Notizie topografiche, geologiche e di storia naturale
Nell’isola si imponeva una suggestiva vegetazione mediterranea caratterizzata da cisto, lentischio, rosmarino, euforbia, ginestra, ginepro nano, asfodelo, cardo, ruda selvatica, cipolla marina, ferula e olivastro. A causa dei venti non esistevano alberi di alto fusto e le rare piante alte erano solo gli ulivi selvatici sparsi qua e là nei greti. Allora l’isola ospitava capre selvatiche, fagiani, pernici, beccacce, merli e tordi, oltre che cardellini, fringuelli e passeri. Il Generale introdusse dei conigli, che in parte si ammalarono e in parte furono dispersi dai gatti selvatici. Ma non si limitò a bruciare gli sterpi o apportare soltanto una leggera “graffiatura” al terreno; Garibaldi ricorse ad un profondo dissodamento e ad abbondanti concimazioni. La “Fontanaccia”, divenne molto produttiva grazie ad una coltivazione differenziata. Questo lembo di terra era attiguo all’orto, mentre la vigna era stata impiantata verso levante, lungo un piano leggermente in pendio. Nella vigna mise a dimora alcune piante da frutto di specie diverse, con la prevalenza di olivi e fichi e un prato di erba medica; in questa trasformazione si distingue l’aranceto con le trecento piante di agrumi d’ogni specie e la coltura delle api . La macchia mediterranea suggerì al Generale la produzione del miele e della cera. Fu predisposta a tal fine una tettoia, sotto la quale porre diversi alveari, fra i quali uno di provenienza inglese. Questo alveare permetteva di prelevare il miele e la cera prodotta, senza molestare le api presenti all’interno; inoltre attraverso le finestrelle di vetro poteva vedere il lavoro delle api e la temperatura indicata dal termometro. L’alveare interessò molto Garibaldi, tanto che ne fece costruire altri tre di varie misure.
Una delle cinque catene di montagne che si elevano sulla superficie della Sardegna, è quella detta Gennargentu che è la più alta, e la più lunga. Comincia alle Bocche di Bonifacio verso quel punto, dove la base della catena è coperta dal mare; i suoi vertici formano un piccolo arcipelago di parecchi isolotti, dei quali i più importanti sono La Maddalena e Caprera, che trovasi a lato ed all’est di questa, Santo Stefano ecc. La Caprera, anticamente detta Porcaria e da Tolomeo Insula Phintonis è adiacente a alla costa settentrionale della Sardegna, contro al Golfo di Arsachena sulle bocche dalla parte di levante. L’asse maggiore dell’elisse è nella direzione di nord-sud,ed ha una lunghezza di poco meno di chilometri 9; mentre l’asse minore non misura che chilometri 3 scarsi. L’isola ha un circuito di ben 40 chilometri, compresi i seni.
Un paese allora tanto fertile e popolatissimo come era allora la Sardegna, è probabile per conseguenza che gli abitanti si estendessero anche nei vicini isolotti. Nessuno storico antico o moderno, ch’io sappia, fa menzione di Caprera: che vi siano stati abitanti però ne fanno prova tre monete trovate nel preparare il terreno a frutteto dell’appezzamento di terra detto fontanuccia, che descriverò più avanti: e molto più la scoperta fatta pochi anni or sono, di cinquanta anfore o urne cinerarie nel campo denominato Tola, disposte in cinque file poco distanti fra loro, e i numero da 8 a 12 per fila. Queste avevano diverse grandezze da metri 0,75 a 1,75; alcune furono dissotterrate intere, e lo strato di terra che le copriva aveva uno spessore di 40 centimetri circa. Esse furono portate via dai visitatori di Caprera.
