Almanacco isolanoCo.Ri.S.MaLa Maddalena Antica

I benedettini nell’Arcipelago

Convento di Lavezzi

Il 12 ottobre 1243, con una bolla di Innocenzo IV diretta ai “…priori et fratibus Sancta Mariae inter insules Budellis”, la comunità di eremiti stanziata da almeno un cinquantennio nell’isola di Santa Maria veniva ufficialmente riconosciuta dal papa ed inquadrata nella regola di San Benedetto. Tre anni dopo, il 19 giugno 1246, analogo riconoscimento veniva concesso al monastero di “Sancto Angelo in Porcaria” che sorgeva a La Maddalena nella zona di Cala Chiesa.

Sono questi i primi documenti che comprovano, in epoca storica, la presenza umana nelle isole dell’Arcipelago anche se nei precedenti anni 1238 e 1239, prima del riconoscimento papale e dell’inquadramento dei monaci stanziati nelle isole sotto un preciso ordine religioso, si sono riscontrate in cartolari bonifacini di notai genovesi notizie di lasciti e di controversie nelle quali vengono citati i cenobi di S. Maria del Budello, S. Angelo de Porcaria, S.Stefano de Buxinaris, e S. Maria de Labeti.

Tale solerzia della Chiesa non era però del tutto disinteressata. Al priore di Santa Maria di Budelli, difatti, appena dieci giorni dopo che la sua comunità religiosa era stata riconosciuta, fu affidata una delicata missione diplomatica sotto la quale si celavano le mire del papa di impadronirsi del Giudicato di Gallura e Logudoro e di riaffermare così gli antichi diritti che la Santa Sede riteneva di avere sulla Sardegna in virtù di quella Donazione di Costantino riconosciuta poi falsa.

Il Giudicato, che comprendeva gran parte dell’attuale provincia di Sassari e parte di quella di Nuoro, era retto da Adelasia di Torres e dal marito Ubaldo Visconti, figlio primogenito di Lamberto Visconti e parente dei papi Innocenzo III e Gregorio IX. Alla morte di Ubaldo, avvenuta nei primi mesi del 1238, “Il papa Gregorio IX – come riferisce il Costa – fu sollecito a scrivere un’affettuosa epistola alla parente vedova; e per meglio consolarla le propose un nuovo marito nella persona di Guelfo de’ Porcari, ligio alla Sede Pontificia, e per conseguenza adatto a tutelare quei certi diritti che i papi pretendevano di vantare sul regno di Torres e su tutta l’isola di Sardegna”.

Ma la famiglia genovese dei Doria, imparentata con Adelasia e interessata a tenere il papa lontano dal regno, fece in modo che l’imperatore di Germania, lo scomunicato Federico II, offrisse alla giudicessa la mano del suo giovane figlio illegittimo Enzo. L’idea di sposare un giovane diciottenne allettò Adelasia e le nozze, malgrado le minacce di scomunica con le quali il pontefice aveva accompagnato il suo “suggerimento”, furono celebrate nell’ottobre del 1238 forse prima ancora che passasse il termine di trecento giorni prescritto dai canoni per la contrazione di nuovo matrimonio. Enzo, trasferitosi nell’isola, assunse dunque il titolo di Re di Sardegna conferitogli dall’imperatore sdegnando di prendere quello più modesto di giudice offertogli dalla moglie.

I tuoni papali non si fecero attendere e la preannunciata scomunica colpì non solo i due sposi, ma tutti coloro che avevano parteggiato per Enzo e contribuito al suo matrimonio. L’unione fra la giudicessa e il giovane sposo non doveva però essere duratura; Enzo, sebbene dal solitario castello del Goceano si fosse trasferito nel palazzo di Sassari che ancora oggi porta il suo nome, abituato ai fasti della corte paterna ove poetava col fratello Manfredi, e forse per nulla attratto dalla matura consorte, nel luglio del 1239, pochi mesi dopo le nozze, richiamato dal padre per prendere parte alle guerre d’Italia, abbandonò Adelasia e la monotona corte giudicale lasciando alla propria madre il governo del Giudicato e designando per suo vicario Michele Zanche, singolare personaggio, caduto poi sotto il pugnale di Branca Doria, al quale, per i suoi intrighi, Dante non esiterà a dare stabile dimora all’inferno nella bolgia dei barattieri.

