A mimoria d'a petraCo.Ri.S.MaLa Maddalena Antica

Le immigrazioni degli scalpellini

È questa l’epoca delle immigrazioni più consistenti: malgrado l’alternarsi di persone che venivano solo per alcune stagioni, cercando di rientrare appena possibile ai loro luoghi d’origine, o alternando le “campagne” in Svizzera o sul Lago Maggiore con quelle alla Maddalena, interi gruppi si trasferirono qui trovando una situazione stabile e definitiva: fra questi le famiglie Nativi e i Vivarelli, proveniente da Sambuca Pistoiese, i Del Bene, i Checucci, i Filippini, gli Sturlese provenienti da Levanto, le due famiglie Molinari, provenienti l’una da Piacenza e l’altra dalla Liguria, i Bartoli da Pistoia, i Crescioli da Fiesole, i Fontana da Pieve Pelago.

La necessità di sempre nuova mano d’opera incominciava a trovare risposte adeguate anche in Sardegna e mentre dalla Gallura, tradizionale sede di cave legate a Tempio, si registravano pochi arrivi (Dejana, Dettori, Codina), dalla zona di Sassari arrivavano altri in cerca di fortuna: Pera Raffaele, Cubeddu Salvatore, Isoni Giacomo, Curreli Salvatore. Si trattava di fuochisti, minatori, falegnami e manovali, raramente di scalpellini.

Ma la prospettiva di un lavoro che appariva sicuro, dato lo sviluppo della cava, non poteva non attirare anche i maddalenini, da sempre dediti alle attività marinare di commercio o di servizio nella Marina Regia, e alcuni giovanissimi furono avviati, a partire proprio dal 1901, ad imparare il mestiere che, per molti di loro, sarebbe stato quello della vita. Dal Registro dei Fanciulli, compilato dalla SEGIS nel 1824, risulta che l’età media di questi bambini, chiamati bocia, era di 11 anni, ma nel 1901 i due più piccoli apprendisti presenti erano Pala Salvatore (di Nicola) di nove anni e Carta Gavino di dieci. Negli anni successivi all’incremento del numero degli apprendisti corrispose un progressivo innalzamento dell’età: nel 1925 i giovani dai 12 ai 15 anni presenti in cava in un mese erano, in media, 20 a fronte di 45 operai di età compresa fra i 15 e i 21 anni e di 139 dai 21 ai 65 anni, per un totale di 203 addetti.

La vita che si andava delineando per i nuovi arrivati comportava, come sempre di fronte a forti immigrazioni, problemi sociali e un progressivo assorbimento dei nuovi venuti (che finivano per inserirsi perfettamente nel nuovo contesto) o la partenza di quelli che non trovavano un assetto definitivo.

Il porto di Genova era la porta di accesso per gli operai che chiedevano di venire a lavorare alla Maddalena: a volte erano disgraziati che non avevano neanche i soldi per il viaggio e per mangiare, soldi che venivano anticipati dalla ditta alla partenza, insieme alle prime informazioni sulla vita della cava; spesso nell’ufficio di Genova si presentavano giovani desiderosi di portar con sé la famiglia, pronti a cercare nuova fortuna tagliando i ponti con i luoghi di provenienza.

In alcuni periodi le richieste risultavano tutte accoglibili per la grande richiesta di manodopera, ma quando il lavoro scarseggiava operai anche specializzati dovevano essere rimandati indietro.

Arrivati qui, i nuovi venuti dovevano cercare una sistemazione che costasse poco, alimentando così un mercato di affitti illegali di scantinati e locali malsani che faceva intervenire con vigorose quanto inutili denuncie l’ufficiale sanitario, dottor Regnoli (1). “Non posso…. esimermi dal parlare di certi sotterranei, che qui a Maddalena vengono adibiti ad uso abitazione per famiglie povere che rappresentano non solo quanto di antigienico può esistere, ma anche quanto di antiumanitario si possa immaginare”.

