La nave Romana di Spargi
Nel II secolo a. C., la fine vittoriosa della Guerra Punica e l’incontro con la cultura greca liberarono nelle popolazioni italiche, ormai unite sotto Roma e temperate dai durissimi sacrifici sopportati una straordinaria esplosione di energie e di vitalità. L’intero bacino mediterraneo si apriva alla conquista, allo scambio dei beni e delle opere culturali. Sul mare si disegnarono cento e cento rotte di civiltà tra l’oriente e l’occidente; le navi subirono sostanziali miglioramenti costruttivi e con esse i recipienti e i metodi per il trasporto delle merci; le tecniche di navigazione erano ormai collaudate e perfezionate non soltanto dall’esperienza bellica di tante battaglie navali, ma, come s’è detto, dalla stessa attività piratesca che dovette la sua fortuna proprio ai progressi che l’uomo mediterraneo andava facendo nella conoscenza dei venti, delle correnti, dei fondali, dei ridossi.
L’Arcipelago de La Maddalena fu uno dei centri nodali del traffico marittimo in tutto il II e I secolo a.c.; innumerevoli navi solcarono le Bocche di Bonifacio – il Fretum Pallicum dei romani – in ogni direzione e il ritrovamento di una moneta d’argento di età repubblicana La Maddalena, segnalato dallo studioso G. Spano nel 1869, è il primo dato certo della presenza romana nelle nostre isole.
Nel 1907 il Capitano di vascello Aristide Garelli, autore del più antico volume di un certo rilievo sulla storia dell’Arcipelago, scrisse: “Sul fondo del Canale della Moneta, che separa La Maddalena dalla vicina Isola di Caprera, sono state trovate anfore di perfetta fattura romana…”. Non sappiamo se si riferisse a quelle rinvenute da Garibaldi quasi 30 anni prima, delle quali il generale fece generosa donazione ai molti visitatori di Caprera. Il Garelli pubblicò la fotografia di una di esse, conservata allora al Comando della Marina Militare de La Maddalena.
Bisogna arrivare al 1939 per giungere al più famoso ritrovamento archeologico di età romana: in quell’anno il palombaro maddalenino Lazzarino Mazza, probabilmente su segnalazione dei pescatori, si immerse in uno specchio di mare chiamato Secca Corsara a meno di 4 miglia da La Maddalena, fra l’isola di Spargi e la costa sarda. Sul fondo, a 18 metri di profondità, giaceva il relitto di una nave carica di anfore; l’uomo ne portò alla luce una decina, che ben presto si dispersero fra vari estimatori.
Allora non si parlava ancora di archeologia subacquea e delle tecniche di scavo relative; subito dopo il ritrovamento scoppio la seconda Guerra Mondiale, le acque dell’Arcipelago videro ben altre spedizioni, relitti moderni andarono a raggiungere sui fondali quelli antichi e sulla nave di Spargi scese l’oblio.
Passarono quasi vent’anni. Nel 1957 il giornalista Gianni Roghi, appassionato subacqueo, tornò a Secca Corsara sulla scia delle voci del mare, e riscopri la cava sommersa di anfore romane.
Ma Roghi non era un avventuriero; andava in quei tempi affermandosi la ricerca scientifica dei reperti che il mare celava: si trattava ancora di pochi ma valorosi cercatori, nei quali l’amore per il mistero subacqueo non cedeva nulla alla sconsiderata caccia al tesoro né alla pesca di rapina. Un relitto in fondo al mare era da studiare con metodo e con estrema cura quanto, se non più, di un rinvenimento in terra.
Roghi si intese con Nino Lamboglia, direttore del Centro Sperimentale di Archeologia Sottomarina, nato sotto l’egida dell’Istituto di Studi Liguri, per effettuare una prima campagna di ricerca nell’anno seguente. Lavorarono intensamente per prepararla. Trovarono i necessari finanziatori nell’editore Rizzoli e nella Regione Autonoma della Sardegna. Misero a punto attrezzature metodi.
Nell’aprile del 1958 la motonave Medusa con equipaggio e 15 sommozzatori raggiunse il luogo ove si giaceva i relitto e iniziò l’impresa che sarebbe durata tre settimane.
