La chiesa oggi
Descrizione architettonica
Schema planimetrico a navata unica con cappelle laterali comunicanti, non a croce latina con la volta a botte lunettata e con presbiterio allungato e bipartito. Il primo tratto rettangolare è coperto da una volta a botte, il secondo, a pianta semicircolare, è concluso da un catino lunettato su cui è inserita una apertura che contribuisce all’illuminazione dell’ambiente.
La facciata è composta da due ordini sovrapposti suddivisi da un pronunciato cornicione modanato e spartiti da lisce paraste concluse, nell’ordine inferiore, da capitelli dorici. In posizione centrale si trova l’ampio portale d’ingresso definito da due paraste con capitelli dorici e sormontato da un timpano semicircolare. In asse con l’ingresso si trovano una meridiana ed un orologio che adornano lo spazio sovrastante; ai lati, simmetricamente, un elemento decorativo a voluta ingentilisce e raccorda l’ordine superiore con l’inferiore. Tra gli spazi delimitati dalle paraste laterali si inseriscono quattro nicchie dove furono collocate dei rilievi in lamierino, raffiguranti i quattro evangelisti, dispersi nel tempo e sostituiti da quattro statue in resina a tutto tondo di autore moderno con lo stesso soggetto. Una lapide dedicatoria sovrasta il portale ed è inserita nel timpano circolare a tutto sesto. Sormonta l’edificio un singolare trio di acroteri con due banderuole ai lati e con la croce centrale. La facciata, sobria e misurata, ha uno zoccolo in granito faccia a vista con cantonetti ben posizionati, tipo bugnato rustico, che corregge e livella le diverse quote del piano strada. Un’ampia gradinata d’accesso a formare il sagrato raccorda il piano di calpestio interno del tempio con il piano della ampia piazza Santa Maria Maddalena.
Nel cornicione leggermente aggettante, coperto a tegole, si ritrovano dei motivi decorativi classici di triglifi e vuote metope alternate, come nel portale, sotto il timpano curvilineo: motivi classici usati anche nella decorazione interna delle pareti della coeva casa Millelire nel saloncino delle feste. Una dentellatura classica decora tutto l’interno all’altezza del marcapiano e, in facciata, il sottotetto, il cornicione e il timpano d’ingresso. La facciata è leggermente mossa in due piani di prospetto: uno ampio centrale e due brevi laterali con lesene abbinate di stessa misura ma di diverso interasse.
L’interno è diviso attualmente in cinque campate di diversa ampiezza frutto degli ampliamenti subiti nelle vicissitudini storiche del tempio.
I tre antichi pilastri per lato dell’impianto Desgeneys sono formati da una parasta di ordine ionico che è l’ordine con cui è declinata tutta la decorazione interna del tempio, uno stile elegante e sobrio che concorda con le finte colonne in muratura gessate dell’arco trionfale del presbiterio. Solo l’edicola absidale, che contiene la nicchia dove viene esposta la statua lignea della santa a cui è dedicato il tempio, è in uno stile che risulta più eclettico: infatti i capitelli delle lesene dell’edicoletta sono corinzi ingentilendo e dando maggior importanza al simulacro. Sormonta l’edicoletta un trionfo sommitale di tre grandi pigne, classiche di fattura, ma poco in accordo con la severità neoclassica dell’insieme precorrendo uno stile più misto che sarà molto apprezzato nella fine dell’Ottocento: questo può far pensare ad un rimaneggiamento posteriore all’impianto Desgeneys all’epoca della sovrabbondanza decorativa pittorica che dilagò su ogni centimetro quadrato dell’edificio e che possiamo “ammirare” solo nelle poche cartoline dell’interno rimaste a testimonianza dell’epoca umbertina. La pulizia da tutta la decorazione di grottesche e fregi a effetto damasco di ogni specchio di intonaco è la sola restituzione stilistica formale, voluta dalla soprintendenza all’epoca dell’ampliamento Mossa, che abbia una valenza positiva per una lettura maggiormente filologica dell’impianto Desgeneys. Molti cittadini isolani rimpiangono quella decorazione e il dibattito è comunque aperto, ma quando la decorazione è ridondante e cela lo stile genuino del tempio si capisce che solo una azione di restauro conservativo non sarebbe bastata allo scopo. Sentiamo dire dai vecchi che ora la chiesa è “scunta”, disadorna, povera ma io dico pulita da una finta opulenza, ostentata e sovraccarica, che mascherava e distorceva, nella sua contaminazione stilistica, la bella e pura eleganza dell’impianto Desgeneys.