Adelasia, moralmente ferita, si ritirò a espiare il suo dolore tra le grigie mura del castello del Goceano da dove, nel 1243, implorò il perdono del papa. Frate Guglielmo, priore di Santa Maria, con bolla pontificia del 23 ottobre dello stesso anno, ebbe dunque l’incarico, unitamente all’arcivescovo di Arborea, di sciogliere dalla scomunica la pentita Adelasia ed i partigiani di re Enzo (…nunc ad mandatum Ecclesie plene redimere desiderent) e di preordinare lo scioglimento del matrimonio che fu attuato con una strana formula che potremo definire non di “annullamento”, ma di un vero e proprio “divorzio”, forse il primo divorzio della storia moderna. Enzo, difatti, continuò a regnare in Sardegna a mezzo del suo vicario Zanche e sposò poi la figlia (o nipote) di Ezzelino da Romano. E’ probabile che anche Adelasia, come suppone il Costa, abbia contratto nuovo matrimonio con l’ineffabile Zanche che la storia vuole invece sia stato il suo carceriere.

In riconoscimento dell’esito positivo della delicata missione diplomatica, Pietro, vescovo di Civita – come riporta Dionigi Panedda – il 7 aprile 1246 emise un decreto con il quale accordava esenzioni e privilegi al monastero di “Sancta Maria delle Isole Budellis”, il cui priore, in calce al documento si firmò “frater Jacobus prior monasterii Sancte Marie insule Celsarie”. Il decreto del vescovo venne integralmente riportato nella bolla di convalida e conferma emessa il 19 giugno 1246 da Innocenzo IV unitamente ad altra bolla che accordava analoghi privilegi al monastro di Sant’Angelo in Porcaria.

L’anno precedente, con atto di donazione dell’11 giugno 1244, Adelasia aveva destinato al convento di Santa Maria la villa di Surache o di San Pietro di Suraca (scomparso villaggio situato probabilmente nei pressi dell’odierno stazzo “Lu Nuracu” nella zona di Bassacutena) con tutte le sue pertinenze (Curiam in villa que vocatur Surake pertinentem ad ipsam, cum omnibus possessionibus, terris, pascuis, ancillis et aliis pertinentiis). L’atto di accettazione della donazione fu sottoscritto da fra Donato da Ponte de Bove.

Ma i benefici destinati ai conventi erano destinati ad accescersi; in “Rationes Decimarum Italiae-Sardinia”, difatti, la Racheli ha trovato conferma delle decime pagate “in libbre di cera” alla diocesi di Civita negli anni 1341 e 1342 e dal 1346 al 1350, notando che nel 1342 era priore frate Nicolò e dal 1347 al 1350 frate Benedetto.

I benedettini di Santa Maria, come riferisce lo storico Dionigi Scanu nel suo “Codice Diplomatico fra la Santa Sede e la Sardegna”, oltre alle chiese di La Maddalena e Santo Stefano, nel 1291 avevano fondato una chiesa e un convento da loro dipendenti anche a Bonifacio e avevano dato vita nelle isole ad una vera e propria comunità composta non solo da religiosi, ma anche da pastori, contadini e marinai, nella quale trovavano pure sicuro rifugio fuorusciti e perseguitati politici. E’ anche possibile che i conventi fossero di valido supporto ai naviganti in transito nelle Bocche e ai pescatori di corallo, che probabilmente fin da allora frequentavano l’arcipelago. Il Baratier, difatti, dà notizia di un atto del 26 giugno 1257 con il quale venivano concessi privilegi a corallari marsigliesi per la loro attività nelle acque di Caprera. Non è poi da escludere che i nostri monaci siano stati gli antesignani dei fanalisti assumendosi il compito di accendere i fuochi durante la notte per favorire la navigazione in quelle acque insidiose. Ad avvalorare queste tesi valgono certamente le numerosissime concessioni e privilegi di cui godettero i monaci in Toscana, in Campania e nella Sardegna Giudicale per la pesca in mare. Marco Marini, difatti, nella sua opera sulla pesca a lavorazione del corallo in Sardegna ipotizza l’attività diretta e indiretta dei monaci nella pesca e nelle attività marinare, sia per la grande importanza che il pesce aveva nella dieta dei religiosi, sia per l’intraprendenza dei medesimi nei commerci, Non esclude poi, che, per le necessità legate alla loro missione, i frati dislocati nelle isole e sulle coste disponessero di imbarcazioni da loro stessi costruite e pilotate.

L’insediamento ebbe vita prosperosa fino alla metà del 1500 allorquando le frequenti incursioni di Ariadeno Barbarossa (Khair ad-din) e dello spietato Dragut, suo successore, costrinsero coloro che erano sfuggiti alla schiavitù ad abbandonare le isole. I frati trovarono rifugio nella loro chiesa di Bonifacio, città ben munita che poteva validamente far fronte alle scorrerie musulmane. Da allora frequentarono sempre più raramente le isole, ove si recavano solo di tanto in tanto per fare ricognizione del bestiame lasciato brado, abbandonandole poi definitivamente. Dei conventi, rasi al suolo o caduti in rovina, non rimase alcuna traccia anche se l’abate Casanova nella sua “Storia della Chiesa corsa” del 1931, riferisce che la chiesa di Santa Maria viene menzionata come ancora esistente nella relazione stilata in occasione di una visita apostolica che l’arcivescovo di Luni e Sarzana, monsignor Spinola, fece a Bonifacio nel 1686.