Fu impiegata una tecnica assolutamente innovativa per quei tempi, suddividendo il tratto di fondo su cui giaceva il relitto in un reticolo di riquadri di bacchette metalliche che consentiva di fare prospezioni esatte dei reperti contenuti in ciascun quadrato; furono fatti rilievi fotografici di ogni riquadro, fu disegnata una mappa del fondo e infine fu recuperato il primo strato di trecento anfore, centinaia di patere, vasi e altra ceramica. L’équipe riuscì anche a trovare parti della chiglia e del fasciame e a localizzare la prua della nave, stabilendone quindi l’esatto orientamento.
Tra il tecnico Roghi e lo scienziato Lamboglia v’era comunque una discussione di fondo: mentre il primo riteneva che si dovesse recuperare al più presto l’intero carico della nave, l’altro, che dell’impresa era il direttore scientifico, esigeva che l lavoro fosse rigorosamente sistematico, ripetendo la faticosa riquadratura ad ogni strato di anfore. L’ebbe vinta Lamboglia e si decise di riprendere il lavoro l’anno successivo.
La seconda campagna fu però molto breve: dal 19 al 29 agosto 1959. Si era armata una nuova nave, attrezzata specificatamente per le ricerche di archeologia sottomarina, il Daino, che in seguito sarebbe stata protagonista di importanti rinvenimenti nei mari d’Italia, fra cui i primi scavi di Baia. Questa volta, , oltre alla Regione Autonoma della Sardegna, intervenne, anche finanziariamente, la Soprintendenza alle Antichità di Sassari.
Immergendosi, i sommozzatori si accorsero che l’aspetto del relitto di Spargi era profondamente mutato rispetto all’anno precedente: pescatori di frodo con il tritolo, correnti marine e movimento della sabbia, avevano agito sulla posizione dei reperti; i paletti di riferimento erano stati divelti o dispersi. Si procedette ad una ulteriore rivelazione mediante riquadri di nuova ideazione e si fecero importanti scoperte sulla struttura lignea e metallica della nave. Fu anche rinvenuto un cranio umano, unico testimone che si conosca di un naufragio di duemila anni fa.
Il tempo non permise di portar oltre il lavoro: si lasciò il relitto in condizioni tali da poterlo riprendere in una successiva campagna. M;a l’anno dopo e nel 1961 non fu possibile tornare a Spargi.
Nel giro di un paio d’anni, uno sciame di clandestini, attratti dalla fama della scoperta e dalla poca profondità del relitto, si precipitò su di esso e, come avvoltoi su una carogna, lo depredò completamente. Nel 1963 la corvetta Daino tornò sul luogo e, ad una rapida immersione, i sommozzatori trovarono tabula rasa e soltanto pochi frammenti di anfore distrutte.
Nel 1966 il n°11 della rivista “Mondo Sommerso” uscì con un articolo esplosivo di Gianni Roghi nel quale il giornalista pubblicava le fotografie di numerosi reperti trafugati dal relitto di Spargi, inviategli per posta con lettera anonima dai clandestini: si trattava di coppe, patere, colonne e tripodi di bronzo, pietre dure, una statuetta in bronzo, ceramiche. Il giornalista scrive tra l’altro tutto il suo sconforto: “Chi scrive, dopo aver visto coi propri occhi lo scandalo della vendita delle anfore a La Maddalena, inviò una lettera al soprintendente alle Antichità di Sassari. Non gli fu nemmeno risposto“. E si domanda anche che fine abbia fatto tutto il materiale recuperato dalla sua spedizione e consegnato alle autorità di La Maddalena con la promessa di queste ultime di costruire un antiquarium per custodirle.
In effetti il secondo naufragio della nave romana di Spargi continuò per anni. Ancora nel 1974 la “Nuova Sardegna”, in un intervista a Lamboglia a firma di Gian Carlo Tusceri, riferiva: “Non esiste più alcuna possibilità di recuperare la nave di Spargi. … la sua struttura, il suo prezioso carico sono sostanzialmente perduti. Si tratta di una perdita incalcolabile: tanto più amara quanto più la nave oneraria romana si trovava nelle condizioni ideali per essere protetta“. Frattanto, invece del piccolo antiquarium di cui scriveva Roghi otto anni prima, ora a La Maddalena si favoleggiava di un Museo Navale per custodire il prezioso tesoro scampato ai clandestini: ma esso continuava a giacere nel capannone militare abbandonato e aveva subito vari furti. La Soprintendenza alle Antichità di Sassari prese allora la grande decisione di murare il capannone; così, mentre i reperti “legali” del relitto di Spargi dovevano essere tutelati chiudendoli dentro una tomba-bunker e sottraendoli per decenni agli esami degli studiosi, quelli “clandestini” davano vita a un florido quanto miserabile commercio per iniziativa di italiani, francesi, tedeschi, austriaci e svedesi. Alcuni pezzi furono recuperati, dopo la clamorosa denuncia di Gianni Roghi, in un ricco appartamento di Milano; degli altri più nulla.
