La barca
Le barche tradizionali, frequenti nei nostri mari erano tre tipi: spagnolette, feluche e gozzi. Le prime usate dai pescatori di Alghero, più larghe rispetto alle altre, avevano prua dritta e pernacchia, corridoi larghi e coperta abbastanza lunga; erano armate di quattro remi che i rematori usavano stando seduti e volgendo la schiena alla prua.
La feluca è la classica barca ponzese, lunga e sottile, con pernacchia (utilizzata per legare le nasse), ha lunghezza variabile da sei a dieci metri, ovvero da 24 a 40 palmi.
Il gozzo, barca puteolana con prua a violone, incurvata dolcemente, è più larga della feluca e ha lunghezza variabile dai sei ai dieci metri; era armata di quattro remi più uno che i rematori usavano stando in piedi col viso rivolto nel senso della direzione di marcia che non era la prua, come si potrebbe comunemente pensare, ma la poppa.
Nessuna di queste barche veniva realizzata a Maddalena dove nei primi decenni del Novecento non c’erano ancora carpentieri: chi doveva comprare una barca nuova andava normalmente a Torre del Greco.
I nostri primi carpentieri iniziarono a lavorare intorno al 1930, con riparazioni o con fabbricazione di battelli non adatti alla pesca di professione per la quale mancava la tradizione locale e quindi schemi e attrezzature necessarie. Erano Demeglio Gaetano, Ferracciolu Giuseppe e Rum Antonio.
I tre tipi di imbarcazione avevano delle caratteristiche tecniche comuni nello scafo, sulle quali non ci dilunghiamo perché facilmente riconoscibili nella nomenclatura marinaresca italiana. Ci sembra invece utile fissare la nostra attenzione sulle manovre relative alla vela latina e sul “corredo” interno perché si tratta di oggetti ormai non più facilmente reperibili dei quali, quindi, anche i nomi tendono a scomparire.
La caratteristica comune più evidente è la divisione dell’interno in due parti grazie alla paratia, “u marrapèci“; la zona di poppa, libera e molto ampia, era dedicata al lavoro vero e proprio: di qua si calavano e si salpavano i mestieri, qua veniva fissato il lume (sia per illuminare il lavoro notturno sia per pescare di notte con l’aiuto della luce, “lumà“), qua si smagliavano i pesci. Ai due lati si trasportavano le nasse o i grossi cumuli delle reti o i palamiti, ordinatamente disposti nelle cassette.
Le reti da sole, con il loro peso, zavorravano sufficientemente la barca; in loro assenza era necessario usare come zavorra 4 pale di ghisa che potevano essere spostate sui paioli secondo la necessità di aumentare il peso da una parte o dall’altra per bilanciare lo sbandamento dovuto alla presenza della vela. Era importante valutare esattamente la quantità di zavorra e ogni barca aveva sul dritto di poppa un segno che indicava la linea di galleggiamento ottimale.
La grande innovazione riguardante i nassaioli pescatori di aragoste, un piccolo vivaio inserito fra il secondo e il terzo banco, sconvolse l’assetto e il peso della barca e quindi cambiò, per quel tipo di imbarcazioni, l’uso della zavorra. Si trattava di una vasca, “a cascia di l’arigusti“, di 80 cm per un metro di altezza totale, che occupava la larghezza di quattro ordinate e arrivava lateralmente all’altezza della linea di galleggiamento ed era rivestita nella parte interna, da uno strato di pece amara; un continuo ricambio d’acqua consentiva alle aragoste (dai 30 ai 50 Kg) di vivere due giorni senza pericolo. Poiché gli orari di pesca prevedevano spesso l’impiego della notte e di buona parte della sera, la barca non era solo strumento di lavoro, ma anche una sorta di casa galleggiante dove si doveva poter lavorare, mangiare e dormire: perciò nella parte anteriore, sotto la prua e lungo le fiancate fino alla paratia, degli stipetti, “scudellari”, contenevano la maggior parte degli oggetti indispensabili quali piatti, forchette, vettovaglie, qualche pentola, attrezzi per riparazioni. Sotto la coperta, che occupava, partendo dalla prua, 1,5-2 metri, venivano tenuti al riparo eventuali indumenti di ricambio e le coperte, indispensabili d’inverno per dormire all’aperto.
Il corredo comune comprendeva anche:
– il braciere, “u fuconi“, ricavato da una scatola di legno quadrata, rivestita all’interno di mattoni refrattari al calore, e coperta al centro, là dove doveva essere acceso il fuoco;
– i banchetti, “i scannitielli“, sui quali salivano i pescatori per remare in condizioni di vento normali; quando questo aumentava infatti, occorreva salire sui banchi per dare ai remi maggior efficacia;
– il fanaletto a petrolio, “u lummarellu“, con tre lati a vetro e uno opaco e portiera a scatto, sostituito poi dal lume a carburo; – un’ancora a quattro patte, “u ferru” e una “mazzerella” di ferro con catena;
– “u connùtu“, sistema di cime lungo le fiancate della barca, attraverso perni passanti, utilizzato per “tirare a secco“, in caso di pericolo o di danneggiamento, anche in qualche cala lontana;
– “i parati“, rettangoli di legno sagomati con un incavo al centro, unti di sego, sui quali si appoggiava la chiglia della barca da tirare a terra;
– lo scandaglio, rudimentale, ma utilissimo, fatto da una piastra di piombo a forma di goccia, che veniva spalmata di sego, legata ad una lunga sagola e gettata a mare per avere informazioni sulla profondità e sulle caratteristiche del fondale: sabbioso se un pò di sabbia rimaneva attaccata al sego, roccioso se lo scandaglio risaliva ammaccato; – la damigiana dell’acqua potabile “a mùmmula” e, più anticamente, la brocca, “a cafissa“.
