Co.Ri.S.MaIl mondo della pescaLa Maddalena Antica

Il mondo della pesca – II parte

Le testimonianze dei vecchi ci hanno consentito di ricostruire, almeno in parte, la vita della comunità dei pescatori all’inizio del secolo, divisa in due gruppi principali, Puteolani (puzzulani) e Ponzesi (punzesi), e in altri meno numerosi, come i cetaresi e i siciliani, che mantenevano, insieme alle abitudini derivate dai diversi luoghi di provenienza, una netta differenziazione degli attrezzi da lavoro. Si erano stanziati, cercandosi l’un l’altro man mano che arrivavano, i primi a Abbass’a marina (Bassamarina oggi via Amendola), i secondi a U molu (Cala Gavetta), gli altri, seguendo il destino delle minoranze, senza una localizzazione precisa, ma il più possibile vicino al mare.

I Puteolani occupavano la lunga fila di vani a pianterreno, spesso interrati, che va dall’attuale Bar Fabbris alla fine dell’odierna via Amendola (allora via Nazionale) e, saltando il lungo cordone di via Garibaldi, le zone immediatamente retrostanti: via Tola, via M. Fanti, piazza Ferracciu.

La porta di casa, un’anta divisa trasversalmente in due sportelli fissati all’interno da un gancio strutturato come un grande triangolo con un lato a muro, si apriva a volte sotto un arco, che ospitava gli attrezzi da lavoro, al riparo del quale le donne occupavano le lunghe ore di assenza dei mariti dipanando le matasse di cotone sui rudimentali arcolai o facendo le reti. La stanza, oggi la chiameremo monolocale, era occupata in un angolo dai fornelli a carbone e qualche volta dal forno, dai letti con testiere in ferro e da un comò sul quale facevano bella mostra di sé le immancabili immagini dei Santi ai quali, nelle lunghe ore di attesa del ritorno delle barche, le donne rivolgevano le loro fervide preghiere promettendo i loro voti. In quasi tutte le case, la notte, ardeva davanti alle sacre immagini un lumino ad olio.

L’abitazione era normalmente insufficiente per i componenti la famiglia, quasi sempre numerosa, che poteva però contare su una dipendenza a tutti gli effetti della casa, distante da questa pochi metri: la barca, sulla quale dormivano i ragazzi più grandi finché non creavano una loro famiglia sposandosi e lasciando il posto ai fratelli minori. I ragazzi sulle barche godevano di una certa libertà nell’orario di “rientro a casa” e nei giorni di festa andavano a dormire più tardi; non era infrequente vedere la mattina seguente il padre pronto per partire cercare invano di svegliare i gagliardi addormentati e, non riuscendovi, tirar via la tenda che li riparava.

La strada, molto più stretta di quella attuale, finiva senza marciapiede sul mare con un molo rudimentale di pietre a secco che contenevano a mala pena la forza delle onde tant’è che qualche sciroccata faceva arrivare gli spruzzi fin dentro le case: e sulla banchina, considerata quasi un cortile di pertinenza degli abitanti, si disponevano in lunghe file le reti ad asciugare, si riparavano i buchi prodotti dagli odiati delfini o da altri pesci grossi che, non sempre, sfondando, rimanevano impigliati, o da strappi dovuti all’usura. Seduti per terra o sui banchetti, con l’alluce infilato in una maglia sana per tendere la rete da riparare, da soli o in piccoli gruppi, i pescatori lavoravano nelle giornate in cui era impossibile uscire in mare. Tutto ciò risultava piuttosto ingombrante e già nell’ottobre 1898 il Regio Commissario aveva, con un’ordinanza, proibito “lungo la via a mare, seno di Mangiavolpe, dai magazzini degli eredi Feracciolo sino all’inizio della piazza Umberto I …… di tenere qualsiasi materiale, di stendere per qualunque scopo le reti e di ingombrare in qualsiasi modo il suolo pubblico”. Ma l’ordinanza non poté avere l’effetto voluto, data la mancanza di altro spazio disponibile e si continuò ad adoperare la via nel solito modo, come testimoniano le fotografie dei primi anni del Novecento in cui appaiono, accanto a lunghe cordate di panni stesi, galline libere di circolare, marruffi e reti.

