La vita della cava
Dopo il 1904, con la presenza stabile di Attilio Grondona, la soluzione dei problemi organizzativi iniziali e la crescita costante del lavoro, l’organizzazione della cava trovò un assetto sia dal punto di vista tecnico che da quello più strettamente sociale. Il breve quadro che segue, tratto dalle testimonianze delle persone che lo hanno vissuto, si riferisce al periodo che va fino al 1932 circa, prima della grande crisi che portò alla rovina della cava.
Nella grande area di escavazione principale centinaia di persone lavoravano alle dirette dipendenze della ditta sui fronti e sui piazzali di cala Francese mentre il sistema delle compagnie trovava un adattamento nella gestione delle cavette: si trattava di centri di lavoro isolati e autosufficienti localizzati nelle alture vicine alla cava principale, prese in affitto e assegnate a persone in grado di gestirle o con contratto esterno da parte di affittuari in proprio o di proprietari del terreno: al Puntiddò (su terreno di Giggiò Guccini), a San Teramu (su un terreno appartenente alla congregazione di Sant’Erasmo, e che rimase nella disponibilità della SEGIS fino al 1943), a Conca d’a vacca (terreno di Chinelli).
Nel piccolo borgo vicino al mare si era intanto costituita una vera comunità che pian piano si era organizzata dotandosi dei servizi essenziali, fino ad essere quasi autosufficiente.
La cantina era il luogo di incontro dove gli operai scapoli potevano consumare pasti caldi, bere un bicchiere di vino o qualche fiasco (“il vino tiene lontana la silicosi”, dicevano), chiacchierare in compagnia, o giocare a morra, a carte, o a bocce nel vicino campo, allietati da un piano a manovella con 10-12 sonate.
Si trattava di un vasto camerone ad un solo piano prospiciente la cala, inizialmente gestito da Giovanni Bargone, uno degli ex proprietari del terreno, con un contratto che prevedeva, fra l’altro, l’esclusiva nella vendita del vino in cava.
Ma la maggior parte degli scalpellini erano continentali e amavano il vino ligure, quindi preferivano comprarlo da quei rivenditori che, approfittando dei viaggi in entrata dei velieri noleggiati dalla SEGIS, lo importavano dalla Liguria; ciò provocò risentite lamentele da parte di Bargone, rintuzzate subito da una severa lettera della direzione che già seguiva con imbarazzo i suoi conti poco corretti e le lamentele a suo carico. Ci fu perciò un significativo chiarimento: se gli ospiti di cava non consumavano il suo vino era perché questo veniva annacquato e le condizioni igieniche della cantina lasciavano a desiderare (la direzione lo aveva già fatto notare, inutilmente, a Bargone); si ricordava che molti si erano lamentati per prodotti scadenti e, soprattutto, prezzi ingiusti. Perciò si richiamava il gestore, pena il ritiro della concessione, a curare l’igiene e fornire cibi freschi; per quanto riguardava il vino, la direzione era disposta a ordinare il vino ligure gradito agli operai e passarlo direttamente a Bargone purchè questo si impegnasse a venderlo “genuino come lo riceverete, senza farvi miscugli di alcun genere e ad un prezzo limitato contentandovi cioè di un piccolissimo utile”.
Bargone rimase fino alla morte, avvenuta nel 1910; fu sostituito da Ugo Martelli con il quale la cantina divenne un vero e proprio emporio, anche se in dimensioni ridotte, dove si potevano comprare i più comuni generi alimentari e il vino, oltre ad alcuni capi di vestiario come scarpe, cappelli e giacche.
A Santo Stefano i gestori della cantina furono Antonicco Vargiu “Giuannetta”, Berghonzelli e Moro. Nell’edificio sul porto erano ospitati gli scapoli, mentre una sola famiglia (di bergamaschi) risiedeva nell’isola occupando la torre: i maddalenini guardavano con curiosità e con un certo sconcerto questi lombardi un po’ strani che non esitavano ad ammazzare un asino per nutrirsi e che non sapevano nuotare, tanto che uno di loro, pur essendo molto alto, affogò miseramente cercando di attraversare a guado il passaggio per l’isolotto della Paura.
Sia la SEGIS che Schiappacasse avevano messo in circolazione nelle loro cave una speciale moneta, il ghignone, coniato a Genova in rame o in carta.
A Cala Francese un forno comune permetteva alle donne di cuocere il pane a turno; in ogni casa c’era il sacco della farina che veniva setacciata separando la crusca grossa (ottimo alimento per le galline), dalla crusca fine (con la quale si facevano delle cocche morbide e schiacciate). Chi infornava per prima avvertiva, quando il suo pane era quasi cotto, la seconda “cliente” del forno. Quando, intorno al 1930, al terzo gestore della cantina, Magnetti, successero Delato e Ronchi, i due presero l’incarico di preparare il pane per tutti gli abitanti della cava ed inviavano ai negozi di Maddalena la produzione eccedente.
Alla carne, che l’alimentazione delle famiglie prevedeva solo eccezionalmente, si sostituiva il pesce e un certo Zonza “Maurreddu”, abitante nella zona, sfruttava il suo chiattino, oltrechè per occasionali trasporti di persone in Corsica, soprattutto per procurare pesci e totani da vendere alle famiglie della zona: gli abitanti della cava ricordano, con Maurreddu, anche il suo cane dal significativo nome di Pensapertè.
Non mancava nei dintorni una certa produzione agricola; nella vasta piana di Ghjalunà un ortolano proveniente da Oristano, Luigi Cocco, aveva recintato un appezzamento di terreno, aveva chiuso con una parete di pietra un tafone che diventò la sua casa e coltivava ortaggi che vendeva agli abitanti della cava.