Un reperto che non sappiamo se attribuire al vecchio impianto o al periodo eclettico sono i gigli di Francia in gesso applicato che segnano la intersezione tra la volta a botte del soffitto e l’ogivale delle finestrature che danno luce a quella sorta di finto matroneo che corre, in alto, lungo tutto il perimetro come marcapiano.
L’edicoletta absidale era presente anche nel progetto Cochis con la didascalia segnata come punto F nella legenda allegata ai disegni che così recita: “Nichio per porvi la statua si Santa Maddalena”; e nell’intestazione di progetto si parla di “Progetto di una chiesa sotto il titolo di Santa Maddalena da erigersi a beneficio della radunata popolazione nell’isola della Maddalena, servendosi dell’altare e statua che presentemente hanno gli isolani”. La nicchia, molto più grande di quella poi realizzata e con una bella finestra barocca a conchiglia nel catino absidale, era il tocco lezioso rococò che rendeva più dispendioso forse il progetto.
Interessante è la considerazione che si ebbe, nella fase progettuale del Cochis, di utilizzare la statua lignea già posseduta dagli isolani e l’altare facenti parte della prima chiesetta al Collo Piano e che furono portati alla marina per la nuova chiesa. La statua di fattura semicolossale, come dice lo Spano commentando il La Marmora, è ligure, forse di Savona come dicono altri, e rappresenta uno dei tanti enigmi che forse rimarranno insoluti nella storia della parrocchiale. A comprova della fattura ligure sono gli argenti di corredo alla statua: il libro, il crocefisso e il cilicio a cordicelle.
La statua ha una bella leggenda di origine popolare che la vuole ritrovata sul bagnasciuga, lasciata dai flutti del mare come accade in molte favole di fondazione, portata in chiesa al Collo Piano e per magia ritornata ad apparire dove poi sorgerà la nuova chiesa. Si è analizzata la sua derivazione stilistica che la fa provenire dalle statue da processione liguri, dette Casacce, numerose a Bonifacio, e che quindi facevano parte di quel bagaglio culturale che la nuova comunità isolana sentiva come proprio.
Lo stile della facciata e dell’interno della parrocchiale è stato definito stile barocchetto piemontese o stile ibrido, quasi neoclassico, con dei ricordi tardo barocchi.
La Piras nella sua breve monografia ricorda i prototipi torinesi stilistici della facciata isolana e li avvicina alle chiese del Corpus Domini e dei Santi Martiri di Ascanio Vitozzi, del Castellamonte e di Pellegrino Tibaldi.
Per la matrice sarda la studiosa nomina il San Carlo di Carloforte, la parrocchiale del Viana di Calasetta, il Carmine di Oristano e la Sant’Anna di Cagliari.
Gli storici dell’arte hanno studiato con ampio respiro la derivazione stilistica barocca locale ma è da notare anche qualche abbaglio preso a cuor leggero.
