Le isole e il contrabbando
Anche negli anni del riformismo boginiano (1755-73) per la Gallura vennero seguite dal ministero piemontese le linee di intervento elaborate negli anni precedenti che affrontavano i nodi irrisolti della colonizzazione dei territori spopolati e della lotta al contrabbando con la vicina Corsica. Tutti questi problemi erano strettamente intrecciati, come rilevava nel 1758 l’avvocato Antonio Bongino, un funzionario della Segreteria di Guerra torinese, che in un ampio memoriale elaborato su tutte le relazioni redatte sulle «diverse materie» che riguardavano la Sardegna, osservava che in Gallura le «campagne vicine al litorale sono abitate da pastori avvezzi a fare l’illecito versamento non solo delle proprie vettovaglie ed altri generi sottoposti alla tratta; ma anche a dar ricetto nei loro nascondigli alle altrui per poscia imbarcarle sempre ché l’opportunità se le presenta mediante un dritto solito esigersi in corrispettivo delle loro fatiche». «Di questi tali pastori – proseguiva Bongino – abbondano tutti i litorali spopolati e dacché fanno il loro clandestino traffico sulle punte dei litorali, sono in lingua sarda chiamati punteri. Allorché sanno di non poter essere sorpresi dalla vigilanza delle guardie e dai ministri patrimoniali, sogliono essi dare il segnale della fumata in una delle punte del litorale della Gallura a vista di cui li marinai corsi accorrono tostamente al carico e singolarmente li Bonifacini [ … ]. Questo litorale dalla spiaggia della Baronia di Posada fino al porto di Longo Sardo, e così nella circonferenza di miglia 150 e più, è sfornito interamente di custodia, onde resta aperto a chiunque vuole introdurvisi trovandovi frequenti le cale».
Il funzionario piemontese delineava anche un fosco quadro della situazione dell’ordine pubblico in Gallura. I ministri patrimoniali dell’Intendenza generale non soltanto non riscuotevano i diritti doganali, ma molto spesso erano complici dei contrabbandieri nel «fare essi medesimi l’indegno traffico coi Corsi ed a partecipare allo sfroso coi mentovati punteri».
«Evvi poi – scriveva Bongino – [ … ] singolarmente nei distretti della Gallura e Terranova, l’abuso di andare annualmente in determinata stagione vari cavalieri e principali poveri […] e particolarmente quelli delle sub delegazioni ed altri ministri patrimoniali, questuando per così dire per ogni pastore un capo di bestia, dai quali raramente viene loro rifiutata [ … ]. Da ciò ne nasce che vengono i primi ad arricchirsi a spese degli altri e ne soffre anche il regio patrimonio un gravissimo danno dacché non solamente restano occulte le clandestine estrazioni ma sono anche protette [ … ] dagli stessi ministri di patrimonio, i quali eziandio non si fanno scrupolo di subornare li testimoni fiscali allorché si prendano informazioni contro li delinquenti». Insomma la corruzione dilagava tra gli impiegati dell’Intendenza. Lo Stato e la legge erano di fatto assenti nelle desolate balze nordorientali dell’isola.
Era poi difficile intervenire a causa della «situazione corografica della Gallura, tutta sparsa di frequenti dirupate montagne abitate per lo più da pastori inquisiti di qualche delitto o già banditi, specialmente dal canto delle terre di Aggius e di Bortigiadas.
Anche la normativa contro il contrabbando emanata negli anni del riformismo boginiano richiamava esplicitamente (come per le materie criminali) i provvedimenti presi nei decenni precedenti e le leggi dell’età spagnola.
L’editto del 29 luglio 1764 denunciava ad esempio che nella carestia della primavera del 1763 erano mancati «i generi di necessità prima», sia «per le clandestine imbarcazioni, alle quali invitava singolarmente la penuria de’ litorali circonvicini», sia «per l’ingordigia di taluni, che nella mira d’accrescere sulle altrui miserie le proprie sostanze, tennero occulti i loro grani». Il sovrano, tenendo «presenti le sagge disposizioni di tempo in tempo stabilitesi» e delle quali «era pressoché decaduta l’osservanza», decideva di emanare un provvedimento teso ad assicurare alle popolazioni sarde «una sussistenza abbondevole, senza punto ritardare quegli utili, che la fertilità ed ampiezza dei terreni ha loro altre volte procurati col commercio de’ generi ridondanti: e siccome l’ottenimento di sì provvido fine dipende non solo dall’avere annualmente accertata contezza della quantità delle granaglie, che si raccolgono, e di quella necessaria al sostentamento, e semineri del Regno, quanto altresì dall’ovviare alle estrazioni non permesse, le quali possono deludere le più prudenti e giuste misure economiche».