Più fortunati quelli che abitavano a cala Francese; mentre le relazioni sullo stato igienico del paese raccomandavano la costruzione di dormitori pubblici e la realizzazione di case popolari, la cava ospitava un denso nucleo di lavoratori: gli scapoli nei vasti cameroni al primo piano del grande edificio a elle, le famiglie in piccoli appartamenti al pianterreno e nelle casette dislocate nel territorio circostante.

Pare di non poter rimproverare nulla alla SEGIS in quanto a attenzione verso l’igiene: la ditta mandava a prendere a sue spese col carrozzino (in un primo tempo quello del carrozziere Emanuele de Mutti, poi quello di proprietà) il medico a controllare sia gli alloggi, sia la cantina.

Particolare attenzione era riservata alla pulizia dei pozzi, due dei quali erano in comunicazione fra loro e assicuravano una discreta riserva d’acqua per tutto l’anno.

Assestamenti nei rapporti di lavoro dovettero intervenire in questi primi anni, che videro in Sardegna i grandi scioperi nell’industria. Anche La Maddalena ne sarebbe stata interessata. Nei documenti che ho potuto vedere, e dai quali si può ricostruire la vita della cava in modo molto preciso, fino al 3 aprile 1903 (poi a maggio dello stesso anno), non c’è traccia di sciopero della categoria degli scalpellini. Risultano altri disordini fra operai, regolarmente annotati nella corrispondenza di Osvaldo Marcenaro, che portarono, negli ultimi giorni di marzo, a risse nelle quali si contarono “feriti e feritori”. Anche nell’archivio storico comunale non vi è traccia di astensioni dal lavoro relative a quel periodo, che sarebbero, invece, state registrate dal Ministero Agricoltura e Commercio l’8 aprile. Scrive Girolamo Sotgiu: “Presero parte allo sciopero tutti gli scalpellini alle dipendenze della società, per ottenere, per alcune categorie di operai, un aumento di salario e, in genere, l’abolizione dei cottimisti. Inoltre essi volevano che l’orario di lavoro, di 10 ore, fosse stabilito in 8 ore in inverno e 10 in estate, che nessuno degli operai potesse essere licenziato senza giustificato motivo, giudicato da una apposita commissione, che della tagliatura del granito dovesse essere responsabile l’impresa e che i prezzi di lavoro venissero stabiliti fra la società e una apposita commissione. Ma la società non volle fare alcuna concessione e rispose negativamente a tutte le domande, invitando coloro che non credevano di conformarsi alle sue decisioni a chiedere il licenziamento. Soltanto promise di concedere a gruppi di operai quei tratti di cava che man mano si fossero resi disponibili. In seguito a ciò il lavoro fu ripreso, alle condizioni di prima. La mercede giornaliera variava da lire 5 a lire 6,50”.

Altre notizie relative a rivendicazioni le troviamo nel 1906 quando l’Unione Operaia di Maddalena, aderente alla Federazione Edilizia Italiana, informava la direzione, che “i soci scalpellini dell’unione operaia riunitisi in assemblea il 20 (domenica) u.s. dopo breve discussione visto che la Direzione ha tolto agli operai il beneficio del medico, servizio pagato dagli stessi operai colla ritenuta dell’uno %…sulle paghe, deliberano di non continuare a lasciare alla direzione alcuna percentuale, poiché, avendogli tolto il medico per le malattie comuni, nulla à da pretendere per questo, come pure per i casi fortuiti”.

Una società di assicurazione nazionale, la Fondiaria Assicurazioni, garantiva interventi in caso di saltuaria assenza dal lavoro per causa di incidenti e di permanente infermità. Ma l’impressione proveniente dalla lettura dei documenti scritti da Marcenaro, quindi dalla parte dei “padroni”, è che la compagnia avesse buon gioco nel rifiutare spesso l’intervento appigliandosi a clausole che andavano sempre in danno degli operai. Nel 1912, ad esempio, la Fondiaria si rifiutava di pagare se le persone che avevano subito un incidente avevano un qualunque difetto fisico anche non legato alla professione. Di fronte a un certo Biusa (o Biosa?) che appariva “permanentemente rovinato”, dopo aver chiesto tutta la documentazione, la compagnia di assicurazioni dichiarava di non riconoscere il danno permanente, destinando così a sicura rovina il poveretto; solo qualche mese più tardi rifiutava di assicurare Pellegrini Agostino perché presentava una cicatrice al piede che niente aveva a che fare con il lavoro.