Il Naitza, nel descrivere la chiesa sassarese di Sant’Andrea sul Corso, analizzando i complessi stilemi del prospetto, “alcuni marcatamente barocchi (volute, timpani inflessi) altri già velatamente classicisti (lesene tuscaniche, fregi, frontone triangolare) portano ad una datazione decisamente più tarda rispetto alla probabile fondazione seicentesca dell’edificio addirittura a fine Settecento, si da rendere legittimi confronti con architetture coeve realizzate da maestranze legate al piemontese Giuseppe Viana, operanti prevalentemente nel centro e nel sud dell’isola”, continua dicendo: ” L’impressione che possa essere più vicina all’Ottocento rispetto agli esempi citati…. derivati dai partiti classicistici dichiarati con molta franchezza nella trabeazione toscana che chiude il primo ordine, un bel fregio in piena analogia stilistica; ma ci sono anche la schematica serliana (finestra alla maniera dello stile usato dall’architetto Serlio) del secondo ordine vicina (e qui la citazione che ci interessa) ad un simile partito utilizzato dal Cochis a La Maddalena nel 1779- 80″. E più avanti, definisce il Cochis “autore di una curiosa chiesa a La Maddalena”. Qui si innesta la critica: Il Cochis non edifica nessuna chiesa a La Maddalena e solamente la progetta: quindi, se possiamo criticare l’operato del Cochis attraverso i suoi disegni di progetto in cui, bada bene, non compare la facciata del tempio ma solo la pianta e le due sezioni trasversale e longitudinale, come fa il Naitza a sapere che nel progetto Cochis vi fosse una finestra serliana in facciata al secondo ordine? Molto probabilmente lo storico aveva presente la facciata dell’ampliamento Mossa, realizzata nel 1953 e durata sino al 1993, dove era presente una finestra, assimilabile, con un po’ di fantasia, a una sorta di serliana molto stilizzata, che dà l’accesso ad un terrazzino centrale moderno e ha pensato che potesse essere stata quella la facciata del tempio firmato Cochis, ma, non tornandogli qualcosa dal punto di vista stilistico, definisce il lavoro maddalenino del Cochis curioso.
In occasione del bicentenario della costruzione della chiesa, si è provveduto ad un parziale riordino delle cappelle, con l’intento di riportarvi gli oggetti di devozione tradizionali seguendo i documenti dell’Archivio Parrocchiale e gli inventari compilati dai parroci don Vico e don Capula.
Il presbiterio
L’altare maggiore è di stile tardo barocco, con le caratteristiche sporgenze laterali ad ali di pipistrello, costruito a Genova con marmi policromi, in gran parte pagato da Desgeneys perché i contributi raccolti alla Maddalena con un dazio su grano e vino non erano assolutamente sufficienti. Malgrado fosse pronto fin dal mese di marzo del 1831, arrivò alla Maddalena solo tre mesi più tardi, tempo impiegato per chiedere, attraverso la trafila burocratica che arrivò fino al Re, l’esenzione dai diritti di dogana per sbarcarlo all’isola. Il tabernacolo originario, anch’esso in marmo è oggi conservato al museo Diocesano. Nel 1959 è stato sostituito da un imponente tabernacolo in bronzo sormontato da un tronetto per l’esposizione del Santissimo Sacramento; questi due manufatti, progettati su suggerimento di don Capula, sono stati realizzati da maestranze locali nell’Arsenale della Marina Militare: disegnati da Giuseppe Deligia, modellati in legno da Fosco Bruschi, fusi nella apposita officina fonditori, ripuliti e rifiniti nell’officina congegnatori. L’altare fu riconsacrato nel 1964 da monsignor Forni nunzio apostolico a Montevideo, dopo essere stato “demolito per instabilità e ricostruito con gli stessi marmi sostituendo solo il tabernacolo in marmo policromo”. Con le nuove prescrizioni sulla liturgia, si aggiunse una mensa rispondente alla necessità che il sacerdote celebrasse le sacre funzioni rivolto all’assemblea; questa mensa fu sostituita, nel 2008, da quella attuale donata da Tore Delbene, più adatta al contesto del presbiterio perché riprende i colori e i materiali della balaustrata (marmo verde di Prato e bianco di Carrara) e posta in modo da non coprire il retrostante altare storico. Il grande crocefisso in legno, di provenienza genovese, fu donato da Giuseppe Volpe, fu Tommaso, il 27 giugno 1854 e fu posto sull’altare maggiore. Qualche anno dopo (1870) lo stesso Volpe donò un baldacchino, di velluto bianco nella parte inferiore, con una colomba dipinta al centro, e bordato di rosso, che fu collocato al di sopra del crocefisso. Questo baldacchino fu eliminato, perché logoro, solo nel 1952 all’atto dei lavori di ampliamento. Non sappiamo nulla di questo donatore.
