Garibaldi e la riforma dell’agricoltura
Fino alla metà del secolo XIX l’isola di Caprera, estesa circa 16 km², ha conosciuto una forma di utilizzazione del suo territorio basata sullo sfruttamento del magro pascolo che un modesto strato superficiale di terra consentiva di produrre. La natura del territorio, di formazione granitica, era infatti caratterizzata per lo più da roccia affiorante e dalla macchia mediterranea. Non esistevano insediamenti abitativi ma solo dei piccoli fabbricati per la dimora, non sempre stabile, di pochi pastori che conducevano al pascolo le loro greggi. Non esistevano pertanto aziende agrarie intese come razionali unità di produzione; inoltre, la stessa dotazione della base terriera era da assimilare alla sola terra originaria più che a un riconoscibile capitale fondiario.
Il contesto economico-agrario e sociale descritto è quello che ritrovò Giuseppe Garibaldi quando scelse, come sua dimora, Caprera nel 1856 dopo aver perfezionato l’acquisto, sul finire del 1855, di circa la metà del territorio dell’isola. Il restante territorio lo acquisì successivamente a seguito di una donazione avvenuta dopo circa 10 anni. Nel primo periodo dimorò in una tenda, poi sostituita da un alloggio in legno e infine da una casa in muratura. Egli si dedicò da subito alla coltivazione di specie erbacee ed arboree ed all’allevamento del bestiame. Con questa iniziativa realizzò una vera e propria “conquista” all’agricoltura di una discreta superficie di terreno adottando, in particolare, tecniche agronomiche praticate in altri territori evoluti ma, ovviamente, del tutto sconosciute nell’area del suo insediamento. E’ noto che Garibaldi, con la sua passione e competenza, acquisita a seguito di approfondite letture e di proficua esperienza, ha dato vita ad un’azienda agraria modello, quale esempio significativo da ricordare per le tecniche innovative introdotte e per i risultati produttivi conseguiti. E’ questa, del resto, la posizione di Gian Carlo Fastame che, nel concludere il suo contributo, afferma: “Ciò che Garibaldi ha costruito assume rilevanza non solamente per la sua persona, ma anche per la storia dell’agricoltura di tutta la Sardegna”… Invero, sono molteplici gli autori che hanno documentato con i loro scritti la realtà aziendale realizzata da Garibaldi, per cui affidiamo alle pubblicazioni riportate in bibliografia gli eventuali approfondimenti sull’argomento da parte dei lettori interessati.
In realtà, Garibaldi non si occupò soltanto dell’agricoltura di Caprera, quasi fosse il suo peculiare interesse, ma la sua azione si esplicò a favore della stessa economia regionale. Egli, infatti, sollecitò possibili interventi avendo piena consapevolezza dello stato in cui si trovava l’economia sarda che, rispetto ad altre regioni, era considerata tra le più povere ed arretrate. Le riflessioni sulla situazione economica e sociale definita disastrosa e sulle sue motivazioni, vennero portate all’attenzione dell’allora Presidente del Consiglio dei Ministri Urbano Rattazzi, nel 1862, con un apposito memoriale firmato da Giuseppe Garibaldi, Giorgio Asproni e Giovanni Antonio Sanna. Questo memoriale conteneva inoltre un esplicito riferimento agli ademprivi sollecitando l’abolizione di questi vincoli.
In Sardegna, il godimento collettivo sulle terre comuni, pur conosciuto sin dai tempi antichi e piuttosto diffuso, riceve la denominazione di ademprivio nel periodo della dominazione aragonese e costituisce, così afferma lo studioso Giuseppe Medici, un “complesso di diritti esercitati dalle popolazioni sul terreno appartenente al dominio feudale”. In ambito regionale era maturato da tempo il convincimento che per vicende storiche, economiche, demografiche e fisiche, lo sfruttamento comunitario della terra rappresentasse la forma più idonea di utilizzazione economica. Ma tale forma ha di fatto comportato, nel corso del tempo, se non situazioni di degrado, la conservazione di questo vasto patrimonio allo stato pressoché primitivo, originario, quindi senza investimenti quali piantagioni arboree, case, strade, fossi di scolo, argini. L’attività agricola si esercitava in una situazione di scarsità di capitali mentre quella pastorale mirava, come obiettivo prioritario a procacciarsi il pascolo. Lo stato del capitale fondiario rifletteva così la sua specifica e continua forma di gestione. Al riguardo, F. Cherchi-Paba riferisce che nel periodo feudale, il feudatario assegnava per sorteggio i lotti derivati dalla suddivisione del fondo. In questo modo, l’incertezza sulla continuità nell’assegnazione, non consentiva la realizzazione di investimenti fondiari. Si coltivavano cereali nell’intento di soddisfare almeno le esigenze alimentari di base. L’allevamento di bestiame, in particolare quello ovi-caprino, per contro, aumentava la sua consistenza grazie anche alla disponibilità di terre nelle quali si praticava l’uso civico di pascolo.
