Gino Zasso e l’Ilva
Sì può essere innamorati di una squadra di calcio? Si può, per anni e anni, attendere con ansia, domenica dopo domenica, il risultato, e gioirne con slancio infantile, o rattristarsene per il resto della giornata a seconda del responso del campo? Se tutto questo è possibile, allora lo confesso: sono follemente innamorato dell’Ilva. È un amore che parte dall’infanzia, e al quale sono rimasto fedele per tutta la vita. Mi ricordo ragazzetto presentarmi assieme a un compagno di scuola al burbero dirigente messo a guardia dell’ingresso dello stadio, e chiedergli timidamente: «Quiddh’omu, ci feti intrà cinquanta franchi in dui?››. Solitamente l’accorata istanza veniva accolta: in caso di repulsa, via a perdifiato verso la Crocetta, la collina alle spalle del caseggiato delle elementari, che sovrasta il campo sportivo, per non perdere neanche il calcio d’avvio.
Era la metà degli anni Cinquanta, e il Comunale della Maddalena era davvero la Fossa dei Leoni: non c’era avversario, umile o di rango, che non fosse costretto alla resa su quel durissimo rettangolo in terra battuta, travolto dall’incandescente incitamento del pubblico e dall’ardore di undici diavoli, che da Garibaldi, che nell’isola era di casa, avevano ereditato spirito, coraggio, voglia di lottare e di vincere.
Il tifo, allora, si scatenava e diventava trainante soprattutto in occasione del derby. La Maddalena era divisa in due fazioni, che sembravano inconciliabili, quella di parte biancoceleste, che solamente l’Ilva aveva nel cuore, e quella che impazziva per la Proletaria, poi CRAL Marina, l’altra squadra maddalenina. E la divisione trai due clan non era soltanto di carattere sportivo: l’Ilva, vecchia di anni e di onori, era la classe, la tradizione, il perbenismo piccolo-borghese; la Proletaria, maglietta rossa e coltello tra i denti, era lo spirito nuovo e battagliero dei primi passi della vita democratica, nata da una costola dell’Ilva in occasione delle elezioni politiche del ’48, quando non solo La Maddalena, ma tutta l’Italia era divisa in due. La rivalità accesissima tra i due club, perciò, nasceva più dalla scelta politica che da quella calcistica. In occasione degli incontri diretti, tutta l’isola, donne e bambini in testa, si riversava allo stadio. E sugli spalti spesso erano botte, che, fortunatamente, non lasciavano tracce dopo il fischio finale dell’arbitro. C’erano, nelle due formazioni di allora, campioni autentici, tutti indigeni, di classe decisamente superiore al livello medio del calcio praticato in Sardegna, talenti calcistici che, se non sono andati lontano, se non hanno approdato alle massime divisioni nazionali, è dipeso unicamente dal fatto che allora le frontiere erano sbarrate per la Sardegna, e per un’isola nell’isola in particolare assente una squadra guida come poi sarà negli anni settanta il Cagliari.
Nel CRAL Marina c’erano Peppinedu Scolafurru, rifinitore dal tocco sublime, Giannino Petri, giovanissimo e attaccabrighe, un infinito numero di reti messe a segno entrando palla al piede in porta, dribblando anche il portiere; e Piredda estroso para tutto; e Cano e Virgona, impareggiabile coppia di difensori laterali. Nelle file dell’Ilva le “stelle” erano più numerose, c’erano “Bozambo” D’Oriano e “Red” Melis, che si alternavano tra i pali con pari successo e spericolatezza; Salvatore Zichina e Ivo Zonza, forse i migliori prodotti in assoluto della celebrata scuola calcistica maddalenina; Pasqualino Pais, intelligente e opportunista; Carlo Sabatini, o della volontà; «Caino» Domenico Comiti nato ficcante ala sinistra e divenuto libero da manuale. Sono questi gli eredi dei vari Cleante Balata, Enrichetto Massaro, Peppino Pocobelli, Cesare Farine che avevano faro «grande» l’Ilva, la più antica società calcistica della Sardegna, prima della guerra.