Le soluzioni adottate per combattere il contrabbando erano assai macchinose e di difficile applicazione: innanzi tutto i «capi di casa» dei villaggi agricoli avrebbero dovuto notificare all’intendente generale la consistenza delle proprie famiglie e l’esatta quantità del seminato e del raccolto di granaglie e legumi. Venne inoltre stilato un elenco «delle ville del litorale» che avrebbero dovuto confermare i dati della popolazione, della «consegna» dei grani ed inoltre denunciare la «vendita» delle derrate o il «loro trasporto fuori» dei centri abitati. Le ville della Gallura erano Tempio, Aggius, Bortigiadas, Nuchis, Calangianus, Luras e Terranova. .
Per i contrabbandieri e per i loro complici era previsto il sequestro delle merci, delle imbarcazioni e dei carri, con un’ulteriore ammenda di tre scudi per ogni starello di grani o di legumi (pari a 49,2 litri) confiscato. Nel caso in cui il reo non fosse stato in grado di pagare la pena pecuniaria sarebbe stata imposta «una pena afflittiva di catena, carcere, o relegazione in qualche parte del Regno, adeguata alla qualità della persona, dell’età, del sesso»
Per i recidivi e per «gli sfrosi eccedenti cento starelli» la pena prevedeva da «due anni di catena» ad «anni cinque di galera». Per i ministri patrimoniali complici dei contrabbandieri si applicava la pena di due anni di galera. Per i subdelegati dell’Intendenza, gli alcaidi e i soldati delle torri costiere negligenti era prevista «la rimozione dal rispettivo impiego».
Queste disposizioni furono però largamente disattese. Tre anni dopo, il 1 febbraio 1767, Carlo Emanuele III emanava un nuovo editto «a riparo de’contrabbandi d’ogni genere che si commettono nel Regno». Nel proemio il sovrano affermava che le norme del 1764 erano rimaste «pressoché inefficaci [ … ] per la facilità delle contravvenzioni in tanta ampiezza di litorale aperto». L’editto veniva promulgato per stroncare soprattutto il contrabbando gallurese e per porre rimedio alla «malizia di alcuni abitanti di Bonifacio, i quali prevalendosi de’ comodi del picciol tratto di mare, che li separa dal Regno, e delle corrispondenze che mantengono in esso, si applicano di proposito ed a man franca a questo mestiere». Se nell’editto del 1764 l’attenzione del legislatore si era concentrata sulle granaglie, ora la lista delle merci proibite si allargava al bestiame, alle carni salate, al lardo, ad ogni genere di «quadrupedi», al vino, all’acquavite, al burro, allo strutto, all’amido, alla crusca, al formaggio, alla lana, alle pelli, ai cuoi ed alla selvaggina.
Era inoltre previsto un inasprimento delle pene per i contrabbandieri (da cinque a sette o a dieci anni di galera), per i complici e i ministri patrimoniali corrotti.
Veniva vietato ai patroni delle imbarcazioni di Bonifacio e dell’arcipelago toscano di approdare «in alcuna delle spiagge rade o porti spopolati de’ territori di Sorso, Coquinas, Gallura, Terranova e Posada». Essi avrebbero dovuto gettare l’ancora nei porti di Torres, Castellaragonese, Longon Sardo, Terranova e Posada (i cosiddetti «porti caricatori»), «ne’ quali sogliano con l’intervento dei ministri patrimoniali permettersi l’imbarchi de’ generi, robe, e bestiami, che da quelle spiagge s’estraggono, sotto pena, in caso di contravvenzione, della perdita de’ legni o delle robe, che sovra questi si troveranno caricate … ».
Il contrabbando continuò comunque a prosperare anche negli anni successivi.
Le agili gondole bonifacine adoperate dai contrabbandieri continuarono a solcare il breve tratto di mare che separava la Corsica dalle marine galluresi. Il regio felucone «San Gavino» che incrociava nelle Bocche di Bonifacio riuscì talvolta a sorprendere le gondole nelle piccole insenature dove si verificavano gli «sfrosi»: scontri a fuoco tra i contrabbandieri corsi, i «punti eri», i pastori galluresi ed i marinai sardi si verificarono nel 1774 nel golfo d’Arzachena, nel 1777 sulle coste di Aggius e nelle acque dell’isola di Tavolara, nel 1783 nella spiaggia di La Crucitta.
