Il mondo della pesca – I parte
Malgrado la storia della nostra comunità sia relativamente recente, è difficile determinare con esattezza il periodo iniziale e lo sviluppo delle attività di pesca nell’arcipelago maddalenino per la penuria di documenti sull’argomento.
Nel Settecento, prima dell’occupazione piemontese del 1767, il viceré di Sardegna avevano inviato qui diverse spedizioni di ricognizione per raccogliere tutte le notizie utili ad affermare o avvalorare il possesso delle così dette Isole Intermedie, conteso da Bonifacio, e quindi da Genova, e ad identificare provenienze, attività ed usi degli abitanti. Dalle circostanziate relazioni che seguirono risulta che la popolazione, più o meno stabile, era formata da agricoltori-pastori còrsi e che nessuno svolgeva attività di pesca: né Sardi né stranieri.
La presenza dei primi, infatti, sarebbe stata notata perché poteva dare al Piemonte qualche titolo di possesso in più nella disputa sull’appartenenza delle isole; i secondi, da qualunque stato anche italiano provenissero, sarebbero stati soggetti a pagare dei tributi, dei quali si sarebbe trovata traccia nei documenti amministrativi dell’epoca. Solo accenno ad una presenza estranea lo troviamo in una lettera del comandante di un pinco della Marina Sarda, De Nobili, il quale nel 1765 scriveva: “I popolatori …. presentemente vivono tutti in capanne fabbricate in verde, chi da li medesimi, chi da maestri, e da due anni a questa parte ho potuto procurarne altre cinque alla marina di gente forestiera, ove se ne contano digià dieci e non sarebbe molto difficile procurarne delle altre venendo i capi famiglia collocati sopra l’armamento di mare e venendo massime introdotto qualche sorta di commercio“.
Eppure lo sfruttamento del corallo nella zona nord della Sardegna, iniziato subito dopo la preziosa scoperta, nel 1559, era divenuto sempre più notevole: i Campani, Torresi in particolare, venivano numerosi sulle loro feluche per la stagione della pesca e probabilmente preferivano non allontanarsi troppo dalle città costiere, sia per necessari approvvigionamenti, sia a causa delle temute incursioni barbaresche. La città di Alghero giocò in questo campo un ruolo determinante, sottoposte a tassa: nel 1791 l’Ufficio delle Regie Finanze di Alghero stendeva un promemoria per concedere a 250 coralline (erano fino a quel momento 200) il “diritto di visita” che già rendeva, nel 1773, sette scudi a barca.
Anche le nostre isole divennero meta di ricerca, ma non si è in grado di precisare o azzardare dati: infatti nei documenti francesi presentati in occasione della disputa sul possesso delle Isole Intermedie, appare spesso la esazione da parte di Bonifacio, dei diritti sul corallo, ma non viene mai precisato il nostro arcipelago come zona di pesca e, data la ben nota necessità per i corallatori, di restare in una zona prossima ad una città, dobbiamo pensare che Bonifacio servisse come rifornimento per tutto il mare delle Bocche. Solo in una relazione trasmessa dal Conte Rivarolo alla Corte di Torino nel 1766, molto dettagliata per ciò che concerne l’attività agro-pastorale degli abitanti delle isole e la loro divisione in nuclei, troviamo un cenno più chiaro alla pesca del corallo: “Si aspettano quest’anno molte coralline a pescare nei mari di quest’isole per pagare i lor diritti in Bonifacio“.
E che poco sapessero gli amministratori piemontesi in proposito lo dimostrano le istruzioni del 1767 per il maggior Sprecher, La Rocchetta che preparava l’occupazione armata delle Isole Intermedie, nelle quali si chiedeva tra l’altro un’indagine economica, “… se vi siano luoghi per pescarvi il corallo e se ne abbondino, quanto si potrà ricavare da tal pesca, se vi abbia pesci e se vi si possa calar qualche tonnara“. Dopo qualche mese dalla richiesta, il 1 marzo 1768, il luogotenente di artiglieria Theseo scriveva da Alghero alle autorità sarde che, dalle informazioni da lui assunte, risultava esistere una zona corallina, distante “da punta Galera dell’isola di Caprera 10 miglia. Il corallo comincia da dove è segnato nella carta e continua sino a Tavolara“.