Dopo alcuni inutili tentativi per cambiare queste regole che apparivano assurde, la ditta finì per accettare l’impostazione della Fondiaria pur riconoscendo la mancanza di umanità della situazione. “L’agenzia non ammette il danno a Barcellini perché l’avete assunto sordo e guercio”, diceva Marcenaro esagerando i malanni fisici dell’operaio per cui la Fondiaria rifiutava il risarcimento, “…e l’unica sarà licenziarlo per levarci responsabilità. E’ poco umano ma d’altra parte che fare?”.

  1. Giovanni Regnoli arriva dalla Toscana a fine Ottocento. Porta il cravattino colorato a fiocco largo, chiamato “Lavallière”, tessuto in mussola, con il nodo impero. In tono con la camicia bianca. Indossa sempre la giacca e il panciotto rigorosamente neri, e durante i mesi invernali, mette sopra una redingote dello stesso colore. Comunemente, il cravattino descritto, lo si trova al collo degli artisti. Ma il burbero Regnoli è tutto fuorché un’artista. E’ un medico di questi tempi, scienza e pratica. Capace di gestire le emergenze, e di operare avvedutamente coi ferri del chirurgo. Quando entra nelle case dei poveri, diventa perfino specialista dell’anima, e benefattore. Ma sono abilità che non ha acquisito attraverso gli studi e la pratica.
    La lavallière è indossata dai poeti, dai letterati, dai musicisti… E ’il segno caratterizzante del loro impegno politico a favore degli oppressi. Regnoli è, a suo modo, un paladino degli oppressi. Non è, di certo, anarchico. Ma massone, sì, affiliato alla prestigiosa loggia Giuseppe Garibaldi. E’ stato apprendista nel 1909, quando ha quarantasei anni, compagno un anno dopo, raggiunge il grado di maestro nel 1911.
    La Lavallière del medico ha i due lembi che, ciondolano, sventolando col vento di maestrale, segno visibile di libertà.
    Ha un incedere pesante, il dottore, e un volto poco luminoso, cui fa resistenza il candore dei capelli e del pizzo. Il suo sguardo severo folgora i ragazzini e gli adulti che al suo passaggio “toccano ferro”. Al che lui ribatte: “toccatevi il culo!”. Non è un menagramo, benché vesta in nero, e neppure cinico e sprezzante nei confronti degli umili, come qualche suo avversario lo definisce. Non abbandona i poveri che si ammalano al loro destino, privandoli delle cure o, peggio, lasciandoli morire, secondo le accuse dei suoi detrattori. Come sarà, in seguito, anche, il segretario locale del Fascio Rodolfo Fiumara. Questi biasimerà pubblicamente il medico condotto e pretenderà di sottoporlo “al giudizio dei membri federali” del PNF, “onde adottare i necessari provvedimenti”, perché gli indigenti ammalati non avessero “più oltre a risentire le dannose conseguenze derivanti dall’inattività di detto sanitario”. Regnoli percepiva lo stipendio dal Comune e avrebbe dovuto “compiere scrupolosamente il suo dovere: “ciò prescindendo da ogni questione politica”.
    Forse, semplicemente, il “fratello” Regnoli è massone e antifascista? E si tenta di discriminarlo per la sua avversione al regime?
    Le malignità sul suo conto sono spese male. Non discrimina i meno abbienti. Si adopera, al contrario, per infondere sicurezza nei momenti di ansia e di sfiducia collettiva.
    Per questo è rispettato e stimato, anche da coloro che non possono permettersi di pagare il viaggio di una carrozza per le visite a domicilio del medico. (Tore Abate)

Giovanna Sotgiu – Co.Ri.S.Ma