Nella nuova definitiva sede di Bonifacio i monaci dell’arcipelago non persero però la loro dipendenza dalla diocesi di Civita: come commenta la Racheli, rimasero in una posizione intermedia destreggiandosi fra Pisa, Genova e il Papato, ma mantendosi essenzialmente al servizio di quest’ultimo, di modo che, pur avendo definitivamente lasciato la Gallura continuarono a godere sia dei benefici a suo tempo concessi dal papa, sia dei lasciti di Adelasia e certamente di altri lasciti che ad essi si erano aggiunti. Tuttavia, i depositi di donazioni fatte alla chiesa di S.Maria di Budelli, registrati al Banco di San Giorgio di Genova a partire dal 1445, fanno presumere il progressivo distacco dei nostri monaci dalla diocesi gallurese.

E la cosa andò avanti per quasi due secoli. Difatti, mentre dopo il colpo di mano del 1767 si dovette pianger miseria perchè la comunità maddalenina fosse dotata di una chiesa, ben cinque anni prima, nel 1762, un sacerdote genovese, don Tommaso Leandro Serra, venuto a conoscenza che nell’arcipelago era stanziata una popolazione priva di culto e forse avuto anche sentore delle intenzioni del governo sardo-piemontese di impadronirsi di quelle isole, si era offerto di provvedere al conforto religioso degli abitanti trasferendosi a La Maddalena con l’impegno di costruire a sue spese una chiesa a condizione però che gli venissero assegnate, per sé e per i suoi successori, le dotazioni a suo tempo conferite ai monasteri benedettini.

Il prete genovese, nel gennaio del 1762, con una lettera ritrovata dal parroco di La Maddalena don Salvatore Capula nell’archivio capitolare di Castelsardo, città ove fu poi trasferita la soppressa diocesi di Civita, assorbita da quella di Ampurias, così si rivolge al vescovo:
Nelle isole vicine alla Sardegna in faccia al territorio di Bonifacio, erano anticamente erette le chiese di S.ta Maria Maddalena, San Stefano, Santa Maria, San Ponziano ed altre: fra dette isole, diocesi di V.S.Ill.ma e Rev.ma abitava un certo popolo di Bonifacio, e nelle dette chiese, ora rovinate, prestavasi a Dio il dovuto culto, come si ha da pubblici documenti.
Mentre era in questa priore Don Michele Pietra di Bonifacio trovasi fra esse chiese dotata con queste parole: Ecclesia S.ta Mariae de Budelly de Bonifacio, indi accresciuta dallo stesso col frutto annuo d’esse dotazioni a pro d’esso Don Michele, e de’ futuri Priori del Priorato fra l’Isola de Budelli (così detta dal volgo) come delli perpetui legati. Perciò consta che a detta chiesa sia stata conferita, la serie di quasi due secoli a sacerdoti di Bonifacio, sotto il titolo di Priore del Priorato di S. Maria tra l’Isola di Budelli Civitates Diocesi come dalle rispettive collazioni o siano assegnazioni.
La Barbarie di Dragut Capitano de Turchi atterrò dette chiese et estinse quel popolo et a poco a poco la cupidigia de Forastieri a vista dei frutti d’essi legati, benché tenui, ha spinto altri ordinari a metter mano nell’altrui diocesi, con tanto danno de successori abitanti nell’isole suddette, quanto a vedersi senza sacerdote e senza chiesa”.

E dopo aver rivelato al vescovo che da due secoli i preti bonifacini, a scapito della diocesi di Civita, godevano dei lasciti di Adelasia e delle assegnazioni conferite dal papa ai conventi isolani, il canonico Serra così prosegue:
Dirò quando si degnasse la S.V.Ill.ma concedere il jus patronato d’esse Chiese, e di nominare il sacerdote loro all’infrascritto supplicante, e suoi eredi, attinente ad esso Don Michele, si curerebbe di riedificar detta Chiesa di Santa Maria, o quella, che fra le dette isole fosse a maggior comodo delle genti che vi abitano con le loro famiglie, lontani sempre da ogni chiesa e culto di Dio”.

A questo punto l’astuto canonico, messa la pulce nell’orecchio al vescovo sardo, si offre di provare documentalmente quanto da lui asserito, ma, da buon genovese, prima di mettere le carte in tavola pone la condizione di essere subito nominato priore con le relative assegnazioni. Difatti, aggiunge:
Riservandosi umiliare a V.S.Ill.ma l’accennati pubblici documenti nel tempo istesso che avrà l’onore di presentare per la collazione, o sia istituzione da farsi nel medesimo dalla S.V.Ill.ma Padrone”.

