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Gli anni 60

Per scrivere Parà, Solinas rinunciò a due temi : il primo è la Fiat, che egli considerava, siamo nel 1961, una sorta di mistero, e che avrebbe voluto esplorare tramite un film-inchiesta senza una precisa idea narrativa, a partire dal libro Inchiesta alla FIAT curato da Giovanni Carocci. Questo progetto, che Solinas elaborava con la collaborazione di Giorgio Arlorio, sembrava essere ambientato proprio negli anni 60, ma un film che si sarebbe dovuto chiamare Confino Fiat e avrebbe dovuto coinvolgere Gillo Pontecorvo alla regia, sembrava certamente ambientato almeno un decennio prima, come fa notare Olla. La storia era incentrata attorno al periodo scelbiano quando i sindacalisti, o comunque gli elementi attivi sul fronte politico o sindacale, venivano tutti messi in un reparto speciale della Fiat, denominato “Stella Rossa”.
L’altro progetto a cui Solinas rinunciò per lavorare a Parà fu l’attualizzazione del racconto di Melville, Bartleby lo scrivano, un racconto sull’alienazione, su una enigmatica perdita di sé, ambientata in un mondo ormai segnato, secondo Melville, dal trionfo delle città, degli affari, dei traffici niente affatto mitizzabili come potevano essere le avventure (anche commerciali) delle navi baleniere. In consonanza con gli altri copioni, e poiché nel cinema di Solinas tutto torna e idee e spunti cinematografici si collegano senza sosta di sceneggiatura in sceneggiatura, sarebbe giusto ipotizzare che Solinas fu interessato alla modernità di Bartleby a partire dal tema dell’indifferenza, dell’estraneità sociale, dell’alienazione, dell’incapacità, propria di tutti gli indifferenti di Solinas, di capire i meccanismi di dominio e in alcuni casi di costume che reggono i rapporti tra uomini e la società. Bartleby insomma, la sua attualizzazione, avrebbe potuto rappresentare un altro passo, un ulteriore tassello verso la delineazione della figura dell’indifferente, tanto indagata dall’autore sardo, senza però quel opportunismo che in generale lega gli indifferenti-opportunisti di Solinas l.uno all’altro. L’indifferenza dello scrivano Bartleby è, in questo caso, più un abbandono, un rifiuto del mondo, della vita, dei suoi schemi, delle sue consuetudini sociali.
In un certo senso, un tipo di operazione molto simile, ovvero il libero adattamento di un’opera letteraria, fu compiuta ma solo a metà, poco tempo più tardi, con il Bel Amì di Guy de Maupassant, probabilmente una volta terminata la sceneggiatura di Parà. Siamo nel 1963 quando il produttore Malenotti, che mirava spesso a produzioni internazionali, ritenendo i testi classici particolarmente adatti allo scopo89, propose a Solinas e Arlorio una riduzione del romanzo. Per Arlorio e Solinas, amici dai tempi delle discussioni sui tavoli di Otello, questo rappresenta l’occasione per lavorare insieme. In soli dieci giorni, i due sceneggiatori, che videro nel romanzo l’occasione per offrire una nuova interpretazione anticelebrativa del benessere italiano, costruirono la scaletta per una “commedia nera” rivedendo nel protagonista del romanzo il giornalista Gaetano Baldacci, direttore del quotidiano “Il Giorno” alla sua fondazione e fino al 1959, il quale visse un’ascesa e un iter non troppo dissimili a quelli di Georges Duroy, che costruisce la sua scalata, attraverso disinvolti passaggi di campo, legami ben combinati e un uso spregiudicato dell’informazione. In Baldacci tutto ciò si tramutava in collusioni tra il suo giornalismo e il mondo politico e industriale che portano “Il Giorno” a divenire l’organo non ufficiale di comunicazione fedele all’ENI di Mattei. La storia che Arlorio e Solinas avevano costruito, e per la quale fu scritto anche un trattamento di cui però non resta traccia, rispettava la trama del romanzo di Maupassant: il protagonista arriva a Milano cercando un impiego per sopravvivere e per caso inizia a scrivere alcuni articoli giornalistici. Verso la fine della storia si trasferisce a Roma dove sposava la figlia di un ministro della cui moglie era stato amante. Il progetto del film tramonta poiché Malenotti non riesce a “piazzare” il soggetto presso le produzione estere a cui spesso faceva riferimento.
