Il predicatore quaresimale
Nella gestione economica della parrocchia si inseriscono le vicende dei predicatori quaresimali. Citiamo qualche episodio relativo a questi personaggi che hanno rappresentato, fino ai nostri giorni, delle presenze importanti nella Chiesa, in grado di spingere o convincere i fedeli all’assolvimento del precetto pasquale e di offrire il sacramento della penitenza anche a quelli che mai avrebbero confessato le loro colpe, per orgoglio, riservatezza o vergogna, ad un prete conosciuto.
Nell’Ottocento erano spesso frati dei vari conventi presenti nella diocesi che, nel periodo della quaresima, venivano chiamati a predicare e a confessare. Non sappiamo cosa pensassero le altre comunità della zona, sappiamo che quella isolana ne avrebbe fatto volentieri a meno se non fosse stata obbligata dalle autorità ecclesiastiche e governative. Ma quando i maddalenini tergiversavano o cercavano altre soluzioni per non dover sborsare le somme necessarie, il Vescovo usava toni pacati e suadenti scrivendo che “la parola di Dio conferma i cuori alla virtù, infonde gli atti di carità e rende ottimi cittadini; quelli che sebbene superficialmente l’ascoltano, vengono a persuadersi che conviene camminare nella via additata dal Signore”; l’Intendente provinciale, molto più bruscamente, minacciava interventi drastici che andavano dalla censura all’arresto. Quindi ogni anno il Consiglio Comunitativo doveva mettersi alla ricerca di un frate disponibile a venire a La Maddalena, assicurandogli una paga concordata oltre alle offerte libere che i fedeli decidevano di lasciargli, un alloggio decente di almeno due camere, una per il frate e una per il suo domestico laico, un locale da adibire a cucina perché non ci fossero commistioni “con persone di ogni sesso”, il vitto per il periodo della predicazione.
Per tutta la prima metà dell’Ottocento, per recuperare le somme necessarie, si organizzava una questua speciale: il sindaco e i consiglieri andavano per le case delle personalità del paese iniziando da quelle del bailo, del comandante del distaccamento militare e degli ufficiali presenti in quel momento. Difficilmente riuscivano a recuperare una sufficiente quantità di denaro, che veniva integrata dal bilancio, sempre misero, del Comune, ma ognuno interveniva secondo le sue possibilità.
Dai documenti degli anni 1829-1832 emergono due fatti curiosi relativi ai predicatori quaresimali che vale la pena di raccontare per capire, da un lato, le difficoltà economiche degli isolani e, dall’altro, la levatura culturale di certi personaggi, laici o ecclesiastici che, come si suol dire, predicavano bene e razzolavano male.
Nel mese di aprile del 1829 il sindaco Simone Ornano, accompagnato dal segretario comunale e dal consigliere Andrea Bargone, si presentò al Quartiere dei cannonieri per chiedere l’offerta al comandante Ippolito Spinola. Era questi un patrizio genovese, capitato chissà come nella nostra isola: possiamo capire che fosse poco contento di essere finito in una guarnigione periferica, ben lontana dai fasti della sua città, e che si portasse addosso malumori e rimpianti. Solo così possiamo spiegare il suo comportamento inurbano e sprezzante nei confronti dei poveri questuanti che così raccontarono i fatti: “La mattina detti 21 corrente mese (aprile 1829) trovandosi li medesimi infrascritti unitamente al consigliere Andrea Bargone facendo la solita questua volontaria fra quegli abitanti per la limosina del predicatore quaresimale, essendosi recata al Quartiere d’infanteria a quest’effetto onde chiedere quella piccola oblazione che avrebbe potuto e dovuto fare il sig. ufficiale Spinola comandante il distaccamento dei cannonieri di marina, non avendolo potuto rinvenire nelle sue camere, mentre stavano sortendo dalla porta principale d’esso quartiersi imbattevano con lui chefacea colà congresso ed al semplice vedere i divoti esponenti e detto loro compagno, portante il sindaco una seviglia d’argento in mano, coi pochi denari ricavati dalla limosina, vestito in fraco, senza bastone o spada e con un berretto napolitano in testa, sebbene per usargli quel rispetto dovuto al suo grado, l’abbiano i rimostranti a capo scoperto indilatamente salutato, prese a fortemente rimproverarli in maniera indegna al suo carattere e troppo impropria alla sua nascita con un Consiglio Comunitativo rappresentante l’intiero comune;… a voce piena li avvilì trattandoli da coglioni, pochi di buoni e minacciandoli altresì di accompagnarli con dei calci come ben li fece l’azione con la gamba sinistra“.