La statua lignea di Santa Maria Maddalena si trova normalmente, tranne nel periodo della festa patronale, nella nicchia del coro. Era abitualmente ornata con alcuni dei preziosi doni offerti dai fedeli, gran parte dei quali è oggi nel Museo Diocesano.
Sulla parete destra il dipinto su tela rappresentante Santa Maria Maddalena di Noè Bordignon,.
Accanto al campanello di introduzione alla messa c’è una acquasantiera in maiolica invetriata, moderna, donata nel 2003 dalla moglie del presidente della Repubblica signora Franca Ciampi.
Cappella di San Giorgio (Ottocento)
Cappella voluta dal barone Giorgio Andrea Desgeneys, capo della piccola flotta sarda di stanza alla Maddalena fino al 1814.
Nel fregio si riconoscono le insegne gentilizie della sua casata: un agnello immolato, mutuato dalla tradizione biblica, sormontato da una mezzaluna fra due stelle; lo scudo è circondato da bandiere, cannoni e ancore, simboli che richiamano il supremo comando della flotta militare affidato al Barone.
Il quadro raffigura San Giorgio che uccide il drago e salva la principessa: iconografia molto nota a Genova, bene evidente sulla facciata del Palazzo del Mare.
Nel 1832 un attentatore, rimasto sconosciuto, con un coltello danneggiò profondamente il quadro che fu sostituito sempre a cura di Desgeneys.
L’altare, danneggiato dall’umidità che aveva provocato delle lesioni e il distacco di alcune tarsie marmoree è stato sottoposto a restauro; anche il quadro è stato restaurato nel 2009, con l’eliminazione della patina scura provocata dai fumi delle candele e dalla polvere, e riparato in alcuni punti in cui la tela si era rotta (laboratorio di restauro Anna Lucchini).
Il crocefisso in legno, posto sul tabernacolo, ospita nella parte bassa un angelo dorato; sotto vi è una riproduzione dell’immagine della Madonna dell’Uva, opera seicentesca di Pierre Mignard e, ai lati, le reliquie di San Giorgio e di Santa Barbara. Altri arredi, quali un calice, una patena, una pisside e una lampada d’argento, che facevano parte del corredo lasciato da Desgeneys, sono ora conservati al Museo Diocesano.
In questa cappella, il 23 aprile, si celebra una messa in suffragio dell’anima del Barone che aveva lasciato, nel suo testamento, una somma per la manutenzione dell’altare e per due messe cantate nei giorni dei suoi santi protettori, Giorgio (23 aprile) e Andrea (30 novembre).
Nella nicchia della parete sinistra è conservata la statua di Santa Barbara dello scultore sardo Gavino Tilocca.
Cappella delle Anime del Purgatorio
L’attuale altare di marmo (voluto da Maddalena Farese Susini, progettato da Giuseppe Deligia, realizzato dal marmista Enzo Pinna e consacrato nel 1964) sostituì quello risalente al 1819 quando nella chiesa, ormai terminata esternamente, alcuni privati intervennero per realizzare gli altari tutti fabbricati in pietra e fango, dipinti a calce e abbelliti con profili colorati a tinte vivaci: solo il tabernacolo era in marmo lavorato (uno di questi si trova oggi nel Museo Diocesano). In questa cappella fu posto il quadro a olio rappresentante la Madonna che con l’Arcangelo Raffaele aiuta le anime del Purgatorio; il quadro è inserito in una cornice di legno dorato sormontata da un semplice fregio con triglifi, metope e nappine classiche nella tradizione maddalenina. In alto la corona di ottone forgiata da Battista Olivieri.