Non è mio fine quello di occuparmi di nozioni archeologiche, per le quali d’altra parte mi riconosco profano. Osserverò solo che se Caprera anticamente fu coltivata, nei tempi moderni non se ne rivennero tracce, e convien dire che per le invasioni dei barbari ne’ bassi secoli dell’impero e per le altre dolorose vicende che disertarono nell’isola maggiore agricoltura e popolazione, Caprera rimanesse totalmente deserta e dimenticata. Di tale dimenticanza per altro fu compensata ad usura dall’onore de’essere prescelta a dimora dell’Eroe di Montevideo, di Roma, di Varese, di Palermo e del Volturno: e quest’isoletta dapprima inosservata e sconosciuta, ora è fatta soggetto della più viva curiosità e del più legittimo omaggio. Il nome di Caprera è certo di arrivare alla più tarda posterità accoppiato a quello della più potente, della più meravigliosa individualità che ne’ campi dell’azione abbia mai segnalato la storia. Pel verso della lunghezza Caprera è attraversata da una linea di picchi granitici, dei quali il più alto è il Tejalone detto dagli isolani della Maddalena e di Caprera Tegellone, che vedesi di prospetto all’abitazione del Generale. L’isola è divisa in due versanti, in modo che quello di levante è circa la metà di quello di ponente . Il primo, ripido assai, ed interrotto da frequenti scoscendimenti offre pochi luoghi adatti alla coltivazione, ed è infatti poco usufruttato; mentre il versante di ponente, ripido e scosceso nella parte più alta, si avvalla inferiormente, ed ha una dolce inclinazione fino al mare. Caprera è accessibile per diversi porti, il più importante dei quali è detto Stagnarello. In questo, che è il più prossimo agli edifizi padronali, staziona il Yacht del Generale e due canotti. Un fabbricato eretto alla cala del porto serve da arsenale e custodisce gli attrezzi della navigazione. Difendono il porto suddetto dalla parte di ponente due piccoli isolotti denominati Isole dei Conigli, essi pure di proprietà del Generale. Il Yacht rimane inoperoso, come il proprietario, e da qualche anno non gli ha servito che al trasporto di vino da Siniscola a Caprera, unico viaggio fatto da Garibaldi dopo la ferita al piede. La traversata da Caprera alla Maddalena è di mezz’ora circa, e La Maddalena poi dista da Livorno 22 ore, e da Porto Torres 7, a mare tranquillo. Ogni venerdì sera parte da Genova un vapore che tocca Livorno, Bastia, Maddalena (ove giunge alle 6 circa della domenica), e si dirige a Porto Torres; d’onde parte ogni martedì mattina e retrocede, per la linea solcata, a Genova. Il clima di Caprera è assai temperato, e possono vegetare in piena terra i fichi d’india, gli aranci, i limoni ecc., se non che avvi il gravissimo inconveniente che i venti di Nord-ovest disseccano e abbruciano i teneri ramicelli delle piante (eccettuate però leviti e i fichi) che ardiscono spuntare oltre i due metri d’altezza. Questo fenomeno si è osservato in molti alberi che ha tentato di piantare il Generale, il quale per avere aranci ed altri frutti delicati, ha dovuto ricorrere ai mezzi di difesa da suddetti venti; mezzi che verranno al loro posto descritti. Quest’isola è esclusivamente granitica, ed il granito e eguale a quello della parte nord-est della Sardegna, di alcune montagne della Corsica e dell’Elba, è analogo al granito detto Antico . Un suolo di tal fatta deve riuscire necessariamente arido, come sono tutti i terreni granitici: e Garibaldi ben conscio di ciò, è molto tempo che vagheggiava l’idea di avere un pozzo trivellato, che desse acqua zampillante, e che oltre al servir d’ornamento, sopperisse alla mancanza delle piogge, le quali scarseggiano assaissimo, specialmente in primavera ed in estate, ossia nelle stagioni in cui riuscirebbero più proficue alla vegetazione. Interpellato io da un amico di lui (L’On. Ing. Cadolini, Deputato al Parlamento), se conosciuta la probabilità dell’esito di un trivellamento, avessi voluto praticarlo e dirigerlo, accolsi con immenso giubilo e riconoscenza la proposta, e decisi di portarmi a visitare Caprera. Per cagioni indipendenti dalla mia volontà, dovetti differire