Tale attività continuò con Costantino Agus che riusciva a conciliare il lavoro agricolo con l’allevamento della capre e la professione dello scalpellino; con lui la piana cambiò nome assumendo quello di piana di zi Costantì.
La riparazione delle scarpe veniva eseguita in loco dal calzolaio Fadda (padre di Antonio che tanto utile è stato per questa ricerca) che aveva la minibottega in una stanza al centro dell’edificio più grande; per il taglio dei capelli, dopo le ore lavorative, uno scalpellino taccaiolo di Luogosanto, Domenico Putzu, si trasformava in barbiere e, per la modica somma di una lira, prestava la sua opera, spesso all’aperto, col cliente seduto su una pietra semilavorata.
Anche per la morte si era, per così dire, indipendenti: i falegnami della ditta preparavano la bara gratuitamente e il morto, dopo la veglia funebre, veniva accompagnato a Maddalena, atteso all’altezza di Punta Nera dai chierichetti e da Pret’Antò (Antonio Vico, di Tempio).
Nel 1924 si aprì la scuola elementare con il maestro Sebastiano Dessanay che, animato da un forte impegno sociale, ha lasciato un ottimo ricordo di sé; molti hanno ancora chiaro nella memoria il giorno del suo arrivo in cava a fianco della madre, giovanissimo, al suo primo incarico, con la cravatta a fiocco nera a ricordare la recente morte del padre. Rendendosi conto della necessità di istruzione per i giovani lavoranti, egli offrì loro la possibilità di continuare a studiare con lui e la sera, dopo cena, una decina di diciottenni, ormai diventati provetti operai, per i quali la fatica scolastica era un ricordo lontano, riprendevano, con rinnovato impegno, libri e quaderni. I bambini in età scolare erano divisi in due turni: i più piccoli frequentavano di pomeriggio, i più grandi la mattina perché poi, per molti di loro, incominciava l’apprendistato in forgia. Per tutti gli alunni c’era, periodicamente, la distribuzione di olio di fegato di merluzzo, di saponi e disinfettanti che lo stato inviava attraverso l’Istituto Nazionale per la lotta contro l’analfabetismo. Dopo Dessanay vennero le maestre Ofelia Spanu Battino e Anita Cauli Masala.
Come ogni comunità che si rispetti, anche gli abitanti della cava avevano dei giorni speciali da festeggiare insieme come il giorno di Santa Lucia, patrona degli scalpellini perché protettrice degli occhi, e il periodo di carnevale per il quale si organizzavano grandi feste che attiravano molti maddalenini: arrivava la banda Vittorio Veneto e, per i balli, Nicolao Abis con la fisarmonica e Daniele Rais con l’organetto. Si offrivano corbuli di frisgioli, damigiane di vino e, solo per le donne, il vermouth. Si organizzavano i giochi e le gare classiche del carnevale: la pentolaccia, con tre pentole riempite rispettivamente di caramelle, acqua e confetti, u jocu d’a mela (bisognava tirar fuori coi denti una monetina che spuntava leggermente da una mela spaccata); oppure staccare con la bocca due monetine attaccate con la pasta al fondo di una pentola; per i bambini la corsa dei sacchi o quella col cucchiaio in bocca che reggeva un uovo sodo.
Come si è visto fino a questo punto, ad eccezione delle due maestre, il mondo della cava sembra essere esclusivamente un mondo di uomini; eppure una donna che ha lasciato una scia di gratitudine per la sua silenziosa abnegazione c’è: si tratta di Viggia Molinari, moglie dell’assistente Ercole al quale Antonio Fadda dedica questi ricordi. “Mi è doveroso ricordare quanta assistenza morale e materiale profuse la signora Viggia Molinari per gli operai e le loro famiglie nei casi di malattia o infortunio sul lavoro. La Graniti Sardi aveva in ufficio un pronto soccorso, ma non v’era nessun infermiere. Ebbene, la signora Viggia era l’infermiera che si occupava di pulire e disinfettare le ferite di pronto soccorso in attesa delle ulteriori cure ambulatoriali in città. Ed era lei che spesso assisteva con buoni consigli o con rimedi farmaceutici gli ammalati di Cala Francese in attesa del medico, ed in certi casi presenziando a piccoli interventi del medico stesso sul paziente. Mi è parso opportuno non dimenticare chi tanto si prestò per alleviare le altrui sofferenze. La signora Viggia ed il marito, signor Ercole, erano due persone a modo che completavano degnamente il quadro di coloro che fondarono la Graniti Sardi e che, purtroppo scomparvero portando con loro l’avvenire di un’industria che tanto aveva contribuito allo sviluppo del benessere dell’isola”.
Se i “buoni consigli” erano utili agli adulti, ancor più lo era l’affettuosa attenzione che la signora dedicava ai piccoli, anch’essi non immuni da incidenti: rivive nel ricordo del novantenne Pilade Morganti l’immagine del bambino di un tempo che non amava stare nell’aria fumosa della forgia e che perciò il vecchio mastro Curreli cercava di impegnare in lavori all’esterno; fra questi quello di suonare la campana quattro volte al giorno per segnalare l’inizio del lavoro, le pause, la fine a pomeriggio inoltrato. Un giorno, forse perché agitata con troppa forza dal ragazzino o perché il supporto era indebolito, la campana era precipitata ferendolo alla mano: erano insieme la ferita e lo spavento che la signora curava con le medicine e le parole.
Giovanna Sotgiu – Co.Ri.S.Ma
- L’uso del granito prima del 1860
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- Libro matricola degli operai dipendenti SEGIS del 1924
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