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Giuseppe Garibaldi, agricoltore

“Caro fratello, …. Io poi, fratello, mi sono dato interamente all’agricoltura e vango dalla mattina alla sera, ed ho trovato (guarda ch’è bello!) che per quei tali dolori che tu m’hai conosciuto non v’è miglior bagno che quello della zappa.”

Epistolario, lettera all’amico Giovanni Battista Cuneo

«Giuseppe Garibaldi, agricoltore». Sono firmate così decine di documenti, certificati, domande conservate ancora oggi nell’Archivio del Comune di La Maddalena. E a ragione. Francesco Aventi, un esperto di agricoltura che visitò Caprera nel 1868 (il Generale ci abitava soltanto da dodici anni), rimase colpito dalla quantità di lavoro che Garibaldi e la sua gente avevano riversato su quella terra. Nelle altre isole dell’arcipelago, notava Aventi, ci sono poche piante, soltanto qualche sparuto olivastro piegato e attorcigliato dal vento. Qui invece ci sono i pini, i cipressi, gli olivi domestici e perfino pioppi e salici. «I maddalenesi – cosi` li chiamava Aventi – ritengono che gli alberi non allignino a causa dei forti venti di maestrale e di levante. E’ una scusa, che serve a giustificare la loro incapacità e indolenza, perché oltre l’esempio di Caprera Maddalena stessa ha il bellissimo e folto parco tutto intorno alla villa del signor Webber, che pure è costruita in un punto fortemente battuto dai venti dominanti». Ancora oggi la villa Webber, divenuta quasi un monumento storico perché Mussolini vi fu prigioniero durante l’agosto del 1943, spicca da lontano per il verde cupo delle sue grandi piante sull’arida terra tutta intorno.

Ma non erano soltanto alberi che Garibaldi aveva piantato nell’isola. Tutta Caprera era stata assoggettata alla forza domesticatrice del lavoro umano. Aventi restò colpito soprattutto dal vigneto, che aveva 14.000 ceppi e un vivaio con oltre 8.000 viti. Dava un vino così buono ma anche così forte che per berlo senza danni Aventi, invitato alla mensa del Generale, dovette annacquarlo abbondantemente: «Se il Generale – diceva – volesse decidersi a imbottigliarlo e a venderlo con la sua etichetta, potrebbe essere usato per brindare a lui come si fa in tante parti del mondo: e sarebbe difficile brindare con un vino migliore». Accanto alla vigna, il frutteto: c’erano peschi (che crescevano a fatica), ciliegi e castagni (che erano venuti male), melograni, peri e prugne, tutti bellissimi. Bellissimo era soprattutto l’oliveto di cento piante che Giuseppe Garibaldi aveva piantato a «Funtanaccia», e dal quale si faceva, con un frantoio piccolo ma razionale, secondo il gusto di Garibaldi, amante di quella vita di Cincinnato ma sempre attento ai progressi della tecnica, anche in agricoltura. Nell’orto accanto coltivava carciofi, patate, pomodori. I carciofi erano moltissimi, tanto che costituivano uno dei piatti forti del menù di Caprera; le patate erano di varie specie; il raccolto dei pomodori ogni tanto andava a male, soprattutto quando l’annata secca negava l’acqua alla terra. La terra piantata a grano ne dava 60 quintali all’anno. In uno spazio vicino c’erano l’erba medica e il granoturco, che servivano per i maiali di quella piccola affollata ‘‘fazenda’’.

Nella fattoria (le cifre sono quelle che ci ha lasciato Achille Cagnoni, un giornalista scrittore che ci fu nel 1866) c’erano 150 bovini, 214 capre, 25 capretti, 400 polli, 50 maiali, 60 asinelli. Niente pecore, all’uso dei pastori galluresi che ritengono la pecora tanto inadatta ai loro terreni rocciosi quanto vi è di casa, invece, la capra.

Sono numerose le testimonianze di amici, giornalisti, scrittori e artisti che raccontano in prima persona le loro visite occasionali fatte a Caprera in cui sedettero a tavola col Generale. Da tutte le descrizioni viene fuori uno spaccato di vita quotidiana molto esclusivo e si accomunano tutte nel rappresentare un’atmosfera domestica molto gioviale, intima e ospitale. Spesso l’eroe mangiava in compagnia dei suoi familiari, degli amici, dei domestici e dei tanti ospiti inattesi che si presentavano da ogni parte d’Italia e dall’estero, tanto è vero che non era raro a tavola sentir parlare tante lingue. Molti di questi commensali non giungevano mai a mani vuote, ma recavano quasi sempre dei graditi doni come bevande e alimenti di ogni genere: salse, riso, zucchero, caffè, vino e dolci. Il Generale si serviva per primo, serviva le signore che gli sedevano al fianco, poi faceva girare il piatto. Alla base dell’alimentazione c’era il forte legame con i prodotti stagionali raccolti nell’azienda i Caprera, e naturalmente tutti i derivati degli animali: carne, latte, formaggio e cosi via. Una cucina contadina povera, ma sana, di qualità e completa, che comprendeva owiamente anche ottimo pesce fresco locale, talvolta sotto sale e d’importazione, e gustosissima selvaggina. Alla fine di ogni pasto frutti di stagione tra cui prevalevano fichi, uva e arance. La tavola, apparecchiata spartanamente, spesso, per risparmiare la scarsa biancheria, veniva ricoperta da vecchi fogli di giornali, e non era insolito scorgere, tra i piedi di Garibaldi e le gambe del tavolo qualche cucciolo di cane ad attendere con pazienza dei graditissimi avanzi. Una cucina attiva da prestissimo, emanava tanti odori già dalle prime luci dell’alba, quando Garibaldi, intorno alle quattro del mattino, aveva l’abitudine di bere un bicchiere d’acqua e una tazzina di latte o caffè, addolcito dal buon miele prodotto dalle api di Caprera, un rosso d’uovo e del pane. Dopo la prima colazione iniziava un’intensa mattinata di lavoro tra vigneti e campi, e la fatica spesa a zappare e seminare veniva ricompensata da pranzi molto sobri, abbondanti ma spesso di unica portata, a base di pietanze che variavano sempre: dalle zuppa alla polenta, dalle fave o legumi in genere ai carciofi e le patate, dalla pasta al brodo, dalle insalate di pomodoro e verdure varie ad antipasti di olive in salamoia e formaggi, la carne e il pesce. Il tutto quasi sempre accompagnato da un ottimo vino prodotto nell’isola, da colore scuro e il sapore deciso, lodato da esperti agronomi che ospiti del generale l’avevano assaggiato e apprezzato per l’ottima qualità, e che spesso Garibaldi usava alleggerire versandone solo qualche goccio a colorare il suo bicchiere d’acqua.