzione negli ultimi 10/15 anni è stata minima, nulla o pressochè nulla nel periodo bellico e nel subito dopo guerra, ed è in continuo declino per mancanza di commesse… Il granito di Sardegna, specie quello di La Maddalena, rinomato per la sua durezza e resistenza all’attrito radente, veniva largamente usato per pavimentazioni stradali, per rivestimenti di dighe, per opere portuali e bacini di carenaggio. Con la meccanizzazione e l’abolizione del traino animale e delle tramvie, sostituite queste ultime dai filobus e autobus, al granito è stata sostituita la pavimentazione in “macadam”, che è tra l’altro più economica.
Ciò ha determinato una crisi di tale industria che non ha trovato possibilità di sfogo in altri campi. Con le attrezzature attualmente esistenti nelle cave di S. Stefano e di Cala Francese (grue a vapore ed a motore per sollevamento fino a 10 tonnellate, Derrick, locomotive, binari, vagoni, compressori, paranchi, binde, pontile d’imbarco, impianti di raccolta d’acqua) si può eseguire qualsiasi tipo di lavoro ad eccezione dei segati in quanto mancano gli impianti di segatura per mancanza della rete elettrica. Effettuando gli impianti per la segatura e tornitura si potrebbe avere un impiego di questo materiale anche nei lavori di rivestimento edili, sebbene la nostra pietra, a mio modesto avviso, non verrà in genere preferita al granito di Baveno, alla sienite della Balma, al travertino e a tutta l’altra gamma di graniti e pietre colorate che sono di tono assai più calde. Questi impianti comporterebbero una spesa non indifferente, che gli attuali esercenti di cave non sono in grado di poter sostenere”.
Giovanna Sotgiu – Co.Ri.S.Ma
- L’uso del granito prima del 1860
- I primi tentativi di cava
- La svolta nello sfruttamento del granito
- L’avvio della Società Esportazione Graniti Sardi – SEGIS
- L’assetto della società SEGIS
- Il declino di Cava Francese
- L’organizzazione del lavoro in cava
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- La vita difficile degli scalpellini
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- Registro dei fanciulli del 1925
- Libro matricola degli operai dipendenti SEGIS del 1924
- Glossario degli scalpellini