La gravità del gesto e delle parole del tracotante ufficiale non provocarono, apparentemente, la punizione palese che il Consiglio forse si aspettava; l’unica soddisfazione per l’umiliazione ricevuta fu la partenza di Spinola, non sappiamo se volontaria o in qualche modo causata dal suo comportamento.
Il 1832 portò con sé altri problemi provocati, questa volta, proprio dal predicatore. Era questi tale Fedele da Florinas, cappuccino residente a Sassari che, alla fine della predicazione quaresimale aveva inviato lettere di fuoco reclamando pagamenti a suo dire non ricevuti. Dalla difesa dei consiglieri maddalenini, scritta in modo talmente sgrammaticato da risultare di difficile lettura, emergeva una realtà ben diversa. Il frate sosteneva di essere stato alloggiato in locali insufficienti e di essere stato trattato male; essi replicavano di averlo ospitato in due camere e cucina come aveva richiesto e aggiungevano particolari inquietanti sull’atteggiamento del cappuccino che ogni giorno strapazzava i consiglieri con parole crude e poco adatte al suo abito, invitandoli a tirarsi il collo o minacciandoli di portarli “a Tempio a lingua strascinane“; aveva seminato zizzania invece che pace e, infine, era partito senza salutare nessuno; solo, al momento di allontanarsi, aveva chiamato il sindaco e gli aveva lasciato “una corda per dispetto; questa era la corda che voleva portare trascinone il consiglio a Tempio“. Mai altri predicatori si erano comportati così; secondo i consiglieri “il sacerdote non era venuto per predicare, solo si credeva di portarsi tutta la Maddalena in convento” e, aggiungiamo noi interpretando il pensiero dei consiglieri, evidentemente era rimasto deluso. Perciò, concludeva il sindaco Baffigo con tono e parole non proprio adatte alle orecchie del Vicario capitolare che le riceveva, “per l’anno venturo cerchino di mandare un soggetto che sia d’altro carattere“.
Quale soddisfazione potevano aspettarsi i maddalenini? Il Vicario rispondeva, spiacente, che se avesse saputo prima sarebbe intervenuto, ma aggiungeva che per i prossimi anni non si sarebbe più interessato per reperire il predicatore lasciandone tutta la responsabilità ai maddalenini; e l’Intendente provinciale, invece, sobillato da fra’ Fedele che pretendeva il pagamento, minacciava “di far comparire in Ozieri tutto il consiglio scortato colla forza dei carabinieri reali e rimanere in questo capoluogo fino a che avranno soddisfatto il questo (richiesto) salario”. Stavolta i Consiglieri erano sicuri dei fatti loro e non si arresero alle minacce; anzi risposero accusando il frate di falso e presentando i conti: avevano pagato subito 36 scudi dei quali 7 chiesti in prestito proprio per non subire reclami di ritardo, consegnati alla presenza del bailo, del comandante, del vicario e del provicario per cui fra’ Fedele doveva ritenersi soddisfatto. E per rendere più convincente la risposta, il Consiglio chiedeva di poter ricorrere al Viceré.
Dopo la soddisfazione iniziale, la pagò cara perché negli anni successivi ebbe sempre maggiori difficoltà a trovare un predicatore, soprattutto fra i Cappuccini che, essendo venuti a conoscenza degli screzi con fra’ Fedele, rifiutarono per molto tempo di venire a La Maddalena a predicare.
Anche la situazione del 1848 è da ricordare, non più per screzi o strane pretese, ma per la obiettiva difficoltà economica generalizzata che consentiva solo spese indispensabili: il precedente anno il raccolto di cereali era stato scarsissimo ovunque, provocando una forte crisi alimentare con conseguenze drammatiche. Non avendo produzioni agricole proprie, La Maddalena aveva grande difficoltà a procurare il grano necessario per la popolazione. Ma la quaresima incombeva con la necessità di cercare e pagare il predicatore. Non potendosi esimere da questo dovere il Consiglio scrisse all’Intendente una lettera compitissima e dignitosa, condita con una buone dose di retorica, nella quale proponeva diverse soluzioni: i firmatari iniziavano affermando “piace a noi, piace alla popolazione il sentir suonare dal Santo Pergamo la divina parola che tanto è utilissima l’udirla e fattibile in ogni istante per confermare i cuori alla virtù e agli atti di carità”, ma poi, anteponendo a qualunque decisione le ristrettezze del bilancio, proponevano che il predicatore si accontentasse, per quell’anno, delle sole elemosine dei fedeli, oppure che il Parroco intervenisse a completare le somme necessarie, o, infine, si dichiaravano disposti, benché a malincuore, a rinunciare al predicatore. Come era prevedibile dall’Intendenza ricevettero una risposta negativa anche se meno severa del solito forse proprio in considerazione della crisi economica in atto.