Nella zona attualmente occupata dell’ufficio postale, un piccolo scalo d’alaggio naturale consentiva di portare a terra le barche per la manutenzione (1); tutto era fatto in maniera artigianale: un palo di ferro solidamente piantato per terra, intorno al quale si incappellava un bozzello, una cima lungo le fiancate della barca, inserita in perni passanti, i “parati” unti di sego per evitare l’attrito e qualche paio di braccia bene allenate bastavano  per l’alaggio; poi, aiutandosi a vicenda riparavano i piccoli guasti. Altri, con l’aiuto dei ragazzi e delle donne, preparavano negli enormi paioli, carara, la tintura per le reti, accatastando la legna sotto il treppiedi u trippede, dosando la polvere rossa ricavata dalla scorza di zappino (albero simile al pino), macinata, immergendo con l’aiuto di una lunga asta le reti nel liquido fumante. In inverno l’acqua della tintura ormai inutilizzabile, u zappinu, veniva richiesta dalle donne isolane per curare i geloni delle mani e dei piedi nudi.

La fila di case era interrotta solo dalle bettole (prima quella di Scotto (attuale ristorante L’Aragosta), Rivano (attuale ristorante  Il Brigantino), poi quelle di Liò e Nando Toso e dai magazzini dei pesci (Memmoli, Di Fraia, poi Piras, Toso e Aversano). Questi, attrezzati per conservare il pesce sotto ghiaccio e spedirlo ai mercati continentali (Civitavecchia soprattutto), erano diventati il punto di riferimento economico di importanza vitale: garantivano infatti il ritiro di tutto il pescato, per il quale stabilivano il prezzo in base a quelle che per i pescatori erano delle incomprensibili leggi di mercato, per cui ritocchi continui basati sull’aumento o la diminuzione della quantità di prodotto, rendevano imprevedibile il guadagno giornaliero. Ma, soprattutto all’inizio del secolo, esercitarono una funzione notevole fornendo ai pescatori non solo gli strumenti da lavoro (come avverrà pure in seguito), ma anche le barche, ciò che consentiva quel primo passaggio di categoria, da semplice marinaio a padrone, che sta alla base del miglioramento della condizione sociale. Era però lungo e difficile affrancarsi dal rapporto con i magazzini e ancor oggi i pescatori dicono di aver incominciato a godere di buoni guadagni solo quando hanno potuto amministrare autonomamente il lavoro.

Le bettole erano frequentate nelle lunghe serate invernali, quando l’inclemenza del tempo obbligava all’inattività e li i pescatori giocavano a carte mettendo come premio un quarto di vino che i vincitori spesso non consumavano sul posto, ma portavano a casa per la cena.

A Cala Gavetta i Ponzesi conducevano la loro vita occupati come i Puteolani nei loro lavori di preparazione dei loro mestieri, le nasse, o nella manutenzione delle barche per la quale si servivano dello scalo che occupava il lato nord della cala (2), fangoso e malsano a causa della turbolenta vadina nella quale affluivano gli scarichi fognari della zona a monte. Le case dei Ponzesi, a differenza di quelle dei Puteolani erano basse ma ariose; avevano, quelle dello Spiniccio, un cortiletto sul retro, quelle dei Castelletti le piazzole con i gradini che ancor oggi caratterizzano la località. Anche U Molu aveva le sue bettole: Ugazzi, “Franza” e Bertorino.

Un osservatore distratto che avesse guardato le due zone, vedendo gli uomini partire agli stessi orari, vestiti nello stesso modo, parlare fra loro la stessa lingua, su barche dai colori vivaci attrezzate con remi, antenna e albero, avrebbe pensato di trovarsi di fronte alla stessa gente; ma uno sguardo più attento avrebbe rivelato le differenze: gli attrezzi da lavoro prima di tutto (solo reti per i Puteolani, solo nasse per i Ponzesi), i periodi di attività (meglio distribuiti durante il corso dell’anno, data la varietà di reti impiegabili per i Puteolani, concentrati quasi freneticamente in primavera inoltrata – estate per i Ponzesi), le barche (più laghi e pesanti i gozzi dei Puteolani, più lunghe e sfilate, quasi sempre con “pernacchia” le feluche ponzesi). Ma anche nell’abbigliamento dei più vecchi si distingueva ancora qualche differenza perché i Puteolani portavano all’orecchio sinistro un cerchietto d’oro, regalato dal padrino al momento del battesimo, che li accompagnava fino alla morte e, all’altezza della vita, una fusciacca di lana a colori vivaci. Il resto dell’abbigliamento era costituito da cotone o fustagno per le giornate di lavoro, zigrino nero per le grandi occasioni per chi poteva premetterselo.