Intanto nella seconda metà del Settecento, si era determinato sulle coste della Sardegna un afflusso stagionale di pescatori campani, attirati dalla mancanza di concorrenti locali, diretto soprattutto verso le città come Alghero, Posada, Oristano, Olbia, che potevano garantire una certa protezione contro i predoni saraceni. Anche a La Maddalena, dopo l’occupazione piemontese e la conseguente difesa armata dell’arcipelago, arrivarono i primi napoletani, procidani e ponzesi, che trovarono condizioni ideali per stabilirsi: lasciavano paesi ormai sovrappopolati e con attività insufficienti per tutti, e trovavano qui zone vergini, mai sfruttate prima; lasciavano golfi troppo aperti e pericolosi per le intemperie e trovavano cose articolate con maggiori possibilità di riparo; ma soprattutto, provenendo da paesi con attività troppo specializzate (per cui, ad esempio, i Ponzesi adoperavano quasi esclusivamente le nasse i Putoelani le reti), nei quali tutti dovevano necessariamente pescare in determinati mesi e località, trovavano qui, nella molteplicità degli attrezzi, “mestieri”, usati e dei tempi la possibilità di lavorare senza importunarsi l’un l’altro.
Erano però, dal punto di vista amministrativo, stranieri, provenienti da un altro Stato sovrano, il Regno di Napoli, e sottoposti quindi a pagare dei diritti allo Stato ospite; e poiché sulla loro esazione e sulla correttezza dei funzionari addetti non sempre i pescatori napoletani potevano essere d’accordo (c’erano già state delle dispute ad Alghero), nel 1789, per proteggere gli interessi dei propri cittadini, il Console di Napoli a Cagliari presentò un’istanza al Viceré per la destinazione di un viceconsole a La Maddalena. (20 novembre 1789)
Arrivarono i corallatori, per tradizione più pronti ad affrontare gli spostamenti stagionali e la difficile vita che ne derivava, e quindi i pescatori. Casalis alla voce “La Maddalena” del Dizionario geografico-storico (1841), attribuisce a Maddalena 25 barche pescherecce per un totale di 30 famiglie di lavoratori nel settore (contro 280 marinai, 35 agricoltori e pastori, 40 negozianti, 30 meccanici e 10 di altri uffici). Alla voce Gallura dice che, malgrado l’abbondanza dei pesci nei mari galluresi, “sono pochissimi che vi danno opera e non altri che alcuni uomini di Longone (Santa Teresa Gallura) e della Maddalena…. Cotanta negligenza dei Galluresi giova ai Napoletani, che travagliano continuamente sui loro burchi, e fanno non piccolo guadagno”. Basta confrontare questi dati con quelli che Baldacci desume dai registri parrocchiali di matrimonio (fino al 1825 sono 22 i coniugi provenienti dalla Campania, dal 1825 al 1861 sono 38), per capire quale fosse la nazionalità dei pescatori a La Maddalena e anche la consistenza di questo nucleo del quale, non dimentichiamolo molti membri mantengono le loro famiglie nei luoghi d’origine e sono qui tutti gli anni per 6-8 mesi, non lasciando quindi traccia della loro presenza nei nostri registri parrocchiali di nascita e di matrimonio. Giova ricordare che anche i pescatori “maddalenesi” di cui parla il Casalis, appartengono alla seconda generazione degli immigrati della fine del Settecento, quali Scotto e Acciaro.