Lo stato dei terreni ademprivili della Sardegna appena descritto e da Garibaldi conosciuto, aveva indotto i firmatari del memoriale, prima citato ad assumere una posizione favorevole all’abolizione in quanto i vincoli di uso civico erano considerati ostativi per lo sviluppo ed il progresso dell’agricoltura. Si tratta, in sostanza, dello stesso indirizzo proposto da Francesco Gemelli che nell’elencare gli aspetti negativi dell’uso collettivo della terra, condiziona il “rifiorimento” dell’agricoltura al passaggio in proprietà individuale delle terre comuni, alla delimitazione dei loro confini con recinzioni al fine di promuovere la realizzazione di miglioramenti fondiari, primi fra tutti le case. La proposta, formulata nel memoriale di Garibaldi, non rimase comunque inascoltata in quanto il Parlamento nazionale, appena tre anni dopo, nel 1865, varò la legge n. 2252 che aboliva i diritti di ademprivio.
L’azione di Garibaldi è stata sempre improntata al conseguimento del benessere generale. Il suo impegno in tal senso è continuato dopo il 1862 a favore della Sardegna in quanto la soluzione dei problemi economico-sociali della regione era da considerare nell’interesse dell’Italia intera. Negli anni 1867-70, in qualità di deputato eletto nel collegio di Ozieri, intervenne più volte in Parlamento per sostenere la necessità di un intervento per la bonifica dei terreni malsani dell’Isola, condizione ritenuta prioritaria per avviare un possibile processo di sviluppo. La Sardegna, in quel periodo, era afflitta dalla malaria e la sua persistenza era causa di uno dei tanti circoli viziosi caratterizzanti la condizione economico-sociale sarda per cui l’uomo non poteva insediarsi perché c’era la malaria e, allo stesso tempo, la malaria c’era perché mancava la presenza dell’uomo nei territori. L’attuazione della bonifica dei terreni paludosi e malsani, unita alla colonizzazione, è rimasto sempre l’obiettivo dell’azione politica di Garibaldi anche dopo aver concluso nel 1870 la sua esperienza di deputato eletto in un collegio sardo. Egli, negli ultimi mesi della legislatura 1867-1870, propose comunque all’attenzione del ministro dell’agricoltura del tempo, un progetto predisposto dal conte Francesco Aventi e da lui ampiamente condiviso. Il progetto in questione era suddiviso in due parti: la prima riguardava il risanamento idraulico e igienico delle zone paludose e la seconda l’insediamento umano nelle zone così riconquistate alla fruizione agricola e civile. In proposito, la proposta progettuale consisteva nella costituzione di “20 colonie agricole, assegnando a ciascuna circa 5.000 ettari di terreno, destinati per metà alla pastorizia e per metà all’agricoltura. Ognuna sarebbe stata divisa in dieci poderi”. Per la realizzazione del progetto, era stato quantificato un impegno finanziario, allora, di 30-40 milioni di lire, ma Garibaldi precisò che, in caso di ristrettezze finanziarie, avrebbe fatto richiesta allo Stato per la concessione di circa 100 mila ettari di terreni ex ademprivili. Ottenuta la concessione, Garibaldi avrebbe costituito la Società Nazionale di Bonificazione e Colonizzazione della Sardegna a cui sarebbero stati conferiti i terreni ex ademprivili con l’assunzione di diritti ed obblighi da riportare in un’apposita convenzione tra la società stessa ed il Governo e approvata poi dal Parlamento. La proposta di convenzione, formulata da Garibaldi in 18 articoli, oltre ai diritti doveri specifici dei contraenti e alla definizione dei tempi di attuazione, conteneva “l’impegno ad acquistare o a prendere in affitto la Tanca Regia di Paulilatino, per istituirvi una Scuola Agraria teorica pratica e di Veterinaria e insediarvi vivai e piantonai di varie specie arboree”. In questo modo veniva data un’opportuna rilevanza al percorso di formazione dei tecnici e degli operatori che doveva accompagnare l’attuazione della proposta progettuale. Nell’ambito di questa proposta è altresì importante richiamare il riferimento alla richiesta di concessione di circa 100 mila ettari di terreni ex ademprivili. Ciò in quanto, tale richiesta, si inquadra nel contesto della trattativa, a quel tempo ormai definita, tra lo Stato e la Compagnia inglese che aveva pattuito quale compenso per la costruzione delle ferrovie in Sardegna, l’ottenimento in proprietà di 200 mila ettari di terreni ademprivili derivanti dalla suddivisione in due parti uguali dei beni fondiari, aventi tale origine, posseduti dai singoli comuni. La legge 4 gennaio 1963 approvò la convenzione tra il Governo e la Compagnia inglese per la cessione alla stessa Compagnia dei 200 mila ettari pattuiti. La sua applicazione incontrò però non pochi ostacoli tanto da indurre la Compagnia inglese a sollecitare il Governo per l’emanazione di una legge abolitiva degli ademprivi e che il Parlamento concretizzò con la L. 2252 del 1865, citata in precedenza. Negli anni successivi, nonostante questa legge fosse operativa, il passaggio di terreni in proprietà alla Compagnia inglese non registrò un sostanziale percorso evolutivo, per cui si convenne di stipulare una nuova convenzione tra gli stessi contraenti con la quale la Compagnia inglese si impegnava a restituire i terreni fino ad allora acquisiti, in sostituzione di un incremento dell’appannaggio chilometrico stabilito nella precedente convenzione.
