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Giorgio Mameli

Forse pochi sanno che c’è stato un altro Mameli tra gli eroi dell’epopea risorgimentale, un eroe del mare, un eroe più intimo, più remoto, più sofferto, più appartato. Si tratta del contrammiraglio Giorgio Mameli, il padre del più celebre Goffredo, scrittore, poeta, autore del nostro inno nazionale, ardente e glorioso combattente, capitano garibaldino, che morì a soli ventuno anni nella difesa della seconda repubblica romana, anno di grazia 1849.

Giorgio Mameli era nato a Cagliari da nobile famiglia sarda, nel 1798, ed era nato con un lungo sogno azzurro in quella regione di navi e marinai, distesa di reti, barche e remi, ma anche di terre avare e aratri ostinati, di strana luce di sera immobile che effonde il vago cielo dell’alba, e il vento che cerca le perdute barche dei fenici. Era nato col respiro del mare dentro di sé; pertanto nessuna meraviglia quando si arruolò giovanissimo, tredicenne, come mozzo nella marina del Re di Sardegna, e fu imbarcato su una mezza galera comandata da un suo zio, Giovanni Mameli dei Mannelli. Nonostante la sua giovanissima età non tardò a mettersi in mostra presso i suoi superiori, per zelo, disciplina, lealtà, e capacità marinaresca, ma anche per coraggio. Prese parte a vari scontri in mare, con gli sciabecchi barbareschi saraceni che infestavano il Tirreno, e in uno di questi arrembaggi diede prova di grande valore, meritandosi speciali elogi che gli fecero percorrere rapidamente le tappe di una luminosa carriera nella marina di Vittorio Emanuele I. Promosso ufficiale sul campo a diciassette anni, tenente di vascello a 22 anni, fu comandante in 2^ della regia fregata “Genova”, comandata da Francesco Sivori, (forse avo del celebre calciatore Omar), e partecipò alla spedizione di Tripoli, segnalandosi per ardimento e freddezza d’animo, guadagnandosi la croce dell’Ordine Militare dei Savoia, e soprattutto il tributo e la stima del celebre ammiraglio piemontese Giorgio Andrea Des Geneys, il vero creatore della Marina Sarda, che aveva organizzato la spedizione che il Comandante Sivori aveva condotto contro i Barbareschi di Tripoli.

L’amicizia di Des Geneys gli fece saltare le tappe, tant’è che a soli trentadue anni fu promosso Capitano di Vascello. A Genova, la Genova gloriosa delle lanterne verdi e dell’amore ignorante dei marinai negli angiporti, Giorgio mise radici, ebbe numerosi incarichi di fiducia, il comando di una squadra della flotta navale Sarda e tanto prestigio, che meritava, per la sua fiera e onestà dignità di uomo e marinaio. Genova fu la sua seconda patria. Del resto a Genova si era sposato con la marchesina Adelaide Zoagli, che nel 1827 gli aveva dato il primogenito Gottiffredo (ma lo chiamarono sempre Goffredo), dimostratosi subito un bimbo, e poi un ragazzo precocissimo in tutto, tanto che a soli diciotto anni era stato direttore di un giornale, a diciannove docente di un Collegio di Savona, a venti autore del Canto degl’Italiani, poi ribattezzato Inno di Mameli, che a tutt’oggi ancora ci fa vibrare e commuovere. Ma fu a causa del diletto figlio, delle sue idee rivoluzionarie, apertamente mazziniane, irredentiste nei confronti dell’Austria, che la carriera di Giorgio subì un contraccolpo, un arresto. E la promozione a contrammiraglio, nel 1849, quasi vent’anni dopo l’ultimo grado, con l’elezione a deputato del parlamento Sardo, sembrò più che altro un contentino, un modo per tenerlo lontano dai giochi che contavano, per risarcirlo da ciò che gli era stato tolto. Infatti l’anno precedente, durante la campagna dell’Adriatico, il Comandante Mameli aveva avuto un forte contrasto di opinioni con l’Ammiraglio della Flotta Sarda, Ammiraglio Giuseppe Albini, a causa delle idee e delle scelte politiche di suo figlio, e quest’ultimo lo aveva sollevato dall’incarico di comandante della squadra.

Giorgio, anche per le pressioni della moglie e degli altri famigliari, accettò la promozione e l’elezione in parlamento, ma subito dopo, – trascorsero solo tre mesi, – alla morte del figlio Goffredo prese le medaglie, i gradi di ammiraglio, il titolo di deputato, e ne fece un falò. Quando il corpo è stanco e il fuoco declina ed è ormai cenere, ti ritrovi la solitudine, la rassegnazione, il dolore. Tutto divenne vano, fatuo, senza senso, dopo la morte (stupida) di Goffredo (era morto all’ospizio della Trinità dei Pellegrini di Roma, a seguito di un colpo di baionetta alla coscia che gli aveva inferto un suo commilitone, la ferita si era infettata e non c’era stato più nulla da fare). “Mio figlio – disse era straordinario, un genio, avrebbe potuto cambiare il mondo. Ora ogni impresa non ha più senso. Tutto è finito”. Non bastarono il conforto degli amici e dei parenti, né tutti gli anni che gli rimasero da vivere per non rimpiangere ogni giorno la morte di Goffredo. “Oh, che Italia…che Italia sarebbe stata con i Mameli!!”

Decise che avrebbe svoltato l’angolo una volta per sempre, ritirandosi a stretta vita privata, in una sorta di eremo, di espiazione senza pace. Aveva appena cinquantuno anni e tre mesi, e una spondiloartrosi che lo martoriava in modo intollerabile, ma soprattutto aveva una lancia conficcata nel cuore, per la perdita del suo amatissimo figlio. Perdita a cui non si rassegnò mai. Continuò a cercarlo, suo figlio, nei silenzi, negli specchi, sotto la luna, nella solitudine, nella lenta carezza della sua mano.