Nella nicchia a sinistra la statua in legno di San Giuseppe; nella nicchia a destra, la statua di San Vincenzo de Paoli, canonizzato nel 1737 e proclamato patrono delle opere di carità nel 1885. La statua proviene dalla cappella, oggi distrutta, dell’Ospedale Militare: qui le suore vincenziane prestarono il loro servizio a partire dal 1899 e aprirono la strada alle loro consorelle che costruirono l’Istituto San Vincenzo.
Sulla parete sinistra il quadro della Vergine nimbata incoronata dalla Santa Trinità, probabile opera di fra Antonio Cano. Questo dipinto era stato donato nel 1819 da Pietro Azara Bucheri, genero del comandante Agostino Millelire, e sistemato in una cappella che egli si riprometteva di custodire e abbellire intitolandola a San Pietro, alla Vergine Assunta e alla Trinità. Ma la dedica posta sotto la tela (vedi pag. 198) sembrò una affermazione di proprietà che i maddalenini non gradirono. Ne nacque una contesa, che durò dei mesi e che terminò con un accordo. Ma dopo la sua morte, in un momento che non possiamo precisare, comunque antecedente al 1924, la cappella cambiò intestazione, del benefattore Pietro Azara si perse la memoria e il quadro fu portato nella chiesetta della Trinità. Qui rimase fino a quando la Sovrintendenza decise di portarlo via per restaurarlo. L’atteggiamento imperioso non piacque a don Capula che, prima che i tecnici della Soprintendenza venissero alla Maddalena, fece portar via il quadro della Trinità sostituendolo con una copia ordinata espressamente ad una pittrice di Olbia alla quale raccomandò di mantenere le stesse misure precise della tela che doveva essere invecchiata, in modo da apparire il più possibile simile all’originale. Solo a beffa avvenuta, con relativa contestazione, si arrivò al restauro del quadro e al suo posizionamento nel Museo Diocesano dove rimase fino al 2014. Nel riordinamento degli altari di quell’anno il quadro è tornato nella chiesa alla quale era stato offerto: è stato posto nella cappella delle Anime del Purgatorio anche se non sappiamo se questa fosse la sua collocazione originaria; sappiamo solo che la cappella allestita da Pietro Azara era fra quelle a destra rispetto all’ingresso. Sul pilastro sinistro sono state risistemate, come nel passato, le numerose reliquie della chiesa.
La cappella della Madonna di Pompei
Prende nome dall’immagine realizzata dalla Scuola Vaticana del mosaico raffigurante la Vergine fra i Santi Domenico e Caterina: in realtà, nel 1819 era stata dedicata, forse dal benefattore Martinetti, alla Vergine del Carmine e con questa intestazione è giunta fino a qualche decennio fa.
La bella statua della Vergine con cherubini che identificava la cappella, databile alla prima metà dell’Ottocento con ingenuità formali della proporzione che la collocano in aria provinciale meridionale, era posta nella nicchia centrale, oggi coperta; restaurata di recente, è conservata al Museo Diocesano. Notare la freschezza del decoro floreale del vestito popolare della Vergine e l’espressione viva dei cherubini data dalle pupille nere di giada lucida.
Non si capisce la necessità della sostituzione della statua con il mosaico della Madonna di Pompei, sostituzione operata negli anni Cinquanta dello scorso secolo, visto che una olografia dello stesso tema, seppure molto povera, era già presente nella cappella di fronte.
Nella nicchia di sinistra è rimasta la statua di Santa Teresa del Bambin Gesù, mentre in quella destra l’originario San Giuseppe è stato sostituito con Padre Pio.