– il sego tagliato, pestato e amalgamato con un pò d’olio perchè non si indurisse troppo in inverno e fosse sempre utilizzabile per ungere i parati, gli scalmi dei remi, lo scandaglio, ecc.; – un piccolo mortaio di granito, indispensabile per chi usava il guarracinaro, per preparare le esche;
– “a tufa“, che serviva da richiamo da una barca all’altra, che non tutti sapevano usare correttamente per trarne il caratteristico suono sordo e cupo; – l’antesignano della gaffa o mezzo marinaio, “u croccu”, ricavato da un ramo di ginepro (“aiaccio“) con una punta ricurva, che serviva per afferrare i pedagni delle nasse o delle reti;
– il pennone e il sostegno trasversale ad angolo acuto della tenda, “a grabbia”;
– le ceste, fatte di legno di fiume chiamate “a spasa” (con i manici) e “u chiarellu“, (senza i manici); – il bugliolo, di doghe di legno tenute insieme da due cerchi di metallo.
Prima dell’avvento del motore le barche così attrezzate, con quattro o cinque persone di equipaggio (tre per quelle più piccole), si muovevano a vela o a remi; questi, lunghi 24 palmi (sei metri), erano solitamente quattro (un quinto poteva essere calato a prua, in aiuto ai rematori più deboli per riequilibrare l’assetto a l’andatura) e, quando non venivano usati, erano appoggiati sulle forchette di legno ricavate dall’incrocio di due rami di aiaccio.
Appoggiati agli scalmi, ai quali erano fissati con gli stroppi, “i muscell“, darebbero oggi l’idea di essere poco maneggievoli o ingombranti. I rematori, in piedi sugli “scannitielli” o sui banchi con le spalle alla prua, remavano mandando avanti la poppa in navigazione normale o durante l’operazione di salpare; solo per calare le reti la barca procedeva con la prua avanti. La tecnica di voga e la proporzione remi-barca produceva una velocità notevole e soprattutto consentiva ai pescatori di non stancarsi troppo nelle lunghe ore ai remi.
Capitava a volte di avere dei rematori particolarmente vigorosi, come Salvatore Ferracciolo, “Pasedda“, famoso perché bastava un ragazzino all’altro remo della sua fiancata per reggere bene il confronto con due uomini robusti dall’altra; strano tipo di marinaio che non imparò mai ad aggiustare le reti, unico forse nella sua professione.
Quando c’era abbastanza vento i pescatori tiravano un sospiro di sollievo per non faticare sui remi e si affrettavano a prendere dalle forchette albero e antenna. Una estremità dell’albero veniva alloggiata in un’armatura di legno cava, fissata al paramezzale (“a scassa“), e appoggiata al primo banco, scavato a mezzaluna, stretto da un anello (“a ciappa“). Ogni barca portava 3 vele: maestra, mezzana e veletta, (chiamata “San Pietro“) e 5 fiocchi di diverse dimensioni, il più piccolo dei quali aveva il significativo nome di “magnaventu”. Le vele venivano solitamente acquistate con la barca, ma a La Maddalena ci fu, a partire dalla fine dell’Ottocento, un velaio, Francesco Spinelli, ligure di Oneglia, che, come tanti altri, capitato qui per fare il servizio militare, si sposò e accasò. La vela maestra, di solida tela olona, si componeva di 18 ferzi trapezioidali, larghi 50 cm “i sferzi“, cuciti fra loro in modo da formare un vasto triangolo su due bordi del quale veniva fissata e racchiusa con un orlo, una cordina, “a bastetta“; sugli stessi lati, all’esterno, se ne cuciva un’altra di rinforzo; il lato di poppa restava invece libero “u sferzu d’u filu“. Sui tre angoli su fissavano poi tre redance per le manovre e, nella testata di prua, un bozzello, per fissare la vela all’antella. Paralleli al lato inferiore correvano, a due diverse altezze, due rinforzi con i matafioni per i terzaruoli: solo la vela più piccola ne era priva.
L’antenna, “antinna“, lunga asta di legno, aveva solitamente un rinforzo al centro dove si esercitava lo sforzo maggiore, (“a lampazza“); all’estremità, verso prua, un anello sulla soglia, era il “caru di prua“; l’altra, che andava dall’antenna alla murata, era il “caru di puppa”: entrambe servivano per avvicinare o allontanare l’antenna all’albero. Consentiva la manovra di sollevamento una corda con gancio (“ammanta“) che portava l’antenna al punto desiderato in cui, attraverso un alamaro di solida corda (“a trozza“), l’antenna veniva strettamente unita all’albero. La cima veniva quindi fissata nella parte inferiore di questo, in una “galloccia”. Una cordina con un bozzello a una sola rotella (“a balansina“) partiva dalla parte terminale dell’albero e si collegava con un gancio ad un anello (“ricambò“) sullo spigone, per ricevere il terminale del fiocco.
Parzialmente tratto da “Il mondo della pesca” – Co.Ri.S.Ma – Giovanna Sotgiu
- Il mondo della pesca – I parte
- Il mondo della pesca – II parte
- Il mondo della pesca – III parte
- Il mondo della pesca – IV parte
- La pesca con le reti
- La pesca delle aragoste
- La pesca con le nasse
- La pesca con i palamiti
- Erba corallina
- Foca monaca – (Monachus Monachus)
- Tartaruga di mare – Cuppulata
- Pinna Nobilis – Gnacchera
- Delfino – U fironu
- Le spugne
- Le razze
- La barca
- Provenienze dei pescatori maddalenini