Solinas, grande scrittore di cinema
Fu lo sceneggiatore di celebri film: La battaglia d’ Algeri di Gillo Pontecorvo, Mr Klein di Joseph Losey, L’Amerikano di Costa-Gavras, Salvatore Giuliano di Francesco Rosi (insieme a Cecchi d’amico, a Provenzale e allo stesso regista), Queimada di Pontecorvo (insieme a Giorgio Arlorio) e tanti altri ancora. Film in cui si porge uno spaccato politico della realtà del potere, opere in cui si tenta di conciliare quel che è spesso inconciliabile: lo spettacolo e la tensione intellettuale. Raccontano gli amici di Franco Solinas che i produttori americani, spinti da Martin Scorsese, stavano per impegnarlo in importanti progetti, ma prima di passare alla firma del contratto lo sottoposero alla protocollare visita medica. Le sue arterie risultarono in pessimo stato. Per rimetterle in condizioni di alimentare correttamente il cuore, fu proposto a Franco Solinas di sottoporsi a un bypass nel centro di chirurgia cardiaca texano di Huston, in quel momento il più qualificato del mondo. Ma lui non volle lasciare la casa di Fregene affacciata sul mare, e poco dopo fu stroncato da un infarto. Fu vittima della sua ostinazione, stampata nel carattere sardo. Era il 1982. Allora, un quarto di secolo fa, Gabriel Garcia Marquez scrisse che Franco Solinas era stato «uno dei più rigorosi professionisti in uno dei mestieri tra i più ingrati». Un lavoro ingrato perché pochi si ricordano che un film, prima di arrivare sullo schermo, ha dovuto superare la prova del fuoco della parola scritta. E sono gli sceneggiatori a fornire la base letteraria su cui il film si regge. Questo disse Garcia Marquez quando morì Franco Solinas, grande scrittore di cinema. Oggi avrebbe ottant’anni. Lo ricordo uomo di non troppe parole. La sobrietà del linguaggio e dei gesti gli conferiva un tratto aristocratico. Quando riuscivi ad attirare la sua attenzione, socchiudeva gli occhi e ti sfiorava appena con lo sguardo. Se notavi una traccia di sorriso avevi passato l’ esame. Nonostante il riserbo, l’ apparente distacco, era chiara la sua estrema sensibilità, ed anche l’ interiore tumulto di passioni, spesso ideologiche. Il suo comunismo era un’ autodisciplina morale. Aveva il dono di filtrare ed esprimere idee pronte, modellate per essere tradotte in immagini. Distillava goccia a goccia i suoi agitati, tormentati pensieri, ancorati a esigenze etiche e politiche, alle quali sapeva restare fedele senza esserne prigioniero o troppo condizionato. Ed ogni goccia era una parola limpida che aveva conservato lo spessore dei sentimenti e la nettezza delle convinzioni, dopo essere stata mondata da pesantezze e pedanterie. Franco era un grande alchimista: dai suoi alambicchi mentali uscivano idee cristalline. Anche dei personaggi più negativi cercava di spiegare con onestà le motivazioni. Li lasciava respirare. Presentava il parà torturatore d’ Algeri con la storia che aveva alle spalle: una storia che non giustificava ma spiegava. Gillo Pontecorvo, suo grande amico, diceva che proponeva sempre, tutte le mattine, all’inizio delle riprese, un aggettivo capace di «rianimare una scena». A me piace ricordarlo a Saigon, dove cercava di dar vita a un soggetto che non fu mai tradotto in un film. L’ avevo già visto lavorare quando preparava con Pontecorvo La battaglia d’ Algeri e passava giorni nella Casbah a interrogare protagonisti e testimoni di quella guerra, e a scrutare i luoghi, quasi a fiutare gli odori. Era anche un grande, scrupoloso cronista. Cosi si comportò in Vietnam, dove arrivò con Fernando Morandi, suo amico e scudiero, nei primissimi anni Settanta. Il padrone dell’ Arc-en-Ciel, monsieur Arrighi, indossava sempre giacche bianche, a doppio petto, forse di lino, e