Quando le due zone “storiche” di Abbass’a marina e U Molu furono sature, i nuovi arrivati dovettero occuparne altre sempre seguendo la concentrazione abituale degli immigrati, derivata forse dalla necessità dell’aiuto reciproco o anche solo dalla familiarità di costumi, usi e lingua simili; così altre due zone furono colonizzate, via Balbo (fila di case basse con orti retrostanti) e il quartiere di più recente creazione, Due Strade. Un altro nucleo, meno numeroso dei due descritti, si distingueva per gli attrezzi adoperati: erano i pescatori di Cetara, specializzati nell’uso dei palamiti, spostatisi dal loro paese a cominciare dalla seconda metà dell’Ottocento per mancanza di lavoro; il mare spesso burrascoso e senza ripari della loro zona di provenienza consentiva una pesca limitata ai soli mesi estivi e quindi i più intraprendenti, sentendo dai giovani militari di leva che rientravano, che qui c’era più possibilità di lavoro, si trasferivano “per la stagione”, da febbraio a ottobre; solo molto più tardi, all’inizio del 1900, troviamo le famiglie intere ormai residenti stabilmente.

Qualcuno dei gentili signori ottantenni che abbiamo interpellato per questa ricerca, alle nostre domande sulla vita che conducevano da bambini ci ha risposto sorridendo: “Prima di andare a pescare non ero piccolo”; ma poi i ricordi si sono concretizzati facendo emergere una miriade di ragazzini vocianti sulle strade o sulle piazzette. Durante i giorni feriali la scuola, frequentata al mattino e al pomeriggio, lasciava poco spazio a disposizione, ma con l’arrivo della bella stagione, la strada diventava la casa di tutti. Quasi sempre scalzi e quindi con le unghie rotte e con un bel callo resistente sotto la pianta dei piedi, giocavamo a acchiappà e a appiattà. Le bambine si dedicavano alle bambole, a saltare la corda, a u chiappu o al gioco dei pennini che consisteva nel piazzare i pennini vecchi (ma speso venivano spuntati a bella posta) su una superfice per poi cercare di girarli facendoli aderire al dito bagnato di saliva.

I bambini avevano forse una maggiore varietà potendo passare dalla palla, quasi  sempre di stracci, a “i buttoni”, alle biglie (i “bigli” di argilla colorata, i “picchiarani” e i “vedrini”, ricavate dai tappi delle bottiglie di gazzosa), con i quali si realizzavano giochi diversi; deposte le biglie su un triangolo disegnato per terra, i contendenti dovevano cercare di colpirle da diverse posizioni, con una biglia-proiettile che veniva scagliata dal pollice della mano destra, rigorosamente appoggiata a terra o sull’altra mano che fungeva da sostegno, con tutto un rituale di gesti e frasi. Oppure il bersaglio poteva essere costituito da tre biglie accostate sulle quali veniva appoggiato un soldo da 5 centesimi; spesso come sostegno della moneta si adoperavano dei noccioli di mandorle e l’immagine di “u sordu in goppa a’nocella” dei bambini veniva ripresa dai grandi che così fantasiosamente l’applicavano a un uomo di bassa statura.   Altro gioco in voga era quello di “i santi”, le figurine cioè ritagliate dalle scatole dei fiammiferi che venivano appoggiate al muro e lasciate cadere ad una ad una per coprire quelle che già stavano a terra o, riunite verticalmente e bloccare con un pò di terriccio, prese di mira con una pietra piatta. Come in ogni tempo i momenti dell’anno più belli per i bambini erano le feste religiose: ai Santi ognuno andava in giro con la sua bella collana di castagne lesse; a Pasqua ogni bambino riceveva un canestro di pasta dolce con all’interno i pezzetti di formaggio e l’uovo sodo intero; a Natale non si ricevevano regali, ma la mamma preparava il panettone dolce con la frutta candita. In quelle occasioni, invece di brontolare, come sempre avveniva quando si doveva preparare il forno per il pane (una volta la settimana), tutti andavano allegramente a raccogliere le frasche di “mucchiu” o di “scopa”.