Arlorio e Solinas pensarono intanto ad un nuovo soggetto che doveva chiamarsi DNA. L’idea era quella di scrivere un film sul mondo della biologia, e in particolare sugli artefici della scoperta del DNA, in un periodo in cui ancora poco se ne parlava. I protagonisti vivevano un dubbio etico senza vederne la via d’uscita poiché ciascuno di loro si isolava nella propria cultura o nel proprio credo religioso. In seguito ad un misterioso intrigo alla spalle della loro scoperta, causato da una presunta fuga di notizie, il gruppo di studiosi sente la necessità di unirsi, superando le distanze culturali presenti tra di loro e andando oltre il credo individuale, convinti che il mondo e loro stessi non fossero pronti per le sconvolgenti possibilità a cui la scoperta avrebbe portato nel campo della genetica. Lo sviluppo del progetto fu interrotto per l’evidente difficoltà dei due autori, che nel frattempo avevano svolto una appassionata quanto illuminante ricerca sul campo, nel fondere insieme i due livelli del racconto: la riflessione filosofico-etica, e il meccanismo del “giallo” attraverso il quale si doveva catturare l’attenzione dello spettatore, creando una tensione che allarmava e univa il gruppo dei ricercatori nell’intento di difendere la loro scoperta e il mondo dalla scoperta stessa.
Altri due temi appassionarono Solinas e Arlorio: uno era riferito alla straordinaria storia della fotografa Tina Modotti e alla sua avventurosa vita, e l’altro riguardala città di Cordova, che esercitava su Solinas un grande fascino dettato dalla magia che questa città sprigionava per l’incontro scontro di due civiltà, quella musulmana e quella cristiana.
Verso la fine degli anni .60, e precisamente nel 1969, Solinas e Roberto Cacciaguerra partono in Vietnam. Insieme cercheranno di visitare tutti i luoghi dove è possibile avere libertà di accesso. Si proponevano di scrivere un film sulla situazione vietnamita di quegli anni, ma per via indiretta, il soggetto si intitola Rien de Rien. L’idea narrativa di Solinas, vede due personaggi estranei al conflitto in corso, Renato e Claude, un italiano ed francese, due ex legionari rimasti in Vietnam e impegnati nel tentativo di sfruttare la presenza degli americani a scopi economici. Alla notizia di un imminente sbarco di soldati americani in una zona pressoché deserta, i due uomini decidono di aprire un bordello e di aspettare il grande sbarco. Poco dopo si stagliano all’orizzonte le prime navi USA. L’entusiasmo dei primi giorni, nella speranza di facili guadagni, si smorza col passare del tempo, poiché le navi restano immobili al largo. Il litigio tra i due amici, conseguente alle tensioni di quei giorni, si conclude col ferimento di Claude, che è grave. Ma proprio in quel giorno, migliaia di soldati raggiungono finalmente la terra ferma e invadono il locale. Su quell’orgia di denaro e alcool il moribondo Claude spende le sue ultime ore a sognare i forti guadagni che in effetti il locale sta ottenendo. Nato dunque da un idea di Solinas, a proseguire nello sviluppo del progetto fu però Fernado Morandi, suo collaboratore. Ad ogni modo, il protrarsi del conflitto vietnamita fino al 1975, fece cadere il progetto di fronte alle evidenti difficoltà del tema, tra costi e ambientazione entrambi proibitivi.

Gianni Tetti