tale visita, e la eseguii solamente nel decorso mese di marzo in compagnia del mio amico Giovan Battista Bizzarri, che ha dato prove di non comune intelligenza ed operosità nella direzione dei pozzi trivellati, in diverse circostanze affidatigli, e che mi ha aiutato a raccogliere i dati che hanno servito alla compilazione di questa breve descrizione di Caprera. La mia visita però mi ha persuaso della grande difficoltà, per non dire impossibilità di avere acque zampillanti in Caprera per mezzo di un trivellamento. Eccone le ragioni. In Caprera piove poco, e la superficie del piano più alto (il Tegellone) e si limitata, che poca per conseguenza potrebbe essere ancora l’acqua assorbita dagli strati permeabili. D’altronde questi strati a Caprera non esistono, e non si hanno che deboli filtrazioni tra le fessure della roccia granitica, che mantengono l’acqua a poca profondità dalla superficie: e questa difatti si trova nei diversi pozzi escavati nell’Isola. Ciò posto, perché un pozzo trivellato potesse dare speranza di un esito felice a Caprera, converrebbe perforare fino all’incontro di uno9 strato permeabile derivante dai più alti monti della Sardegna o della Corsica. Ora questo strato, o è intercettato, (come è assai probabile) dal mare che separa le due isole suddette da Caprera, e in questo caso inutile riuscirebbe il trivellamento; oppure passa al di sotto del fondo del mare, e in questo caso essendo oltre a 60 metri la profondità fra Sardegna e Caprera, poco meno di 100 quella fra la Corsica e Caprera, ed inoltre poca la distanza fra le due isole e grande relativamente l’altezza dello strato acquifero, ne viene, che forando a Caprera si sarebbe certi di andare a grande profondità prima di raggiungere questo strato. Trattandosi pertanto di forare granito, operazione brigosa, lunga e dispendiosa, e di forarlo con una grande incertezza, per non dire improbabilità di riuscita, sembra prudente non cimentarsi all’impresa. In seguito di tale disaggregazione della roccia granitica primitiva, e in mezzo ai frantumi della medesima ridotti minutissimi dalle azioni meccaniche e chimiche dell’acqua e dell’aria, si fece luogo alla vegetazione come in tutti gli altri terreni formati sul posto, e prima che mente d’uomo pensasse a coltivare Caprera, erasi questa vestita in alcune parti di diverse piante. Tutte queste piante, ed altre erbe spontanee, vegetano lussureggianti a Caprera, ed il cisto specialmente, ed anche il lentisco vi formano foltissime e larghe macchie. Dalle radici del lentisco si trae un color rosso; e, certo Vecchi ottenne un brevetto d’invenzione che ha ceduto al Generale. La prova in piccolo è bene riuscita, ma in grande scala non fu ancora tentata. Alberi d’alto fusto non esistono, a motivo dei venti sopra menzionati; e le piante più alte che scorgonsi a Caprera sono alcuni ulivi selvatici sparsi qua e la nei burroni. In queste macchie, e in questi greti la caccia non è molto abbondante. Si trovano capre selvatiche, alcuni fagiani e pernici, oltre i minori uccelletti, come cardellini, fringuelli (che però non nidificano a Caprera), passeri ecc. . Di passaggio si hanno beccacce, beccaccini, tordi e merli. Il Generale fece mettere nell’isola parecchi conigli, ma questi si sono quasi dispersi, perché distrutti specialmente da gatti domestici, che fuggendo da casa si resero selvaggi. La pesca più abbondante: molte sono le varietà di pesci, crostacei e molluschi che rivengonsi nelle coste di Caprera.
Dissodamento
Fin dal 1300 Crescenzio lasciava scritto che “nei boschi delle Alpi si sega nel mese di maggio e di giugno tutti i ramucelli degli albori e seccansi, e poi nel mese d’agosto si incendono, quasi tanto che sono cenere: ed in que’ luoghi si semina la segale, che ottimamente produce in quell’anno: e poi si riposa infino sette anni, e allora quella medesima seminagione da capo si rifà. Ma dove non sono i boschi, l’erba con le sue radici, e con poco di terra si taglia, e secca s’arde: nella cui cenere e polvere la segale poi nel detto anno si semina, e poi otto anni si riposa: e quello medesimo si rifà da capo”.