Scomparsa il CRAL Marina (sulle sue ceneri nascerà anni dopo il Maddalena) avversario numero uno dell’Ilva diventa la Torres. Sassari allora era lontanissima: per raggiungerla (l’auto privilegio di pochi) era necessario partire alle 4 del mattino, “vaporetto”, pullman, treno e soste interminabili. La Maddalena, chiusa come sempre nel suo microcosmo di isola, si sentiva abbandonata dal capoluogo, ma non se ne lamentava. Anzi ne era quasi fiera. Covava inconsciamente, però, una sorta di risentimento, che sfogava al Comunale, in occasione del derby.
E la Torres, compagine di ben altre possibilità economiche, ne faceva regolarmente le spese. Poi il consueto funerale in via Ilva, giù fino al porto, in testa al corteo, una bara dipinta di rossoblù e dietro canti funebri e inni.
Il turismo scopre la Sardegna (ci vorrà ancora del tempo prima dello sbarco dell’Aga Khan e delle sue truppe nel golfo di Arzachena) e La Maddalena è la prima in Sardegna, a rendersi conto delle enormi potenzialità di questo settore: con lungimiranza incurante delle polemiche che la decisione si porta dietro, l’amministrazione comunale cede una piccola porzione di Caprera, l’isola sacra dei maddalenini, a una società a capitale francese, che crea quel Village Magique primo nucleo del Club Mediterranee, una denominazione che il villaggio assumerà già dall’anno seguente. L’arrivo dei turisti fa rapidamente evolvere i costumi, e La Maddalena diventa la cittadina forse più moderna della Sardegna. La Marina Militare, con il suo cantiere navale e le sue neonate scuole per allievi sottufficiali, dà la sicurezza economica a pressoché tutta la popolazione dell’isola. Per i giovani che non abbracciano la carriera militare, non c’è altro sbocco che un «posto» in Arsenale. Tutti, indistintamente, hanno il calcio nelle vene, e i migliori finiscono nelle file dell’Ilva, una società dove il dilettantismo è ancora allo stato puro. I giocatori non sono retribuiti, ma ci pensa la Marina a dargli un posto di lavoro. È una sponsorizzazione non convenzionale, ma sempre una sponsorizzazione. E l’Ilva, sulle orme dell’Arsenal-Taranto, diventa llvarsenal.
Negli anni Sessanta arriva alla presidenza della società Pietro Secci, un medico sanguigno e super tifoso, che sogna traguardi di gloria per la sua squadra: in campo regionale la supremazia, allora, era assoluta, dopo la ricostruzione del vivaio e la fiducia incondizionata concessa ai giovani. E’ un’Ilva “yè yè” (i juke-box di gran moda, diffondono ininterrottamente le canzoni di Tony Dallara e di Betty Curtis) quella che domina la scena. Piero Paoli, un giovane toscano dal tiro al fulmicotone approdato bambino in Sardegna al seguito del padre allenatore, è l’impareggiabile «chioccia» di una nidiata di «pulcini» che praticano un calcio spettacolo. Sono Antonello Murri, genio e sregolatezza; Mario Pisano, allevato nelle file del CRAL ed ora «bandiera» biancoceleste; Domenico Serra, faro del centrocampo; Nino Catuogno, talento naturale dal cervello e dal tocco sopraffini; Efisio Pireddu, cresciuto nel Cagliari-baby, genero e erede del grande Salvatore Zichina. E i fratelli Scanu, Giovanni “Pane e cipolla” e Bruno “Bucchiellu”. E Gino Vitiello, capofila di una famiglia che darà lustro all’Ilva, e Lino Juliucci, la potenza allo stato brado, e Giovanni Cossu “Ciacciarò”, il chiacchierone ribattezzato “Cucchiaroni”, dal nome di un discusso «astro» del Milan. Quest’Ilva simpatia (Alè. alè Ilva bella, era il grido imponente che la trascinava al successo) varca i confini regionali per approdare al calcio semiprò. Lo fa in maniera rocambolesca: stravince il campionato ma l’accusa di illecito mossale dallo stopper del Sant’Antioco Piero Bulla, lo fanno partire con una penalizzazione di 14 punti. Ebbene, con un’impressionante serie di risultati positivi, l’Ilva dei giovani annulla il gravissimo handicap e riesce a rimanere in serie D. Ancora un paio d’anni di successi in quella serie, poi il declino. Pietro Secci, il presidente di tante vittorie, va via, e l’Ilva pur sempre protagonista, non riesce ad uscire dalle pastoie del calcio regionale. A portarla fuori dall’ambito sardo ci prova, all’inizio degli anni Settanta. Pasqualino Serra, un altro “grande presidente”, ma, in due campionati successivi, una volta l’Iglesias di Amarugi, una volta il Thiesi di Fantoni, la spuntarono sul filo di lana.