Purtroppo, prima Gianni Roghi, poi Nino Lamboglia sono morti ancora Giovani; perciò la nave di Spargi ha perduto i suoi scopritori e i suoi storici più intelligenti e disinteressati. Tuttavia da quanto essi hanno fatto e scritto è possibile tracciare alcune linee che, come un incerto graffito sulla dura pietra della cultura, salveranno una traccia storica della navigazione romana del II e I secolo a.C. nell’Arcipelago de La Maddalena. Queste esili tracce le dobbiamo ai due valorosi ricercatori, ad onta dell’irresponsabilità sociale e culturale di ricchi acquirenti clandestini che stanno in agguato ogni estate a bordo dei loro Yacht, per sottrarre i reperti innumerevoli che costellano, oltre al relitto di Spargi, quel gran cimitero di navi che è la zona di mare tra Sardegna e Corsica.
Dunque, nel decennio compreso fra il 120 e il 110 a.C., un giorno una robusta nave oneraria (=da carico) romana proveniente dal Basso Tirreno imboccò il difficile dedalo di mare e isole che i marinai chiamano appunto cuniculariae. Si lasciò sulla sinistra l’Isola delle Bisce con i suoi pericolosi scogli e imboccò il passaggio tra la costa sarda e, sulla dritta, Phintonis (Caprera) che aveva davanti un’altra isoletta, quella che oggi pur essendo diventata una penisola, si chiama ancora Isola Rossa. Poco oltre, passò tra S. Stefano e Ilva (Maddalena), che forse a quei tempi si chiamava Fossae.
Quel tratto di rotta non era certo facile sia per l’insidia dei fondali irti di secche e scogli, sia per i venti violenti e bizzarri che da settentrione a ponente si incanalavano come cavalli selvaggi lungo il fretum Pallicum (Bocche di Bonifacio), capaci di scatenare in men che non si dica Nettuno e tutti i suoi tritoni, sia infine per i rischi di una certa pirateria che andava facendosi sempre più insidiosa e che proprio tra i cunicula di tante isole trovava i suoi migliori luoghi di agguato.
Per ovviare a quest’ultima insidia, anche i marinai di questa nave, come tutti ormai, avevano preso la buona abitudine di ripararsi il capo con un elmo di bronzo e forse il petto con leggere corazze.
Quanto al mare, essi erano abbastanza sicuri,; la nave era ben fatta: 150 tonnellate di stazza, lunga 35 metri e larga 8: aveva robuste costole di rovere di cm 10 x 10, ben fissate a un fasciame dello spessore di 36 cm fatto con tavole in legno di pino, connesse longitudinalmente da solidi tasselli con chiodi di rame rivestiti di piombo per preservarli dall’elettrolisi. Sopra il fasciame, per proteggere il legno dalla salsedine, i fianchi erano coperti da una lamina di piombo tenuta con chiodi di rame infissi con estrema cura a 4,5 cm uno dall’altro, in file alterne. La poppa poi era stata rivestita con una lastra di bronzo spessa 3 mm.
Anche il carico era stivato razionalmente. Nel centro a poppa gravava il gran peso delle anfore in 3 o 5 piani, ognuna infissa con il peduncolo, o puntale, negli incavi formati dai colli d’anfora del piano inferiore. Ve n’erano di panciute con collo breve e tozzo e manici piccoli, e di snelle dal lungo collo e dalle belle anse, di tipo italico. Erano state costruite da chi si intendeva bene dello stivaggio per la navigazione, con tanto di marchio di fabbrica “SAB”. In tutto potevano essere 2000 anfore, così compatte ed elastiche nel loro insieme, da sopportare ogni rollio e beccheggio del natante.