Si sbaglierebbe comunque a valutare il fenomeno del contrabbando soltanto dal punto di vista dell’ordine pubblico e della politica repressiva. Gli «sfrosi» e le esportazioni clandestine non erano che un aspetto di secolari relazioni tra le due isole e di un sistema economico che vedeva strettamente legate e integrate la Sardegna settentrionale e la Corsica meridionale. Per vivere i corsi del sud avevano necessità dei prodotti agricoli delle fertili campagne del Sassarese, della carne bovina del Logudoro e dei formaggi della Gallura. La miseria aveva spinto intere generazioni di corsi ad emigrare nella vicina Sardegna e in particolare nelle città di Sassari e di Castellaragonese (l’attuale Castelsardo). La presenza corsa è attestata a Sassari già dal XIV-XV secolo. Il capoluogo del Capo di Logudoro, con i suoi dieci-quindicimila abitanti, aveva rappresentato tra il XVI ed il XVIII secolo l’unica, rilevante area urbana fra le due isole: Sassari costituiva dunque un notevole polo di attrazione per i corsi non soltanto per le sue attività agricole, artigianali e commerciali, ma anche per la presenza delle scuole, dei collegi e dell’Università. (L’afflusso di studenti corsi alle istituzioni scolastiche e all’Università di Sassari fu costante sino agli anni della rivoluzione di Pasquale Paoli. Purtroppo a causa della dispersione delle fonti non disponiamo di dati quantitativi. Tra coloro che frequentarono l’Università sassarese bisogna ricordare Philippe Masseria (1739-1814), membro di una famiglia “patriottica” aderente al “partito” paolista, rifugiatosi in Inghilterra dal 1783 al 1789, che fu nel 1791 presidente della società dei giacobini di Ajaccio, il «Globo patriottico», ed appoggiò Paoli nella sua rottura con la Francia. seguendo lo nel 1795 a Londra).
A Sassari la Little Corse occupava un intero quartiere nel centro della città (una strada era chiamata non a caso «via dei Corsi»): la chiesa della comunità, Sant’Andrea, sorgeva nella via principale, la cosiddetta platha, ed era stata eretta, sul modello della cattedrale di Bastia, grazie al lascito del corso Andrea Vico Guidoni, primo professore di materie mediche nell’ateneo sassarese. Come spesso avviene per le comunità di immigrati la collettività corsa si integrò assai presto nella società sardo-spagnola e riuscì ad acquisire importanti posizioni nelle istituzioni ecclesiastiche, in quelle culturali, nelle magistrature e nell’amministrazione viceregia e municipale del Regno. (Tra le famiglie corse che acquisirono posizioni di rilievo nella vita civile di Sassari e del Regno bisogna ricordare i Canopolo (Antonio fu arcivescovo di Oristano nel 1578 e di Sassari nel 1621; nel 1616 introdusse nella sua città natale la prima tipografia), i Vico (Francesco fu reggente nel Consiglio d’Aragona dal 1627 al 1650), i Basteliga (Francesco fu segretario del Tribunale dell’Inquisizione), gli Ornano, i Figo, i Zonza, i Marignaccio, i Giagaraccio, e via dicendo. In un manoscritto acefalo della seconda metà del Seicento (BIBLIOTECA UNIVERSITARIA DI SASSARI, ms. 655) vengono celebrati i fasti delle famiglie corse residenti a Sassari e dei rappresentanti più autorevoli della comunità corsa all’interno delle istituzioni e della società civile. Cfr. a questo proposito M. PORCU GAIAS, Sassari. Storia architettonica e urbanistica dalle origini al ‘600, Nuoro, 1996, pp. 320-321.)
Ma vi era anche un movimento inverso, quello dei contadini sardi che prendevano in affitto i terreni dai proprietari corsi nel litorale orientale e quello dei lavoratori agricoli specializzati del Sassarese che si recavano stagionalmente nell’isola vicina per la potatura e per la coltivazione delle vigne. La Corsica era stata poi sempre un sicuro rifugio per i sardi perseguitati dalla giustizia: nel 1528 si erano rifugiati a Bonifacio gli esponenti del patriziato sassarese che avevano appoggiato l’occupazione francese della città; dalla Corsica progettarono nel 1671 uno sbarco in Sardegna alcuni dei congiurati coinvolti nell’assassinio del viceré spagnolo, marchese di Camarassa; sempre la Corsica fornì asilo ai partigiani filo-asburgici quando la Sardegna fu occupata dalle truppe spagnole e nel 1720 ceduta ai piemontesi; in Corsica si rifugiarono negli Anni Trenta e Quaranta del Settecento i banditi sardi braccati dalle truppe inviate in Anglona e in Gallura dai viceré sabaudi. Anche negli anni della «Sarda Rivoluzione» la Corsica fornì asilo ora ai «realisti», nel 1794-95 durante l’occupazione inglese dell’isola, ora ai «patrioti» ed ai «giacobini», nel 1796-1802 durante il Direttorio e il Consolato.