Il lettore mi perdoni i cenni autobiografici, ma l’ho confessato in premessa: dell’Ilva sono sempre stato innamorato. Ne sono stato anche dirigente, nella gestione Serra. Allora l’Ilva non vinse il torneo di promozione, ebbe però la grande soddisfazione di contendere all’Unione Valdinievole, la futura Pistoiese del “Faraone” Melani, la Coppa Italia dilettanti. I ricordi si accavallano, e creano sensazioni piacevoli. Una domenica mattina accompagnai la squadra ragazzi a Palau, per una gara dei torneo giovanile. L’Ilva stravinse, ma quel che mi impressionò soprattutto furono due ragazzini biondi che avevano fatto impazzire la difesa biancoceleste.
Erano alti un passo, ma primeggiavano soprattutto nel gioco aereo, sintomo di una capacita atletica e agonistica eccezionali. Erano gemelli, frequentavano la prima classe dell’Istituto magistrale alla Maddalena, e si chiamavano Mario e Marco Piga. Il giorno dopo la gara convocai Vittorio Bulciolu, presidente del Palau (la sua quadra militava in un campionato inferiore) gli feci la più allettante delle proposte: “Scelga tutti i giocatori che vuole – gli dissi, mostrandogli una cinquantina di «cartellini» di calciatori dell’Ilva – in cambio di quei due ragazzini”. Bulciolu nicchiò, poi fini col rifiutare l’offerta. L’anno dopo quei “due ragazzini” passarono, per una barca di milioni, alla Torres per cominciare una carriera che lì avrebbe visti celebrati sugli stadi di tutta Italia.
Quel sogno di vestire di bianco-celeste entrambi o uno solo dei Piga, svanito quei lunedì del 1972, è diventato realtà quindici anni dopo, quando Rino Stelletti, presidente dal piglio manageriale, riesce a ingaggiare Marco, mentre Mario, fa rientro a Sassari, punto di partenza di una carriera luminosa. Trascinata da Marco Piga, l’Ilva vince, al fotofinish sull’Ozierese il torneo di promozione. Il campionato successivo, quello appena concluso, è l’apoteosi. La matricola domina il torneo, mette te in fila squadre con ben altre possibilità economiche (il Calangianus può permettersi un fuoriclasse peruviano, il La Palma la seconda squadra del capoluogo, schiera addirittura Gigi Piras, ex bomber del Cagliari) e raggiunge un traguardo mai conseguito in 85 anni di vita (l’atto di fondazione dell’Ilva è datato 1903), la promozione in serie C. E’ un exploit che sa di prodigio: ne sono artefici, oltre che il presidente Stelletti e il capitano Marco Piga, l’allenatore Angelino Fiori, un professore di scuola media con la passione dei calcio, e una banda di giovani che hanno ritrovato l’entusiasmo dell’Ilva «ye-ye» degli anni Sessanta e hanno ammaliato, con le loro gesta, i tifosi maddalenini. Che hanno riverniciato quel vecchio slogan “Alè, alè Ilva bella” in “Forza Magica Ilva”. Con questo urlo sosterranno (anzi: sosterremo) la squadra biancoceleste nella difficile avventura della C2.
Passato, presente e futuro della squadra maddalenina visti da un inguaribile tifoso.
Gino Zasso 30 aprile 1988