Solo in occasione del colera, nel 1854, l’Intendenza prese partito in favore del Consiglio che non aveva potuto fare la solita questua per ovvie ragioni di igiene dovendo evitare il più possibile pericolosi contatti: malgrado le sue lagnanze, il predicatore (era un frate proveniente da Bastia e residente a Sassari), dovette accontentarsi della somma fissa accantonata nel bilancio comunale e rinunciare alla limosina.
Quando, finalmente, con il Regno d’Italia e le sue leggi il Comune si affrancò da quel dovere, a volte concedeva un sussidio alla Chiesa, ma, molto più spesso lo negava e, soprattutto nell’ultimo decennio dell’Ottocento, con i toni tutt’altro che diplomatici di un anticlericalismo viscerale. In una seduta del Consiglio Comunale che respinse la richiesta di contributo con 11 voti su 13, il consigliere Baffigo arrivava ad affermare ironicamente che, come i mendicanti, la Chiesa avrebbe dovuto chiedere alla autorità comunale il permesso anche per fare la questua fra i fedeli; Domenico Bargone chiedeva che i soldi richiesti dal Parroco, 200 lire, fossero più proficuamente impegnati per la carità ai poveri nel giorno dello Statuto. Nella seduta del Consiglio del 29 febbraio 1900 il consigliere Luigi Alibertini (1) polemicamente dichiarava: “Al dì d’oggi sarebbe un atto altamente impolitico, vuoisi a disdoro delle istituzioni che ci reggono che si vorrebbero conculcate e manomesse dai partiti sovversivi, non ultimo quello propalato dalla stampa clericale, …e vuoisi finalmente perché in tal modo si ritornerebbe alla barbarie ed alla frontiera degli antichi domini“. Dopo i soliti richiami a Garibaldi e alla sua azione per unificare l’Italia e eliminare lo Stato Pontificio, Alibertini terminava dicendo che, approvando quella spesa “dovrei dire come quest’amministrazione dovrebbe cambiare nome in oratorio Municipale.. e finisco perché da quest’aula sgorghi il grido non di un rosario ma di Viva il Re“.
Nel Novecento, quando ormai la gestione delle risorse economiche era solo nelle mani del Parroco, le spese per il predicatore venivano affrontate all’interno del bilancio della Chiesa: si trattava sempre di un esborso notevole per cui qualche volta il cappellano militare assumeva questo compito in modo da consentire un risparmio; ma era sempre un surrogato, niente a che vedere con la figura sconosciuta, che anche per questo suscitava curiosità, che avrebbe tuonato dal pulpito all’assemblea dei parrocchiani e confessato nella più assoluta discrezione.
Don Capula cercava persone di qualità, che col loro carisma attirassero i fedeli. Nel 1947, periodo di grande turbolenza politica, aveva chiamato un certo padre Checco che nelle sue infiammate prediche non aveva risparmiato toni e parole forti contro i sovversivi socialcomunisti: questi, indignati, si erano rivolti al Prefetto che aveva girato la cosa al Vescovo e quest’ultimo aveva scritto al nostro Parroco: “… Il Prefetto prospetta il pericolo di incresciosi incidenti. La SV deve conoscere come stanno le cose e, nel caso di disordini o gravi incidenti, su chi graverebbe la responsabilità. Raccomandi quindi al predicatore che pur esponendo la verità e combattendo l’errore, usi la debita moderazione“. Finiva, però, con un certo ottimismo, “ma ormai la Quaresima è al termine“.
Ciò che colpisce è la risposta immediata di don Capula che non solo non mostrava imbarazzo alcuno per una possibile controversia presso la Prefettura, ma affermava con la sua certezza di essere nel giusto: “Io debbo esser grato a padre Checco a cui ho lasciato piena libertà di manovra per quanto ha fatto in questa parrocchia“.
Giovanna Sotgiu – Co.Ri.S.Ma
1. Luigi Alibertini, figlio di Pietro e Maddalena Culiolo, nato nel 1841 e morto nel 1825. Sposato con Maddalena Culiolo (omonima della madre), e, rimasto vedovo, con Domenica Baffigo di 20 anni più giovane. Anticlericale, massone, grande ammiratore di Garibaldi e della monarchia, espresse questi sentimenti anche nei nomi dati a suo figlio che fu chiamato Francesco Garibaldi Umberto Vittorio. Alibertini fu consigliere comunale e sindaco di La Maddalena.