A prua era sistemata la ceramica, patere, vasi e coppe, di quella che a quei tempi andava più di moda – definita oggi “ceramica campana B” – prodotta in grande serie nella ricchissima provincia italica; v’era anche qualche pezzo di “campana A”, più vecchia, e molti unguentari in pasta vitrea multicolore, anch’essi piuttosto superati, ma ancora richiesti sui mercati verso cui la nave era diretta. Proveniente dall’Italia meridionale (forse da Pozzuoli), la meta era probabilmente Turris Libisonis (Porto Torres) oppure Marsiglia e la Spagna.
Nel castello di poppa, era sistemato il luogo di culto ove il comandante compiva i riti alla dea Tutela, alla quale si confidava la protezione della nave e dei naviganti: v’era un’edicola di marmo composta di un piccolo altare alto 60 cm sormontato da due colonne laterali scanalate dal simulacro in bronzo della divinità.
Forse quel giorno, prima di intraprendere la traversata dell’Arcipelago, il comandante avrà pregato la dea che tante volte in passato aveva tratto la nave da fiere burrasche. Fin qui la navigazione era stata buona, ma da quando si avvistarono da lontano gli Areti promontoria (Capo d’Orso), il colore del cielo e del mare indicarono agli uomini che il vento la faceva da padrona nel fretum. Il mare nelle Fossae (Canale de La Maddalena) non era poi così agitato; d’altra parte al comandante non garbava l’idea di rifugiarsi in una delle isole con un carico così pesante, l’incertezza dei fondali e il rischio dei pirati. Meglio parve tentare di raggiungere la costa sarda dove sapeva esservi almeno due basi militari romane. Per il momento decise di tenersi a ridosso della Ninphaea (Spargi). Ma no avevano percorso un miglio, che il vento rinforzò e la nave entrò in un gioco di correnti che l’attirava sempre più verso la punta meridionale dell’isola e nessuna manovra riuscì a liberarla dalla morsa. Onde tumultuose spazzarono la coperta e il peso della stessa imbarcazione la faceva scarrocciare sbandando da una parte all’altra, mentre l’acqua penetrava ovunque e allagava progressivamente la stiva.
Le scogliere di Ninphaea erano ormai a meno di un chilometro di distanza, quando il mare ebbe ragione della bella nave. Affondò di piatto, appena poco inclinata verso prua; inabissandosi, urtò con la poppa contro un roccione che si levava per 7 metri dal fondo: la lastra bronzea che la proteggeva si accartocciò come un foglio; quindi lo scafo si posò sulla sabbia nei calmi fondali della Secca Corsara. Sopra, il mare mugghiava travolgendo i naufraghi.
Da ” Uomini e pesci ” 1955, Sperling e Kupfer- Milano ” di Gianni Roghi che… nel 1957 va in Sardegna, a Secca Corsara, sulla “scia delle voci del mare” e riscopre con la collaborazione di Attilio e Rodolfo Riva, di Renzo Ferrandi, di Nino Pontiroli e di Salvatore Viggiani la cosidetta cava sommersa di anfore romane già trovata anni prima dal palombaro Lazzarino Mazza e, forse, persino anche da Giuseppe Garibaldi.
E’ il famosissimo relitto di Spargi. Scrive Rodolfo Riva: “…ad un tratto vidi qualcosa sul fondo: come una gobba, lunga e bianca. Mi ossigenai e andai già a guardare meglio: anfore! Tante, a centinaia, accatastate le une sulle altre. Tornai a galla, urlando: “Eccole! Sono qui, le ho trovate!”. Quelli della barca non ci credevano. Dovetti urlare ancora. Poi fu proprio Gianni a venire in acqua per primo. Mi raggiunse, guardò anche lui : ” Bene ” disse ” torniamo a prendere le bombole”. Scendemmo giù in cinque: Gianni cominciò a scattare le prime fotografie; Ferrandi a qualche metro sopra il campo d’anfore, ne disegnò i contorni sopra una lavagnetta di plastica; mio padre, Attilio Riva, perlustrava tutta la zona, mentre io e Pontiroli cominciammo a scavare nella sabbia, tentando di scoprire il legno della nave. Eravamo felici come se avessimo scoperto un giacimento d’oro. Si trattava del primo relitto di nave romana scoperto da sommozzatori nelle nostre acque.
Gianni ci seppe dire subito l’età del relitto: dal tipo delle anfore, giudicò che doveva risalire al 120-100 avanti Cristo, l’età di Mario e Silla. Una nave di duemila anni fa.”