Cappella di S. Antonio
La statua di marmo, rappresentante il Santo con il giglio e Gesù bambino in braccio, fu probabilmente acquistata in Liguria da dove Semeria proveniva e dove manteneva i suoi principali contatti commerciali.
Sopra la nicchia, il quadro a olio rappresentante una Trinità con il Padre che sorregge il Cristo morto, opera del sacerdote armeno Hovsep Achkarian mutuata dalla seicentesca tela del pittore José de Ribera, noto come Spagnoletto.
Sulle pareti laterali due quadri molto vecchi, recentemente restaurati nella loro cornice originaria, provenienti con molta probabilità dal corredo della prima chiesa settecentesca: di fattura ingenua e primitiva, rappresentano San Michele Arcangelo (a sinistra) e Sant’Antonio (a destra) identificabile grazie alla presenza di Gesù Bambino, il libro e i gigli. La statua in resina a sinistra dell’altare raffigura il protomartire Santo Stefano, riconoscibile dai segni del martirio e del suo apostolato: la palma, le pietre che ricordano la sua lapidazione, il libro e la dalmatica che rappresentano i compiti assegnatigli dagli apostoli cioè servire i poveri e predicare la parola di Cristo.
Cappella di Santa Rita
La cappella di Santa Rita è stata realizzata con l’ampliamento della chiesa del 1952, con altare progettato da Giuseppe Deligia e offerto da Renzo Manca. Il quadro a mosaico è della Scuola Veneziana.
Sulla parete sinistra l’immagine di Pier Giorgio Frassati, morto giovanissimo nel 1925, beatificato nel 1990. Il quadro è stato donato da don Sandro Serreri.
Cappella del Sacro Cuore
Nella cappella un tempo dedicata a San Salvatore, oggi campeggia il mosaico del sacro Cuore di Gesù, della Scuola Italiana del Mosaico, donato dalla famiglia Siccardi. Sulla parete destra i ritratti dei due papi santi, Giovanni XXIII (opera di Hovsep Achkarian donata da Elettra Vasino), e Giovanni Paolo II, di Jair Martinez, mentre sulla parete di sinistra il quadro (di Anna Novelli) rappresenta Giovanni Battista Maria Vianney, più noto come il curato d’Ars, vissuto in Francia nel primo Ottocento, stimato per la sua intensa attività pastorale soprattutto nelle confessioni; canonizzato nel 1925, dal 1928 è divenuto patrono dei parroci.
San Filippo Neri
Il moderno altare di marmo disegnato da Giuseppe Deligia, realizzato da Enzo Pinna e consacrato nel 1964, è stato donato dagli insegnanti della scuola elementare della Maddalena.
Sotto un timpano di legno dorato sta il quadro a olio di San Filippo Neri, opera attribuita al pittore e architetto sassarese fra Antonio Cano, riportato ai suoi originari colori da Lino Sorba.
Nella nicchia a destra la statua di San Giovanni Battista il cui culto è ancora vivo alla Maddalena ricordato con il grande fuoco nella notte della vigilia (a fogarina) e la benedizione del mare con la processione del 24 giugno. A sinistra, la statua di Santa Zita, patrona delle domestiche. Il culto proviene da Lucca, dove la Santa era vissuta nel XIII secolo come domestica nella casa di un facoltoso signore, dall’età di 12 anni. Del passaggio alla Maddalena di questa devozione, che sembra sconosciuta o poco praticata in Sardegna, non si conoscono tempi e modalità, ma possiamo affermare che fosse particolarmente sentita visto che, fino al secolo scorso, le era dedicata una processione nel mese di aprile: a lei le donne maddalenine, non solo le domestiche, offrivano fiori in ricordo del miracolo compiuto quando, avvolgendo nel suo grembiule pani per i poveri, aveva risposto al suo padrone che la interrogava in merito, che portava fiori e, aprendo il grembiule, solo questi erano apparsi agli occhi meravigliati dell’uomo.