In un quadro così complesso e intricato di relazioni economiche, sociali e culturali che legavano le due isole, non era facile per il governo piemontese combattere il diffuso contrabbando. Il ministro Bogino non si stancava di ripetere all’ambasciatore francese a Torino che la Corsica «affamava» la Sardegna. In effetti, al di là delle gravi perdite per le finanze del Regno, il contrabbando produceva una sorta di «scambio ineguale»: se la Sardegna esportava clandestinamente una notevole quantità di materie prime agricole e di derrate alimentari (grani, bestiame di ogni tipo, formaggi, pellami, vino, carni salate, etc.), la Corsica importava nell’isola vicina soltanto legname e castagne. Non deve quindi stupire che il Bogino nell’autunno del 1767 si scandalizzasse per il fatto che «in Bonifacio eravi un pubblico macello detto de’ Sardi, per la carne derubata che vi si recava di continuo da quel Regno» e che un beccaio bonifacino si vantasse di vendere nella propria bottega soltanto carne sarda rubata. (AST, Sardegna. Politico, cat. l, mazzo 3, n. 89, “Promemoria del conte Bogino concernente le isole della Maddalena (Torino, 14 novembre 1767)”. Il viceré Costa della Trinità in un pregone del 21 agosto 1766 rimarcava che le merci destinate al contrabbando con la Corsica venivano impunemente caricate sui carri «nella piazza del mercato» di Aggius dinanzi agli occhi di tutti (ASC, Atti governativi, voI. V, 1765-68, n. 267).
In realtà il contrabbando non era soltanto stimolato dalla penuria di risorse alimentari della Corsica meridionale o da tutte le attività criminali legate all’abigeato, ma anche dagli oramai anacronistici privilegi annonari delle città, dai vincoli protezionistici sul commercio, dalla difficoltà per i produttori di raggiungere i porti caricatori o gli approdi abilitati alla «tratta» dei formaggi, dalla mancanza, soprattutto in Gallura, di infrastrutture viarie e portuali.
Il ministero piemontese a metà degli Anni Sessanta iniziava ad essere consapevole che il contrabbando non poteva essere debellato solo con misure repressi ve. Si trattava di avviare una politica di colonizzazione e di ripopolamento dei litorali disabitati della Gallura e dell’Anglona per estirpare le radici sociali degli «sfrosi» e della criminalità che prosperava sulle esportazioni clandestine. Si inquadra in questo contesto l’occupazione militare delle cosiddette «isole intermedie» o Li Caruggi, cioè le isole che facevano parte dell’arcipelago di La Maddalena (La Maddalena, Santo Stefano, Caprera, Spargi, Budelli, Razzoli, Santa Maria), il cui possesso era rivendicato sia dalla Corsica che dal Regno sardo, popolate in parte da pastori bonifacini che praticavano il contrabbando. Nel 1767, per evitare le pericolose intromissioni della Francia durante la rivoluzione corsa di Pasquale Paoli, il governo sabaudo decideva senza esitazione di occupare manu militari l’arcipelago maddalenino, prendendo proprio a pretesto, come si legge nelle istruzioni viceregie al maggiore La Rocchetta, capo del corpo di spedizione, lo «scandaloso clandestino commercio dei grani del Regno solito farsi in grave pregiudizio della Real Cassa e del Pubblico dai pastori abitanti le Isole Intermedie … ». La spedizione, in parte allestita nelle acque del golfo di Terranova dove si trovava alla fonda la fregata «San Carlo», venne realizzata tra il 14 e il 15 ottobre 1767 e non incontrò resistenza alcuna da parte dei bonifacini.
Il ripopolamento dell’ isola di La Maddalena, con la nascita di un borgo marinaro presso Cala Gavetta e di una nuova comunità, composta da emigrati corsi e da coloni galluresi, amministrata da un baita dotato di giurisdizione civile e criminale, costituì un esperimento riuscito di colonizzazione.
Il nuovo insediamento divenne ben presto un’importante piazzaforte militare a presidio dell’arcipelago, delle Bocche e delle coste della vicina Gallura.
