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Gli autografi di Giuseppe Garibaldi

Articolo dello scrittore Antonio Ciotta.

Gli autografi di Giuseppe Garibaldi. In molte raccolte private in Italia e all’estero e sui mercati collezionistici di tutto il mondo, in particolare quelli londinesi, non è infrequente trovare autografi di Garibaldi provenienti da Caprera ove arrivavano al Generale quintali di posta alla quale egli doveva rispondere.

Il movimento postale che la presenza di Garibaldi fece gravare sull’ufficio dell’isola fu tale che si rese necessario rivalutarne la classe; nel solo giorno del suo onomastico (pochi conoscevano la data di nascita dell’Eroe, ma tutti sapevano il suo nome) giunsero talvolta non meno di mille telegrammi impegnando il telegrafo per tutte le intere giornate precedenti e successive a quella ricorrenza. E i telegrammi per il suo onomastico lo raggiungevano ovunque: il 19 marzo 1882, mentre si trovava a Posillipo, nell’impossibilità di rispondere a tutti, dovette indirizzare al giornale Roma di Napoli una lettera con la quale pregava la redazione di pubblicare un annuncio di ringraziamento alle Società operaie, alle associazioni di reduci e alle logge massoniche che gli avevano inviato messaggi augurali. Alla lettera era allegato un elenco di ben 276 associazioni fra le quali la massonica ”Società fratellanza” e la “Società mutuo soccorso” entrambe di La Maddalena. A quell’epoca il telegramma privato era un avvenimento ed il volume dei messaggi telegrafici che in quelle occasioni arrivavano a Caprera superava quello di tutti gli altri uffici postali della Sardegna messi assieme.

Garibaldi, proprio in quel giorno, non gradiva però tante attenzioni: il 19 marzo ricorreva l’anniversario della morte della madre, morte che aveva lasciato in lui un vuoto profondo e della quale, da sensitivo qual’era, aveva avuto il presentimento in pieno Pacifico in una notte del 1852 mentre navigava dal Perù alla Cina.

A Caprera gli scrivevano da ogni parte del mondo: uomini di stato, politici, rivoluzionari, pensatori, ex garibaldini, focose ammiratrici, ma anche semplici cittadini molti dei quali ritenendo che l’Eroe godesse della franchigia non affrancavano le lettere che, inesorabilmente, giungevano tassate. E la cosa era così frequente che Garibaldi dovette chiedere ai giornali di pubblicare un annuncio nel quale pregava coloro che gli scrivevano di affrancare le lettere poichè egli era povero e non poteva pagare la tassa. Non respingeva mai le lettere tassate e rispondeva a tutti. Oggi quelle migliaia di risposte sono ovunque conservate come preziosi cimeli, ma sebbene possano disilludersi i fortunati possessori di quelle missive, dobbiamo rivelare che sull’autenticità degli autografi dell’Eroe sparsi in tutto il mondo si nutrono seri dubbi.

Garibaldi, non potendo far fronte da solo alla mole di corrispondenza da evadere, si faceva aiutare, oltre che dal figlio Menotti e dal genero Canzio, dai suoi tanti segretari, tra cui Giovanni Basso e Giovanni Froscianti, costantemente all’opera nella casa di ferro, e poi Achille Fazzari, Luigi Gusmaroli, Francesco Bideschini e tanti altri che si alternarono per periodi più o meno lunghi. Sulle lettere di risposta egli si riservava la firma, ma ben presto non fu in grado di appore neppure quella. L’acuirsi dell’artrosi, sopravvenuta sin dall’anno successivo all’impresa dei Mille, non gli consentì di scrivere correntemente se non in estate o nella tarda primavera quando i dolori erano leniti dalla stagione più calda. Ben presto, però, quasi tutti i suoi fidi cominciarono ad imitarne la scrittura ed anche la firma. La stessa Francesca, giunta a Caprera analfabeta, aveva imparato a scrivere ad imitazione del suo idolo e spesso, prima ancora del suo matrimonio, si firmava col cognome di Garibaldi. Per molte lettere formali o di circostanza, poi, com’è dimostrato facendo il raffronto fra di loro, si fece persino uso del pantografo così come oggi si fa uso del fotocopiatore.