Questa vicenda e la sua conclusione, avvenuta nel 1869, certamente note a Garibaldi, fu probabilmente all’origine della richiesta formulata nel 1870, quindi a distanza di appena un anno, per la concessione dei 100 mila ettari richiamata nella proposta progettuale. Egli, a seguito della retrocessione ai comuni dei terreni ex ademprivili, ne valutava positivamente la disponibilità per l’avvio di un razionale utilizzo agricolo e pastorale. E’ da presumere, inoltre, che Garibaldi facesse affidamento sull’esito favorevole della richiesta in considerazione del contenuto della nuova convenzione stipulata tra il Governo e la Compagnia inglese.
Garibaldi seguì l’iter della proposta progettuale e ne caldeggiò la sua approvazione. Infatti, all’atto stesso della presentazione al Ministro dell’Agricoltura Castagnola, indirizzò una lettera al Ministro delle Finanze Quintino Sella nella quale metteva in evidenza le misere condizioni dell’economia sarda e la necessità, per risollevarla, di promuovere un “rinnovamento agricolo”. E ricordava per raggiungere l’obiettivo i punti salienti del progetto quali la bonifica dei territori e la loro colonizzazione. Al riguardo citava esempi di insediamento umano come quelli di Carloforte e di Montresta, realizzati con risultati soddisfacenti nel secolo precedente. L’intuizione si proponeva, così affermava Garibaldi, lo “scopo sociale” della rinascita della Sardegna. E questa opportunità era data dallo sviluppo del settore economico che, insieme al minerario era fino ad allora praticato nell’isola, e cioè quello agricolo, con tecniche agronomiche arretrate e con risultati economici poco lusinghieri. L’analisi complessiva della proposta progettuale richiama il contenuto di una Riforma agraria. Infatti, oltre alla bonifica e quindi alla possibilità di messa a coltura in modo razionale di vasti territori, nelle stesse aree viene prevista la costituzione di poderi a destinazione agricola o pastorale da assegnare. Purtroppo, il progetto tanto auspicato da Garibaldi non fu realizzato, anzi venne definitivamente abbandonato. La Sardegna è stata solo successivamente interessata da un intervento di Riforma agraria, realizzata negli anni ’50 del secolo XX, su basi diverse, in un contesto diverso, ma su una superficie quasi identica a quella proposta nel progetto di Garibaldi.
Alla morte di Giuseppe Garibaldi, avvenuta il 2 giugno 1882, i suoi eredi decisero di rinunciare alla loro quota di eredità e di donare allo Stato i beni in proprietà del generale e quindi l’intera isola di Caprera. I familiari che continuarono la loro vita nell’isola come la moglie Francesca Armosino e la figlia Clelia, ebbero riservato il diritto d’uso su parte dell’intero complesso edilizio costruito dal Generale Garibaldi. Successivamente, con Decreto del Prefetto di Sassari del 19 aprile 1892, fu data esecuzione al Decreto Regio del 3 novembre 1886 con il quale veniva espropriata, per ragioni di pubblica utilità, l’intera isola di Caprera. Da allora questo bene immobile appartiene al Demanio dello Stato. Così, all’epoca della costituzione del Nuovo Catasto Terreni, istituito con la L. 3682 del 1886, che per l’area di Caprera si fa risalire, presumibilmente, agli anni ’30 del secolo scorso, l’intero territorio di quest’isola ha come intestatario il Demanio dello Stato.
Nel corso del tempo, anche a seguito della morte dei familiari di Garibaldi residenti a Caprera, l’attenzione per la continuazione dell’attività agricola e di allevamento è progressivamente diminuita. Oggi, infatti, l’esercizio di questa attività è pressoché inesistente. E’ stata comunque espressa da più parti la volontà di ripristinare, ove possibile, tale attività al fine di promuovere la valorizzazione di prodotti locali aventi carattere identitario.
Vedi anche: Garibaldi agricoltore
In primo piano il volto di Garibaldi, sullo sfondo il fazzoletto con le sue iniziali macchiato dal sangue della ferita subita in Aspromonte.