non ricordo di averlo mai visto senza cravatta, neppure quando il Viet Nam era ancora l’ Indocina francese, e a Cholon, il quartiere cinese di Saigon, dove si trovava il suo locale, nessuno sapeva cosa fosse l’ aria condizionata. Al tempo dei ventilatori, a pale corte e di marca Marelli (e delle mortali dissenterie amebiche e della malaria) l’ Arc-en-Ciel era una sala da ballo illuminata da una luce elettrica singhiozzante, frequentata da una clientela adeguata alla lunga guerra civile e coloniale, quindi equivoca e interessante, e con tante taxi-girls cinesi strette in quegli abiti attillati, di seta, con lo spacco sul fianco, chiamati «shanghai». Erano ragazze fuggite dalla Cina, appena diventata comunista, con le quali se non parlavi la loro lingua non potevi scambiare una sola parola, quando ballavi nei minuti contabilizzati dalla direttrice di sala, la «maîtresse», in base al gettone (valido un quarto d’ ora e pagato venti piastre)) comperato alla cassa e infilato nel bicchiere posato sul tuo tavolo, accanto al pastis o alla birra. A Cholon erano tempi abbastanza simili a quelli vissuti da André Malraux, quando ispirandosi a quel che vedeva nel quartiere cinese di Saigon progettava I conquistatori e La condizione umana, che avrebbe ambientato a Canton e a Shanghai. Con il passaggio dalla guerra francese alla guerra americana l’ Arcen-Ciel cambiò faccia. Da sala da ballo diventò un night club dotato di aria condizionata, con un ristorante-terrazza e con le ragazze cinesi in minigonna che parlavano inglese.
Monsieur Arrighi, leggermente ingrigito, era sempre il proprietario e le sue giacche bianche avevano i risvolti più stretti, assomigliavano più a quelle di Humphrey Bogart che a quelle di Jean Gabin. A chi gli chiedeva se fosse parente con l’ avvocato suo omonimo, celebre tenore dei tribunali parigini, lui rispondeva con la solita vecchia battuta: «Caro signore, io sono sempre stato sull’altro banco, quello degli imputati». Era molto affabile monsieur Arrighi. La sua gentilezza sconcertava persino i cinesi. Era un corso arrivato in Cocincina, nel Sud Viet Nam, dopo la Seconda guerra mondiale, quando i francesi con un passato non troppo cristallino durante l’ occupazione tedesca, venivano mandati a purgare i loro peccati in Estremo Oriente, nella colonia asiatica temporaneamente riconquistata per volontà del generale de Gaulle. Franco Solinas conosceva tutto questo, quando varcò la soglia dell’Arcen-Ciel. I marines americani non se n’ erano ancora andati, lasciando soli e destinati alla sconfitta i generali del Sud Vietnam loro alleati.
Sarebbe accaduto qualche anno dopo. Franco Solinas aveva in mente un soggetto legato a una vicenda accaduta in Sardegna, dove un pescatore ambizioso, venuto a conoscenza dell’imminente installazione di una base navale americana in una località dell’isola, si era affrettato ad aprire un bordello, o qualche cosa del genere nel quadro della legge, e che era stato beffato perché la base era stata creata altrove. La storia poteva essere ambientata in Vietnam. Franco mi chiese se gli potevo suggerire qualcuno cui rivolgersi a Saigon. Gli indicai senza esitazione Philippe Franchini, proprietario dell’Hotel Continental. Philippe è un meticcio corso-vietnamita, scrittore e pittore. Vive adesso a Parigi con la moglie cinese. Mi sono rivolto a lui per rinfrescare la memoria. Ce l’ ha buona. Eccellente. Philippe aveva ereditato il Continental dal padre Mathieu, avventuroso personaggio approdato in Indocina negli anni Trenta; e da quel privilegiato osservatorio che era il suo albergo, nel cuore di Saigon, poteva aiutare Franco. Aveva già aiutato Goffredo Parise, che, prima di Franco, mi aveva chiesto a chi rivolgersi.