Ben pochi sono dunque i veri autografi di Garibaldi nei suoi ultimi due decenni di vita e quei pochi di cui si ha per certa l’autenticità, trattandosi di scritti e sottoscrizioni rese a pubbliche autorità o apposte in occasioni ufficiali, si presentano con grafia incerta, tremolante e quasi illeggibile. A suo tempo venne persino posto in dubbio l’autenticità del famoso “codicillo” al suo testamento rilasciato a Francesca e che diede origine alle lunghe vertenze giudiziarie fra gli eredi.

A darci piena conferma delle difficoltà che Garibaldi aveva nello scrivere è una lettera del 2 gennaio 1866 indirizzata da Menotti all’amica inglese Mary Seely. Garibaldi, che di buon grado faceva rispondere dai suoi segretari alle lettere di grandi personaggi, è ovvio che avesse una certa reticenza a passar loro i messaggi talvolta infuocati delle sue ammiratrici alle quali faceva rispondere dal figlio.

Il contenuto della lettera è di scarso interesse, ma è di grande importanza la notizia che ci fornisce: “Gentile signora – scrive Menotti – continuando i suoi dolori alla mano, Papà mi incarica di rispondere alla sua carissima lettera per ringraziare delle felicitazioni che gli ha fatto pervenire…”; la lettera prosegue con brevi espressioni formali e si conclude con i saluti di rito e la firma M. Garibaldi. La grafia, e soprattutto la firma, sebbene non sia affatto celato il materiale estensore della missiva, sono identiche a quelle di Garibaldi.

E’ provato dunque che, già nel 1866, Garibaldi in certi periodi non era più in grado di scrivere neppure alle sue amiche più care e la destinataria di quella lettera era appunto una di esse.

Mary Seely, moglie del deputato inglese Charles Seely, lo aveva infatti ospitato nella villa di Wight in occasione della trionfale visita a Londra del 1864 e lo aveva accompagnato, unitamente al marito, durante tutte le giornate del suo soggiorno in Inghilterra. Erano stati proprio i coniugi Seely, cedendo alle sollecitazioni diplomatiche pervenute da diversi stati d’Europa e dalla stessa corte inglese, che lo avevano convinto a lasciare in tutta fretta l’Inghilterra essendo risultate poco gradite le manifestazioni di pubblico e i consensi di stampa che gli erano stati tributati: consensi e manifestazioni di entusiasmo di tale portata da non essere mai stati ostentati a nessun sovrano europeo e neppure alla stessa regina.

La corrispondenza di Garibaldi con la Seely fu poi molto intensa; fra le tante lettere di quell’archivio quella giunta sino a noi, oltre a farci conoscere quel’era lo stato di salute di Garibaldi nel 1866, ci offre l’opportunità di sapere come funzionava nel secolo scorso il servizio postale. Partita da La Maddalena il 2 gennaio 1866, con una affrancatura ordinaria da 60 centesimi, composta da un 40 centesimi rosa dell’emissione De la Rue tiratura di Torino del 1866 e da un 20 centesimi celeste sovrastampato a ferro di cavallo su un 15 centesimi dell’emissione precedente, la lettera arrivò a destinazione l’8 gennaio. Una semplice missiva poteva dunque giungere a Londra da una sperduta isoletta mediaterranea, dopo aver attraversato l’Italia e la Francia ed aver varcato il Tirreno e La Manica, in appena sei giorni. La Seely, però, non si trovava nella capitale e chi aveva provveduto al ritiro della lettera, volendo farla giungere alla destinataria, dovette riaffrancarla con un penny rosso della regina Vittoria ed inoltrarla a Lincoln, capitale dell’omonima contea a circa cento chilometri a nord di Londra della quale il marito della Seely era deputato, ove fu recapitata il giorno successivo.

Quando si andava a vela, a cavallo e a vapore la posta, anche quella ordinaria, raggiungeva quindi una velocità tale da far concorrenza all’attuale “postacelere”.

Antonio Ciotta