Rimasero invece sulla carta i progetti, elaborati nel 1768 dal censore generale Giuseppe Cossu, di colonizzare con lucchesi e corsi la valle del Coghinas e i territori adiacenti al Sasso di Chiaramonti. La prima era una zona costiera infestata dalla malaria, nelle cui spiagge spopolate si effettuavano le «clandestine estrazioni» verso la Corsica. Il Sasso era stato sempre il rifugio prediletto delle quadrillas di banditi dediti al contrabbando. Le condizioni erano assai favorevoli per i nuovi colonizzatori con esenzioni quinquennali da qualsiasi tributo baronale o regio. Ma la qualità dei terreni era scadente (“intemperiosi” quelli del Coghinas, improduttivi quelli di Chiaramonti), tale da scoraggiare ogni stanziamento di coloni «forestieri».
Anche le deserte marine di Terranova, completamente prive di torri e di vedette costiere, con le isole disabitate di Tavolara e di Molara, con le piccole, riparate cale in cui potevano agevolmente attraccare le imbarcazioni corse erano luoghi estremamente propizi per le «tratte» clandestine. Ma le imbarcazioni negli anni del «blocco continentale» non saranno solo corse o toscane. Nel luglio del 1812, ad esempio, furono esportati di «sfroso» dal «porto delle saline» su un «bastimento» inglese e su uno spagnolo 100 buoi e 50 cantari (poco più di 2 quintali) di miele: i contrabbandieri colti in flagrante erano tutti di Terranova.
Il 26 aprile 1802 il viceré Carlo Felice di Savoia aveva emanato un nuovo pregone, suddiviso in 41 capitoli, per la repressione del contrabbando, che riprendeva in gran parte la normativa precedente, segno che le numerose disposizioni volte a combattere gli «sfrosi» venivano largamente disattese. Ai generi tradizionalmente esportati, quali i grani, il bestiame, il formaggio, si era aggiunto ora il tabacco. Il provvedimento riproponeva anche in modo anacronistico tutti i tradizionali vincoli tesi a limitare le libere attività commerciali, come le consegne annuali delle granaglie e la denuncia delle vendite (fissate nell’editto del 1764) o l’obbligo del trasporto delle derrate esclusivamente nei «porti, spiagge e rade abilitate» per le esportazioni, che si riducevano a quelli di Cagliari, Tortolì, Orosei, Posada, Terranova, Longon Sardo, Castelsardo, Porto Torres, Alghero, Bosa, Oristano, Porto Palmas. Anche negli anni del «blocco continentale», quando, a causa della dichiarata neutralità (1804) del Regno di Sardegna, l’isola conobbe un notevole sviluppo dei traffici commerciali, il contrabbando pur diminuendo vistosamente rispetto agli «anni d’oro» del Settecento restò comunque una sorta di costante endemica delle coste settentrionali.
Il 12 marzo 1814, ad esempio, il subdelegato patrimoniale di Santa Teresa di Gallura, Bosio, suggeriva all’Intendenza generale alcuni mezzi per «estirpare i contrabbandi da questi litorali». Dopo aver constatato che «sono così vaste le spiagge in questo mare, che quando avessi un reggimento di soldati non basterebbe uno per ogni piccolo tratto a far argine a questo delitto», sosteneva che erano tante «le opportunità d’imbarcare furtivamente, quante sono le capanne e case pastorili, di cui è popolata questa marina, reconditi i luoghi, incognite le cale e sopraffina la furbaria delli abitanti, che sanno prendere il momento favorevole per eludere qualsivoglia saggia sovrana provvidenza … ». I mezzi proposti dal Bosio per «reprimere il contrabbando» prevedevano lo sviluppo e l’incentivazione dei traffici portuali e la formazione di «impiegati fedeli ed esatti a questo oggetto». Ma il subdelegato proponeva anche dure misure repressive: domandava infatti che gli venisse affidata la «cura [ … ] d’inveire con minacce, ed altre opportune maniere contro i sospetti in queste materie; mi sia libero nell’arrestare i delinquenti [ … ], bruciare le capanne, ed atterrare le case quando sono colti in flagrante senza dar ascolto a chi li spalleggia, e vedrebbesi un totale cambiamento».
L’Intendente generale Diego Cugia, nella sua risposta all’impiegato piemontese, pur convinto che al fenomeno degli «sfrosi» potesse in parte «ripararsi collo stabilimento di tre o quattro ministri patrimoni ali a Santa Teresa, che non potrebbero essere che galluresi e coll’apertura [ … ] del porto per facilitare il commercio», si mostrava però scettico sull’efficacia delle soluzioni proposte, sia per i relativi vantaggi in un territorio spopolato come la Gallura del nuovo scalo dinanzi alla Corsica, sia soprattutto per le misure repressive quale esclusivo antidoto per «far argine ai contrabbandi».