Natale e tradizione
Articolo della ricercatrice e scrittrice maddalenina Giovanna Sotgiu.
La notte di Natale era, per i fedeli, la notte più lunga dell’anno. La messa di mezzanotte portava come conseguenza la veglia di tutti i membri della famiglia che non fossero impediti da motivi fisici a recarsi in chiesa, intorno al camino si aspettava, a digiuno per poter poi fare la comunione, il momento della Messa solenne. Il camino era il centro della veglia natalizia: racconti, chiacchiere e qualche pisolino segnavano il tempo che precedeva la mezzanotte.
Poi, all’uscita dalla chiesa, normalmente si rientrava a casa con gli amici o i parenti che avevano partecipato alla veglia, per fare insieme uno spuntino reso più gradevole dal forzato digiuno e dal freddo che spesso si pativa anche per tutta la durata della cerimonia del culto. Nel camino si metteva quindi un grosso ceppo di leccio o di olivastro che doveva durare a lungo, mantenendo il calore mentre la casa vuota attendeva il ritorno dalla messa. E perciò questo ceppo assunse un valore magico: soprattutto fra i galluresi, e quindi fra i maddalenini di origine gallurese, si faceva in modo da non farlo consumare interamente per conservarlo e utilizzarlo nei momenti di pericolo per la famiglia o in occasioni di sconvolgimenti naturali. Ma la notte di Natale era, e ancora è, il momento dell’anno in cui si tramandano, per lo più oralmente come si faceva un tempo, le “parole”.
Le parole della notte di Natale sono l’espressione buona del mondo magico e superstizioso non opposto o contrario alla fede cattolica, ma quasi un complemento di questa: sono sempre invocazioni nelle quali si mescolano santi, personaggi della Bibbia, Gesù e la Madonna, strutturati in semplici versi o in lunghe strofe che l’esperto doveva ripetere senza errori, seguendo ben precise sequenze.
Le parole erano usate in diverse occasioni: per togliere il malocchio, per cercare di allontanare sia quelle malattie apparentemente misteriose che colpivano persone o animali che le cattive influenze esercitate da invidiosi o nemici; ma erano usate anche come “coadiuvante” negli interventi di medicina popolare perché accompagnavano i gesti esperti o i massaggi di chi interveniva su lussazioni, bruciature, dolori reumatici ecc..
Il presepe è entrato tardi nelle abitudini delle famiglie maddalenine che però cercavano ornamenti per la casa nel decorativo pungitopo (Ruscus aculeatus, pugnitopu in maddalenino) caratterizzato dall’intenso colore verde dei cladoli (che a noi appaiono come delle foglie) acuminati e pungenti, dai fiori quasi invisibili collocati al centro dei cladoli e dalle belle bacche rosse e lucenti che durano a lungo sui rami, chiamate a La Maddalena i zineuli d’a Madonna; la pianta era conosciuta nella medicina popolare per le proprietà diuretiche dei rizomi, ma, raccolta in mazzetti disposti nelle dispense, aveva anche un uso pratico di difesa delle provviste dai topi.
Il menù del giorno di Natale era un menù ricco: i ravioli di ricotta al sugo (dolci per i più, ma anche senza zucchero e, in tal caso, seguendo la tradizione genovese, arricchiti da spinaci o altra verdura lessata), l’agnello arrostito nel camino o in forno con le patate, le frittelle di carciofi fritte con la pastella di farina, sale e acqua o latte, e, infine, i curconi, dolci di origine genovese a forma di panettone basso (rassomigliano molto al pandolce) fatti con farina, lievito di birra, uova, burro, canditi, uva passa e pinoli. Prima di infornare u curconi, così come si faceva per il pane, il segno di croce della massaia veniva ripetuto appoggiando leggermente il coltello sulla superficie del dolce: il gesto sacro, che chiedeva la benedizione divina, aveva anche un significato pratico del quale forse non c’era coscienza: infatti quel segno che appena apriva la superficie del pane o, in questo caso, del dolce, ne consentiva una migliore cottura.