Si tratta dunque di una fetta consistente della popolazione isolana che non realizzerà fino ai nostri giorni una completa integrazione con le altre componenti: infatti i matrimoni fra Campani e Maddalenini erano rari e sempre nuovi arrivi, soprattutto da Ponza e da Pozzuoli, di individui o di intere famiglie, andavano a rimpinguare il nucleo primitivo mantenendone le caratteristiche iniziali. Cosi, mentre le altre componenti etniche continentali o di altre isole, essendo esigue minoranze nel calderone cosmopolita di La Maddalena dell’Ottocento, ed esercitando diversi mestieri, dovevano necessariamente integrarsi e quindi perdere (o cedere) le loro peculiarità d’origine, la colonia campana si accresceva continuamente di nuove immissioni, e essendo i suoi componenti gli unici ad esercitare la pesca, finirono per mantenere limpide fino ai giorni nostri le attività, le abitudini e la lingua.
Impegnati nella loro vita umile e dura sono passati attraverso tutto il secolo senza essere toccati dalle vicende gloriose o oscure della nascita e dello sviluppo della Marina Sarda, dell’epopea garibaldina, della trasformazione di La Maddalena, con la piazzaforte marittima, in sentinella del Mediterraneo.
Negli ultimi anni del secolo le immigrazioni conobbero un risveglio dovuto alle accresciute potenzialità economiche de La Maddalena sotto l’impulso della base militare, ma proprio questa presenza provocò le prime limitazioni alla libera attività di pesca. Nel 1891 la Capitaneria di Porto vietò ancoraggio e pesca nei tratti di mare compresi tra Punta Sardegna e Nido d’Aquila; fra Nido d’Aquila e Palau; tra la Secca di Palau e l’estremità sud di Cala Inglese. Il 13 maggio 1892 si aggiungeva la zona tra Tre Monti e Battistoni e tra l’isolotto dei Cappuccini e la boa. E quando qualcuno, come Giovanni Susini nel 1898, reclama per non poter pescare nemmeno sulla costa prospicente i suoi poderi, il Comando Marina laconicamente “si pregia informare …. che è proibito pescare presso le opere militari”. Tutta la rada interna tra Punta Rossa e Cappuccini ad est e Punta Sardegna e Tegge ad ovest, diventava così zona proibita, ma, tranne che per qualche caso sporadico di intolleranza, non si arrivò mai a situazioni difficili, visto che ai pescatori non mancavano altre fruttuose zone di pesca esterne che comprendevano, in un vasto semicerchio, partendo da est: i Nibani, Mortorio, le Bisce, Caprera, gli Sperduti, l’Arpaia, i Barrettini, Santa Maria, Razzoli, Budelli, Spargi, i canali interni fra queste isole e Maddalena, la costa sarda fra Cala di Trana, la Sciumara e Coluccia.
Diventava però più rigoroso il controllo della Finanza che intendeva evitare ogni contatto clandestino con la vicina Corsica. In effetti il desiderio di interrompere il commercio illegale sulle Bocche di Bonifacio non si era mai realizzato malgrado i numerosi tentativi e provvedimenti ad hoc che dalla fine del Settecento lo Stato Sabaudo aveva emanato: se poteva essere più facile controllare le bilancelle o i rivani da carico che facevano piccolo cabotaggio, diventava praticamente impossibile tener d’occhio tutte le barche da pesca; e quindi, soprattutto nei periodi più duri, erano proprio queste a trasportare notevoli quantitativi di formaggio, caricati a Liscia, Porto Pollo e Porto Pozzo. Proprio presso quest’ultima località il veliero scuro della Finanza si teneva spesso in agguato in una cala che ancor oggi i pescatori conoscono con il nome di “Cala d’a Finanza”.
Parzialmente tratto da “Il mondo della pesca” – Co.Ri.S.Ma – Giovanna Sotgiu
- Il mondo della pesca – I parte
- Il mondo della pesca – II parte
- Il mondo della pesca – III parte
- Il mondo della pesca – IV parte
- La pesca con le reti
- La pesca delle aragoste
- La pesca con le nasse
- La pesca con i palamiti
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- Foca monaca – (Monachus Monachus)
- Tartaruga di mare – Cuppulata
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- Provenienze dei pescatori maddalenini