Questa pratica, in Italia antichissima, è conservata tuttora dagli abitanti della Maddalena, isola di natura identica a Caprera. Essi coltivano il grano nel modo che segue:
In quegli spazii, nei quali il granito è più decomposto, tagliano il cisto, il lentisco e tutte le altre piante spontanee che vi trovano, e poi le abbruciano: in altri termini fanno il debbio. Poscia vi passano sopra con l’aratro, evitando le punte o i massi granitici più duri che qua e là si si riscontrano, e poi vi seminano in autunno il grano: fatto il raccolto riarano e ripetono la seminagione del grano: e lo stesso praticano ancora nell’anno successivo. Avuto il terzo raccolto lasciano la terra in riposo per altri nove o dieci anni: che tanti ne occorrono perché il cisto ed il lentisco (le due piante che più abbondano) acquistino il loro intero sviluppo, e si possano quindi con profitto nuovamente bruciare. Questa prova, per nulla dispendiosa, che riuscendo a bene produrrebbe vantaggi ai maddaleniti ed agli altri che seguono tal metodo, se non avesse a dare il risultamento che si spera, farebbe se non altro conoscere che l’abbronzimento di un velo superficiale di terreno, ossia l’azione del fuoco sulla superficie del suolo e sufficiente a riparare al consumo dei materiali fertilizzanti prodotto dal fuoco stesso, ed al disperdimento i altri, occasionato dai venti che necessariamente asportano una porzione delle ceneri dopo il debbio. Il Generale Garibaldi cominciò col metodo dei maddaleniti a coltivar Caprera. Ma egli non doveva essere i ciò soddisfatto , e riconoscendo l’imperfezione di una coltura la quale non concede che tre anni di raccolto in un periodo di 12, si propose non solamente di migliorarla, ma di cambiarla affatto, e di avere campi che dessero un prodotto costante senza interruzione di maggese. Ad ottenere ciò molti ostacoli bisognava superare; ma appunto di questi andava in traccia Garibaldi. Dopo l’abbruciamento degli sterpi, egli non si contentò di una leggera graffiatura al terreno: coll’uso di zappe alla genovese, e di marre e di picconi ottenne un dissodamento di circa 60 centimetri. I massi duri che sporgevano qua e là, come s’è detto, e che erano ribelli alla marra. li faceva saltare colle mine: i frantumi più piccoli sminuzzava, e i più grossi trasportava fuori dal campo, servendosene per cingerlo di un muro a secco a difesa del bestiame pascolante nelle macchie. Di tali muri egli ne ha fatti parecchi colle proprie mani. Ciò per altro non bastava per assicurarsi prodotti annui senza interruzioni di maggesi. Le spoglie delle piante abbruciate sono ben poca cosa in un terreno formato sul posto dalla decomposizione naturale ed artificiale delle rocce: e non è già per ignoranza che gli isolani della Maddalena lasciano a maggese per nove o dieci anni gli appezzamenti sui quali raccolsero frumento per tre anni dopo il debbio: ma perché l’esperienza li ha ammaestrati che un tale periodo di tre anni è sufficiente ad esaurire i principi nutritivi somministrati dal debbio. Se questo non fosse, o avessero concime non perderebbero nove su dodici anni di prodotto. Queste considerazioni occorse alla mente di Garibaldi, ed il concetto di trar profitto dal pascolo naturale e spontaneo nell’isola, fecergli conoscerle la necessità di tenere mandrie di bestie grosse e minute, le quali, oltre all’utile in burro, cacio, ecc., somministrassero concime, ossia il mezzo di mantenere a stabile coltivazione i campi dissodati. Fermato questo principio, bisognava non solo provvedere il bestiame, ma pensare al modo di ricoverarlo, di mantenerlo vegeto e sano, e di aumentarlo di mano in mano che fosse cresciuta l’estensione dei terreni lavorativi. A tutto pensò Garibaldi; ed io lo seguirò nella sua opera paziente, ardita ed intelligente.