Cappella della Madonna
Ospita dal 1961 la statua della Madonna di Lourdes, opera di Gavino Tilocca, nella vetrina sopra l’altare di marmo offerto dalla famiglia Giagnoni. Un tempo era dedicata alla Vergine di Pompei oggi ricordata nella cappella di fronte, nella quale si espone il Santissimo Sacramento. A sinistra, la Madonna della Guardia rappresenta una antica devozione di origine ligure, ben assimilata alla Maddalena: esiste, infatti, poco fuori città anche un minuscolo tempietto privato a Lei dedicato. Sulla parete destra l’immagine di Maria bambina con sua madre, Sant’Anna.
Oggi questa cappella riunisce diversi culti della Vergine, aggiungendo a quello di Lourdes, della Guardia e della Vergine con la madre, anche quello dell’Addolorata che piange il Cristo morto. Queste due statue, disposte sulla mensa, fino al secolo scorso venivano portate in processione durante i riti della Settimana Santa.
Un altro bel simulacro ligneo dell’Addolorata con Gesù in croce e due angeli è custodito nel Museo Diocesano insieme con una preziosa Dor-mitio Virginis.
Cappella di S. Erasmo
Era questa una delle più importanti cappelle, situata di fronte a quella di San Giorgio della quale riprende l’impostazione e il fregio, anche se in maniera semplificata. Importante perché voluta e supportata dalle offerte dei padroni marittimi raggruppati nella Confraternita di S. Erasmo, che costituivano la vera borghesia maddalenina e aiutavano la chiesa con importanti interventi sia sugli arredi che sulle manutenzioni. La statua di legno rappresenta il Santo, chiamato anche S. Elmo, vescovo di Antiochia, venerato a Formia e patrono di Gaeta. Era il protettore dei naviganti: una leggenda narra che, per ricompensare il comandante di un veliero che lo aveva trasportato gratuitamente sulla sua imbarcazione, gli aveva promesso che lo avrebbe avvertito delle tempeste imminenti con dei piccoli fuochi; in effetti, per un fenomeno meteorologico oggi noto ma un tempo dall’apparenza misteriosa, sui pennoni e sugli alberi delle imbarcazioni a vela, all’avvicinarsi di tempeste, compaiono delle fiammelle. In questa cappella, all’alba, il cappellano della confraternita celebrava la messa alla quale potevano assistere i marinai prima di imbarcarsi per i loro viaggi. Il culto proviene probabilmente da Bonifacio dove il Santo è venerato nella chiesa alla Marina. Dell’altare, distrutto nel 1952, fu salvato il bel tabernacolo di marmo policromo, oggi sistemato nella chiesetta della Trinità.
A lui erano intestate anche la piazza della canonica e il forte dei primi dell’Ottocento chiamato anche Santa Teresa. La processione alla quale partecipavano tutti i marittimi si svolgeva il 2 giugno e terminava con l’offerta di vermouth e canestrelli.
Sulla mensola a sinistra, la statua di San Silverio papa donata intorno al 1920 da Giovanni Onorato. Il suo culto, particolarmente sentito nell’isola di Ponza, della quale è il patrono, con la festa solenne del 20 giugno, arrivò alla Maddalena con i pescatori originari di quell’isola che qui si stabilirono a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, differenziandosi per mestieri e abitudini da quelli provenienti da Pozzuoli o dal napoletano. Questi celebravano la Madonna Assunta il 15 agosto con una festa religiosa che comprendeva la messa e la processione con addobbi floreali di tutto il lungomare, e con giochi che si svolgevano soprattutto a mare: regate a vela e a remi e l’albero della cuccagna, costituito dal bompresso di un veliero spalmato di strutto sul quale i giovani dovevano arrampicarsi per arrivare al tesoro.
Antonio Frau