Il Garibaldi più intimo
«Era un uomo dolcissimo, sempre gentile, disponibile con i figli e i bambini: a Caprera si dedicava alla campagna e agli animali, ma aveva una vera passione per la musica, soprattutto per la lirica, e la sera ascoltava le opere con un grammofono dai dischi di cartone pressato». Centocinquanta anni dopo, è un ritratto di Garibaldi in qualche misura inedito. Lo traccia, con poche pennellate genuine, Angela Caucci, 73 anni, nata e sempre vissuta alla Maddalena eccetto che per il periodo tra il 1957 e il ’59 passato nella casa bianca come assistente dell’ultima figlia del generale, Clelia.
Ed è proprio dai suoi ricordi che Angela Caucci ha appreso in prima persona tanti particolari dell’esistenza privata, più riservata e intima, del condottiero dei Mille. «Conoscevo donna Clelia sin da quand’ero piccola – spiega adesso Angela Caucci – Con gli altri bambini del paese frequentavo l’asilo Giardino d’infanzia. Spesso ci portavano a Caprera: lei offriva i biscotti, ci faceva giocare nel giardino, per noi era un divertimento. Per arrivare sin lì ci facevano sedere in due o tre nei carrelli trainati dalle biciclette. Altre volte, da adolescente, ci andavo io da sola con la famiglia perché un mio zio, Filippo Impagliazzo, maresciallo capo della Marina, frequentava casa Garibaldi per ragioni di servizio. A quei tempi lavorava là fisso un giardiniere, Antioco Mariolu, e pochi operai per le manutenzioni stagionali». Poi, quando donna Clelia ha compiuto 90 anni, ha avuto bisogno di maggiore assistenza. «Allora mi sono trasferita là per aiutarla – prosegue, sempre con un rispetto deferente, la signora della Maddalena – C’erano già una cameriera anziana, Maria Angioy, e una lontana parente, Clelia Gonella, che tanto tempo prima era arrivata lì per trattenersi qualche mese e alla fine c’era rimasta 40 anni». «Che cosa diceva l’ultima figlia in quell’epoca ancora viva del padre? “Beh, lei aveva 15 anni quando Garibaldi spirò, ma la sua memoria l’ha accompagnata per tutta la lunghissima vita: è sempre rimasta innamoratissima del generale, così come del fratello Manlio, stroncato dalla Tbc a Livorno all’età di 27 anni, e della madre, Francesca Armosino, terza moglie di Garibaldi, morta nel 1923″, racconta Angela Caucci. «Francesca giunse qui negli anni Sessanta dell’Ottocento come governante, mi aveva chiarito la figlia, l’avevano scelta perché era brutta e pensavano che così non avrebbe attratto il generale, già un po’ avanti con gli anni: le cose non sono andate così», osserva oggi l’ex assistente, e lo sguardo le s’illumina, come fosse ancora ragazza. «Lui, il generale, ci diceva donna Clelia, quando le conseguenze delle ferite e dell’artrosi non l’avevano ancora costretto a usare le grucce e più tardi a restare immobile in carrozzina, zappava l’orto, faceva l’olio, curava la fattoria – continua la signora Angela – Gli piaceva cucinare la carne arrosto: la cuoceva a lungo sulla brace, spiegava la figlia, come aveva imparato in Sud America, tagliando via via le fette e rimettendo sul fuoco le parti al sangue».
Negli anni Cinquanta del Novecento Caprera era meta di processioni ininterrotte di personaggi che andavano sin lì per rendere omaggio a Garibaldi. «Ero presente quando donna Clelia ricevette Rachele Mussolini e, nei mesi successivi, Falcone Lucifero, ex luogotenente della real casa Savoia», non si stanca di ripetere Angela Caucci.
Dopo quell’esperienza a Caprera, l’ex assistente non ha più lavorato. Si è sposata dedicandosi ai figli e al marito, Pierino Di Monte, operaio all’arsenale militare. «Lui è mancato qualche tempo fa», spiega la signora Angela. E per vincere la commozione tira fuori tante buste zeppe di foto d’epoca dai cassetti della credenza, nella sala da pranzo della sua casa a Cala Chiesa, come molte altre abitazioni vicine addobbata della bandiera italiana. «Vedete: questo è l’invito che mi mandò per la festa dei suoi novant’anni, qui invece donna Clelia è sul letto di morte nella casa bianca, e io sono quella al centro, la più giovane – prosegue – È rimasta lucidissima sino alle ultime settimane, a 92 anni. Generosissima, aveva un animo nobile. Mi ha fatto amare Puccini e la lirica. Non era cattolica ma atea, come il padre. Però aveva grande rispetto per la religione. La domenica, appena tornavo dalla messa a Stagnali, non mancava di chiedermi: “Di che cosa ha parlato oggi il sacerdote nell’omelia?”. E quando glielo dicevo, lei rispondeva. “Bene, bene: continua ad andare in chiesa, tu che hai la fede». «A Natale poi arrivavano pacchi da tutto il mondo, una volta persino una cassa con bottiglie di vodka dall’Urss, dovevamo liberare una camera per farci stare tutti quei doni», ricorda la signora Angela. E chiude il suo scrigno di memorie con un aneddoto che sembra tratto di peso da un racconto dickensiano alla Canto di Natale: «Una volta – racconta – venne in visita un missionario italiano. In Cina aveva fondato una comunità per bambine abbandonate dalle famiglie perché di sesso femminile. Descrisse come le trovava in strada: denutrite, sporche, moribonde. Donna Clelia non era ricca, neppure benestante, viveva dei prodotti della terra. Si alzò dal divano lasciando solo con me per pochi minuti quel sacerdote, forse un vescovo, di lui ricordo solo che aveva una lunghissima treccia nera. Poi la figlia del generale tornò e, senza dire nulla, gli consegnò una grande busta: era piena di banconote».
Il bollitore in rame, con manico e beccuccio in ottone, faceva parte della batteria di cucina di casa Garibaldi ed è esposto sopra al caminetto. Nei pomeriggi invernali il Generale si concedeva il tè o, più spesso, il “mate” che beveva alla maniera sudamericana, tramite una speciale cannuccia, la “bombilla” che consentiva di filtrare la yerba mate.