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Generale, la cazzuola non è affar vostro!

Al contrario di quanto si possa pensare, Giuseppe Garibaldi non giunse in Sardegna da esule, ma per scelta. Una scelta dettata dalla delusione per la situazione “nazionale”, ma comunque una scelta. Volendo proprio palare di esilio, sarebbe corretto dire che l’esilio, il generale, se lo scelse.

Giunse in Gallura nel 1855 con l’idea di dedicarsi alla caccia e di comprare un terreno. Trattò prima con il pastore Pietro Pilosu Scampuddu – del quale presto sarebbe diventato grande amico – per una grossa proprietà a Capo Testa, promontorio a quattro chilometri da Santa Teresa Gallura, luogo bellissimo dove i graniti sembrano sculture; infine considerando che quella di Capo Testa era una zona contesa tra alcuni pastori piuttosto determinati e avendo riscosso l’eredità lasciatagli dal fratello Felice, morto nel novembre dello stesso anno, Garibaldi preferì comprare la metà di Caprera: isola pressoché disabitata, immersa nel verde, e soprattutto, nella pace immensa. E una pace immensa era proprio quella che il generale stava cercando per sé e per la sua famiglia.

Sull’isola, nei primi tempi, Garibaldi portò solo il figlio maggiore, con il quale bivaccò alla ricerca del posto giusto in cui stabilirsi. Presto i due, avendo in animo di farsi raggiungere dal resto della famiglia, restaurarono una piccola casa diroccata. Questa però, composta di appena tre vani, era ancora troppo piccola. Quindi il generale con la sua barca battezzata Emma, navigò fino a Nizza dove prelevò le tavole di legno per una piccola dependance da affiancare alla struttura principale. Completato l’edificio, Garibaldi lo cinse con un muro, allo scopo di tenere lontano le bestie, e nel 1856 lui e il suo primogenito furono finalmente raggiunti dal resto della famiglia e dalla domestica.

Si trattava comunque di una sistemazione temporanea in quanto era ancora troppo modesta: tra il seguito del generale e gli educatori dei suoi figli, infatti intorno alla casa orbitava quotidianamente un’accolita composta di circa dieci persone. Quindi Garibaldi decise di costruire la casa bianca: così la chiamava lui, così è tutt’oggi ricordata; e questa diventò la sua abitazione definitiva, luogo che lo vide trasformarsi da valoroso combattente a mite agricoltore; l’ultima casa: quella in cui l’eroe avrebbe dimorato fino al 2 giugno 1882, giorno in cui, si racconta, poco prima delle sei del pomeriggio, due capinere, adagiatesi sul davanzale della finestra della sua camera, si misero a fare un gran baccano. Francesca, l’ultima compagna di Garibaldi, fece un gesto per scacciarle. “Lasciale stare”, le disse il marito, “forse sono le anime delle nostre bambine venute per portarmi via”. Fu il suo ultimo ordine: pochi istanti dopo, infatti, il generale chiuse gli occhi per sempre.

Tornando alla costruzione della casa bianca, a quando il tenero momento appena descritto era lontano, pare che Garibaldi avesse velleità d’architetto, ma che non fosse praticamente portato per la materia, tant’è che un giorno il capomastro incaricato della direzione lavori si trovò costretto ad apostrofarlo con la frase seguente: “Generale, la cazzuola non è affar vostro!

Poiché Garibaldi, è cosa nota, ha sempre riconosciuto e rispettato l’autorità superiore, e poiché in quel caso l’autorità superiore era rappresentata dal capomastro, non si mise a discutere. “Obbedisco!”, rispose, “mi occuperò allora di portar le pietre”. Così fece, e concluse quella breve esperienza edilizia da volenteroso manovale.

Tratto da: 101 storie sulla Sardegna che non ti hanno mai raccontato di Gianmichele Lisai