Bastarono poche parole di Franco per far capire a Philippe che l’ uomo ideale era monsieur Arrighi, padrone dell’ Arcen-Ciel. Nessuno meglio di lui era in grado di fornire elementi allo sceneggiatore che voleva dar corpo a una storia in cui il protagonista vuole organizzare un locale per marinai. Monsieur Arrighi aveva tutto: curriculum vitae e physique du rôle. Per la verità Franco pensava a un reduce della guerra di Indocina, cioè a un ex parà francese frustrato dalla sconfitta di Dien bien Phu (del 1954), che dopo avere tentato invano la rivincita con le armi in Algeria (dove nel ‘ 62 incassa una nuova sconfitta), cerca un’ avventura, non proprio una rivincita, nel Vietnam dei primi anni Settanta, durante la guerra americana. Il suo obiettivo è adesso un bordello. E lo realizza. Ma intanto gli americani hanno deciso di andarsene. O non arrivano nel luogo indicato. O la flotta resta al largo e non sbarca i marinai. Quindi il bordello resta vuoto. Insomma, una nuova sconfitta del parà. Franco aveva in mente La battaglia d’ Algeri, dove i parà, a volte ex membri della Resistenza contro gli occupanti nazisti, poi frustrati dalla sconfitta indocinese, si perdono in Algeria nella guerra psicologica, e quindi nella tortura. Quando incontra monsieur Arrighi all’ Arcen-Ciel, Franco Solinas ha probabilmente, anzi senz’altro, un’ idea ancora molto vaga su come sviluppare il soggetto e poi la sceneggiatura. E’ venuto in Vietnam per documentarsi. Monsier Arrighi lo accoglie a braccia aperte. Il corso cordiale, loquace, disinvolto, risponde a tutte le domande rivoltegli dal sardo laconico, chiuso, distaccato. Le trova vaghe. Troppo stringate. Ma crede di capire. E si affretta a comunicare la sua soddisfazione a Philippe. «Mi hai mandato un personaggio formidabile».
Franco lo interroga: quanto gli costa il locale? dove trova il personale? chi sono le ragazze? E intanto fiuta l’ atmosfera. La vita notturna di Saigon. Gli americani dei quali si avverte l’ imminente partenza. Le città della costa, Danang e dintorni, dove è all’ancora la US Navy. All’ Hotel Continental vive nei luoghi in cui un grande romanziere e sceneggiatore, Graham Greene, ha scritto uno dei suoi migliori racconti: Un americano tranquillo. Ma un certo punto Franco fa i bagagli e se ne va. Rinuncia al progetto. Monsier Arrighi è disperato. Non capisce perché il sardo, che ormai considerava un amico, se ne sia andato. Si sfoga con Philippe Franchini. Gli dice: «Io ero disposto a vendergli l’ Arcen-Ciel, o anche a fare il locale per gli americani, avevo già preso de contatti.
Il suo discorso mi sembrava serio. In che cosa ho sbagliato?». Philippe lo guarda stupito: «Franco è un cineasta, un cineasta vero. Non hai capito niente». Ma monsieur Arrighi non si è mai convinto. Ha continuato a pensare per anni che sotto le finte spoglie dell’uomo di cinema ci fosse un uomo d’ affari, che voleva comperare l’ Arc-en-Ciel o organizzare un bordello. Franco Solinas faceva le cose sul serio. Si immergeva nella realtà per scrivere film che a volte restavano sulla carta. Restavano letteratura. Ha scritto tante sceneggiature che non sono mai state tradotte in immagini. Per scrivere La battaglia, la storia di Ibn Saud, creatore dell’Arabia Saudita, ha studiato per mesi il Corano. E la bella sceneggiatura è rimasta un libro…
Gianni Tetti