La casa parrocchiale
È fuor di dubbio che il progetto della chiesa, approntato da Desgeneys, prevedeva anche la costruzione di un alloggio da mettere a disposizione del Parroco e che nelle intenzioni dell’ammiraglio quest’onere dovesse ricadere sugli isolani; ma, se per costruire l’edificio sacro i maddalenini si dimostrarono molto disponibili e generosi, nei confronti del Vicario l’atteggiamento dei componenti del Consiglio Comunitativo fu del tutto diverso; quando si trattò di realizzare la piccola abitazione, essi misero in atto un’opposizione ferma contro qualsiasi spesa in tal senso, anche se il Parroco, nel corso dei lavori per la costruzione della canonica, fu sistemato per circa due anni in una casa privata, presa in affitto a spese del comune.
Perché quest’avarizia, che contrastava con la liberalità dimostrata nelle offerte in denaro e nelle prestazioni di beni e servizi a favore del fabbricato della chiesa? Perché il Consiglio Comunitativo non si sentiva in obbligo nei confronti del curato? Perché alcuni degli amministratori erano convinti di essere dalla parte del giusto dato che il religioso non adempiva, secondo loro, all’obbligo di mantenere un bambino spurio; ma, forse, l’argomentazione era solo una scusa strumentale. Effettivamente, il sacerdote ometteva di dare sostentamento allo sfortunato ragazzino non per mancanza di volontà, ma perché non ne aveva i mezzi, in quanto la popolazione, in virtù di una speciale esenzione, non pagava le decime, gli spuri, quindi, dovevano essere a carico del comune. Un circolo vizioso, quindi, diffìcile da rompere senza un minimo di buona volontà da entrambe le parti.
Finalmente, nel dicembre del 1815, la casa fu ultimata ma, almeno all’inizio, il Parroco preferì non lasciare il suo alloggio temporaneo, che era migliore di quello che era stato approntato per lui; lo fece solo dopo che il Consiglio Comunitativo minacciò di non pagare più il fìtto. La casa doveva essere obiettivamente scomoda e diversa dal progetto originario se il prete rifiutò di entrarci, in questo supportato dal Vescovo. Da ultimo, il Consiglio usò quel poco di buona volontà che in precedenza mancava e nel 1816 e 1817 fece eseguire nell’alloggio lavori di vario genere riguardanti la copertura del tetto, la costruzione di una “finta volta” nonché il “pulimento”, con una spesa complessiva di cinquantadue scudi che, confrontati con i nove scudi spesi “per intonacare, imbianchire, fare il camino, serrare una porta della chiesa, e una piccola tramezzana della sacrestia”, lasciano intravedere un intervento piuttosto corposo.
Forse l’operazione non fu sufficiente perché anche il Parroco, usando a sua volta la parte di buon senso che gli spettava e forse stanco di questo tira e molla, utilizzò dei soldi suoi e parte di quelli della fabbriceria della chiesa “per accomodare la casa … e fare una casa al medesimo”. Presumibile, quindi, che alla fine il Parroco abitasse in una casa adeguata ma molto piccola.
Questi interventi finanziari da parte sia degli organi parrocchiali sia di quelli comunali furono, però, le premesse di una situazione incerta verificatasi negli anni successivi che portò entrambe le parti a rivendicare la proprietà della casa proprio in virtù delle spese effettuate in quel periodo.
La questione ebbe un lungo strascico: ancora nel 1827 Giacomo Gambarella reclamava il pagamento del debito relativo alla casa da lui concessa, per due anni continui, al Vicario Biancareddu, all’epoca della costruzione della chiesa. L’Intendente provinciale, che doveva avallare la delibera del Consiglio che proponeva, finalmente, di chiudere il debito, chiese lumi: perché il Consiglio Comunitativo avrebbe dovuto pagare per quell’affitto visto che a lui risultava che il vicariato di La Maddalena dava al Parroco un reddito sufficiente per pagarselo? Fu necessaria una dichiarazione dei sindaci di quegli anni 1815-16 i quali affermarono che, in effetti, il debito di ventiquattro scudi e tre reali (per due scudi sardi al mese per due anni) era stato contratto con Gambarella e mai saldato per la “assoluta mancanza di fondi”. Erano trascorsi, però, una dozzina di anni e sembra impossibile che tra le pieghe del bilancio comunale non fosse stato possibile racimolare la somma! In ogni caso, l’Intendente accettò la giustificazione e autorizzò il pagamento.
Le dispute attorno alla canonica non finirono lì, anzi a partire dalla metà del 1800 presero nuovo vigore; Consiglio Comunale e Chiesa (nelle persone del Parroco e del Vescovo) tornarono a contendere circa la proprietà della casa, ciascuno vantando il diritto per aver eseguito nel 1816-17 lavori di completamento.
Il Vescovo, per evitare che lo scontro tra gli amministratori e la Parrocchia divenisse troppo acceso, suggeriva al suo sottoposto ” serietà e ponderatezza di termini”; in ogni caso, sulla base di disposizioni regie emanate trenta anni prima, l’Intendente doveva riconoscere, nel 1854, che le riparazioni effettuate a favore della chiesa e della annessa casa parrocchiale erano stretta competenza del comune.
Due anni dopo si raggiunse una sorta di compromesso; in un accordo tra i due contendenti si stabiliva che la casa era di proprietà del comune che però la cedeva al Vicario come abitazione.
Quando con questo escamotage sembrava finalmente tutto appianato, la polemica si riaccese nel 1883, favorita, forse, dal clima di diffuso anticlericalismo che pervadeva la società italiana del tempo: questa volta si innescò anche una diatriba circa la proprietà della fonte dell’acqua situata nei pressi della chiesa; anche in questa occasione il Vescovo tentò di mediare suggerendo al Vicario di cedere sulla questione acqua, ma di tenere duro sulla canonica.
E in mezzo a tutto questo spuntava, di tanto in tanto, qualche zelante funzionario dell’ufficio delle imposte che si chiedeva: “ma, insomma, a chi appartiene questa casa? È adibita al servizio del culto?” In definitiva: “deve pagare o no le tasse”? Pronta la risposta del religioso: “appartiene alla chiesa sin da 1830! Ma è esente da tasse perché è la mia abitazione!” Il Sindaco Alibertini, da parte sua, tornava a ripetere la tesi degli amministratori: la casa è di proprietà del comune ma in uso al Parroco.
Un equivoco di fondo impossibile da risolvere! E così ancora avanti per anni, con delibere sempre dello stesso tono e resistenza passiva da parte della Parrocchia, con periodiche richieste di interventi di manutenzione e riparazione!
A complicare ulteriormente la situazione intervenne la richiesta, nel 1900, di sopraelevazione avanzata dal Parroco Don Vico; ancora una volta, per poter procedere con le pratiche, tornò a ripresentarsi il problema della titolarità del possesso, risolto solo qualche anno dopo, nel 1904, grazie al sindaco Giuseppe Viggiani, uomo prudente e ben lontano dalle intemperanze di Alibertini; la sopraelevazione fu fatta con l’apporto di diversi soggetti: il Comune, la Chiesa, l’Economato Generale, un contributo del signor Dezerega e, per arrivare alla cifra complessiva di 3000 lire, con l’aggiunta del Parroco. Si riproponevano così le stesse basi il pasticcio iniziale, foriero di altre dispute; fortunatamente i tempi e le sensibilità mutate le hanno evitate.
Alberto Sega