Qualche padre prudente, conscio dei pericoli del mare, insegnava ai figli a nuotare legandoli ad una cima con due sugheri, sulla schiena e sul petto, e tenendoli intorno alla barca li esortava: “moi i pedi, l’hai da muvì i pedi”. E ciò malgrado fosse vietato bagnarsi “anche con mutande”, lungo tutti i banchinamenti prospicenti l’abitato, dalla Capitaneria di Porto alla punta Nera di levante. (3) Ma anche questa ordinanza, come l’altra relativa all’ingombro della strada, non fu mai rispettata. Verso i sette-otto anni incominciava l’apprendimento per il mestiere, dapprima ancora sotto forma di gioco, quando i bambini gareggiavano tra loro intrecciando canapa per i sostegni dei remi (stroppi o “muscelli”); poi, condotti in barca, imparavano a lavorare: i primi strumenti che si vedevano affidare erano la sassola o la spugna per togliere l’acqua dal fondo della barca (“sguttà”); poi il fanale a petrolio, a carburo o a acetilene che doveva essere mantenuto pulito e con la vaschetta (“u lamparolu”) sempre piena di combustibile. Il marinaio di bordo controllava il giovane affidatogli, gli insegnava il mestiere aiutandone i progressi: i ragazzini ponzesi iniziavano legando l’esca alle nasse che poi imparavano ad issare a bordo; i puteolani a smagliare i pesci non pericolosi come le triglie, poi quelli difficili, come gli scorfani o i capponi. Tutti prendevano confidenza con il mare e con ciò che esso rappresentava: sussistenza, ma anche fatica e pericolo. E’ difficile per noi immaginare, all’inizio del secolo, un bambino di sette anni, condotto dal padre ad una normale battuta di pesca ai Nibani, a causa di una forte ponentata che bloccò le barche per molti giorni, costretto a dividere le ansie e i disagi dei pescatori assediati: i ricordi lucidi dell’uomo anziano di oggi (Gennarino D’Oriano), ci mostrano il padre che tiene nascosto il poco pane disponibile nella giacca per affettarlo in modo parsimonioso, e darlo da mangiare al figlio con orticate bollite e “lattaredda”.   Man mano che il ragazzino “u guaglionu” cresceva anche il suo lavoro si avvicinava di più a quello dei grandi e quindi veniva ricompensato: malgrado spesso facesse il suo apprendistato sulla barca del padre non era questo ma il marinaio di bordo che stabiliva, in base alla resa, le diverse tappe della paga: un quarto di pane, poi metà e infine la tanto sognata parte intera.

Note:

1) Erano ormai scomparsi gli altri piccoli scali naturali esistenti, sia quelli di Cala Gavetta, lungo le banchine di ponente, adatti per canotti e battelli, sia quelli occupati oggi dalla banchina commerciale, dei quali il più importante nonché il più contestato per essere troppo vicino alle case era lo Scalo degli Olmi (attuale palazzo comunale e in parte hotel Excelsior); il proprietario di una di esse, Sebastiano Alibertini, lamentava il 26 giugno 1886, “il gettito fra le barche tirate a terra di ogni immondezza, che si tolga da le casa e dalle persone ….. e il rischio di incendio quando per la riparazione si dà fuoco alle barche”. Archivio Comunale.

2) Il porto di Cala Gavetta era stato, nel 1886, annoverato fra quelli di quarta classe, malgrado le lagnanze del Comune che si vedeva costretto a provvedere in toto alla sua manutenzione e inoltre a partecipare alle spese per quello di Terranova Pausania (attuale Olbia). Si assisté così ad un degrado continuo, soprattutto del lato nord, insabbiato dallo scarico della vadina e quindi quasi impraticabile, ai crolli del muro a secco dei banchinamenti ad est e di conseguenza ai richiami reiterati da parte delle Capitaneria e della Sottoprefettura di Tempio verso il Comune che si dichiarava impotente. La grave situazione culminò nella delibera del 1 ottobre 1874 con la quale il Consiglio Comunale di La Maddalena si rifiutava di stanziare nel bilancio 1875 le spese concernenti la manutenzione del porto di Terranova, adducendo anche il motivo di avere “un porto conveniente nell’approdo dei vapori e grossi legni epperò gravato di due spese contemporanee”. Solo l’attività legata alla nuova piazzaforte marittima riportò pian piano in vita Cala Gavetta con la bonifica del lato nord, con l’asportazione del basso fondo, grazie ad una tremogia di proprietà della Regia Marina, che veniva periodicamente prestata all’Amministrazione Comunale, con la sistemazione dei banchinamenti ad ovest riservati ai rimorchiatori militari e mercantili, pontoni e chiatte e quelli riservati ai bastimenti per il commercio; le barche da pesca fruivano della parte più interna. Archivio Comunale.

3) Ordinanza del 18 giugno 1899

Parzialmente tratto da “Il mondo della pesca” – Co.Ri.S.Ma – Giovanna Sotgiu

  1. Il mondo della pesca – I parte
  2. Il mondo della pesca – II parte
  3. Il mondo della pesca – III parte
  4. Il mondo della pesca – IV parte
  5. La pesca con le reti
  6. La pesca delle aragoste
  7. La pesca con le nasse
  8. La pesca con i palamiti
  9. Erba corallina
  10. Foca monaca – (Monachus Monachus)
  11. Tartaruga di mare – Cuppulata
  12. Pinna Nobilis – Gnacchera
  13. Delfino – U fironu
  14. Le spugne
  15. Le razze
  16. La barca
  17. Provenienze dei pescatori maddalenini