E infine la sviolinata di rito: “E mentre le suddette cose rendono a maggior gloria di Dio, all’aumento del Pastoral suo Grege, et in vantaggio dell’Anime ivi abitanti spera essere graziato, et umilmente baciandole le sacre mani le fa profonda riverenza”.

Il documento, appena citato dal prof. Renzo de Martino, tutt’ora inedito nella sua interezza, è sfuggito a suo tempo alla pur attenta e vasta opera di Carlino Sole sulla “Sovranità e giurisdizione sulle Isole Intermedie”, in quanto egli non ne era certamente a conoscenza. La ricerca del Sole fu pubblicata nel 1959 e la scoperta di don Capula risale alla fine degli anni ’70. Questo inedito atto, oltre a costituire nella lunga diatriba sull’appartenenza delle isole fra il re di Sardegna e gli eredi della repubblica di Genova una preziosa testimonianza, per di più di fonte genovese, sulla giurisdizione, quanto meno ecclesiastica, esercitata sulle isole dalla diocesi di Civita, fornisce precise indicazioni sui cenobi dell’arcipelago citando distintamente, oltre alla finora sconosciuta chiesa di San Ponziano (il papa deportato in Sardegna), la chiesa di Santa Maria Maddalena, quella di Santo Stefano, citata anche dal Floris, e, infine, quella di Santa Maria, da individuare forse con la chiesetta di “Santa Maria di Labeti” sull’isola di Lavezzi le cui vestigia, a differenza di quelli delle nostre chiese, sono i soli sopravvissuti. Alcuni documenti della prima metà dell’800 accennano però a dei ruderi di una vecchia chiesa utilizzati ed inglobati nella casa costruita nell’isola di Santa Maria da Giuseppe Bertoleoni, passato poi alla leggenda come il “Re di Tavolara”. I ruderi del cenobio benedettino, difatti, erano ancora esistenti nella prima metà dell’ ’800 tanto che, in una lettera del consiglio comunitativo del 1° dicembre 1840, diretta al viceré in occasione di una vertenza per la divisione delle terre sorta col Bertoleoni, si lamentava che questi “…ha abitato la chiesa antica in buono stato nella quale appena vi ha fatto qualche riparazione nella copertura e di dentro per sua convenienza, ciò che mai da nessuno degli antichi è stata abitata per riguardo al Tempio per cui consagrata fu col titolo di Santa Maria, il di cui simulacro stato veramente trasportato nella città di Bonifacio, Corsica, abbandonata per le circostanze del tempo”.

Traspare chiaramente dal contenuto della lettera del consiglio comunitativo che, oltre alle vestigia della chiesa, erano ancora vivi nella popolazione isolana il ricordo e il rispetto per quel luogo sacro tanto da far tacciare di empietà il Bertoleoni che l’aveva occupato, anche se, come accenna il Floris, ne avrebbe avuto il consenso ecclesiastico.

Allo stesso Bertoleoni, difatti, si riferisce certamente il Floris nel suo “Componimento topografico storico dell’Isola di Sardegna”, quando, descrivendo il nostro arcipelago, dice che nell’isola di “…Santa Maria… si conserva ancora una piccola chiesa, ora abbandonata, fabbricata a grandi sassi quadrati con altri indizi di accasamento contigui alla chiesa, ed un pozzo d’acqua ancora accosto alla chiesa, come ho veduto coi miei occhi propri”, e aggiunge: “La qual chiesa nell’anno 1818 che vi fui io, un Possidente dell’isola della Maddalena, con permesso del vescovo, la riduceva a casa profana”.

Ma tornando al nostro canonico Serra è evidente che la sua richiesta non ebbe seguito; la Diocesi non rivendicò mai i legati conferiti ai monasteri benedettini che certamente si estinsero poi con l’abolizione del regime feudale. Gli strani abitanti delle Isole Intermedie, tenuti in quegli anni sotto stretta osservazione per gli illeciti traffici che intrattenevano con i pastori aggesi, quando cinque anni dopo verranno sottomessi alla sovranità sardo-piemontese, saranno ancora senza chiesa.

E la nascente comunità maddalenina, tagliata immediatamente fuori dai contatti con la chiesa di Bonifacio, dovrà attendere ancora molti anni prima di avere il conforto del culto religioso.

Dei “pubblici documenti” citati dal Serra, le famose “carte” che l’astuto canonico non mise in tavola e che tanta luce potrebbero portare nella storia delle nostre isolette, purtroppo non si è più avuta alcuna notizia.

Antonio Ciotta