Co.Ri.S.MaLa Maddalena AnticaSanta Maria Maddalena faro di fede tra Corsica e Sardegna

Le trasformazioni e gli impianti

Della supposta chiesa o meglio del vano con muro perimetrale residuo a forma absidale tra le prime case corse del Collo Piano di cui pochi hanno trattato in varie occasioni con azzardate teorie non confortate da documenti certi, vorrei astenermi dal pronunciarmi ulteriormente pensando che solo un’attenta analisi archeologica in situ potrà finalmente chiarire la funzione del manufatto e porre fine a congetture fantasiose e faziose.
Pertanto la chiesa principale dell’isola di La Maddalena fu, per qualche decennio, come è stato ben analizzato da Salvatore Sanna, la chiesetta del Collo Piano nel centro dell’isola maggiore dell’arcipelago.
Della cappella, ora campestre e prima parrocchiale, fulcro della prima comunità isolana, sappiamo quasi tutto (progettista, calcoli per spese di costruzione, maestranze e committente) e la semplice pianta con una copertura a capanna e con campanile a vela sono gli elementi settecenteschi che sono arrivati, con i rari restauri fino ai nostri giorni quasi intatti. La modanatura interna in pietra lavorata, semplice ma che corre lungo tutta l’aula all’altezza di marcapiano è l’unico elemento decorativo di un qualche pregio e originalità stilistica.
La semplicità dell’insieme, una volta a contrasto con la ricchezza degli ex voto, era la sua peculiarità maggiore; ora troppi adattamenti moderni hanno banalizzato l’insieme dal punto di vista architettonico pur mantenendo ancora molto viva e palpitante la tradizione religiosa locale che la vede convivere come seme di antica fede ed anche moderna occasione di festa per turisti.

Nel Novecento le feste della Trinità (alla toscana come usa dire a Firenze e a Pisa sicuramente retaggio o meglio traccia culturale toponomastica di una colonizzazione antichissima della vicina Toscana attraverso la Corsica che prima che genovese fu tosca) duravano tre giorni e tutta la popolazione gallurese della costa si riversava nella rigogliosa pianura a festeggiare con gare di canto, danze e corse ippiche con i maddalenini locali.
La chiesa alla marina ebbe sempre il titolo di parrocchiale ma purtroppo non sappiamo, malgrado sia stata costruita solo qualche decennio dopo la prima del collo Piano, quasi nulla.
Una sorta di strana coincidenza che non ha mai aiutato gli studiosi a far luce sulla propria storia: la mancanza di un cronicon mai improntato dai vari parroci che si sono susseguiti nel tempo, il furto o l’alienazione di documenti importanti quali la prima consacrazione ufficiale o le varie visite pastorali dove si apprendono dati di fatti importanti per ogni più piccolo luogo di culto sparso nel mondo. La Maddalena, chiesa e parrocchia, raccoglie in sé una serie di enigmi di diffìcile risoluzione: mancanza di dati certi se si escludono le date dedotte dai pochi documenti ritrovati, mancanza di nomi di autori progettisti almeno fino al periodo moderno, mancanza di dati iconografici specifici come piante, mappe e carte.
Gli autori di monografìe specifiche sulla storia isolana, dal più antico (Garelli 1907) al più recente (Chiri -Dessi 2009), si basano su materiale archivistico riguardante l’arcipelago maddalenino, reperito a Torino nell’archivio di Stato, che consiste nei disegni della pianta, alzati e sezioni dell’erigenda chiesa parrocchiale dedicata alla santa evangelica da cui prende il nome l’isola madre e l’arcipelago tutto: sono i disegni autografi dell’ingegnere militare Raimondo Ignazio Cochis, più volte riprodotti negli articoli di riviste che si sono succeduti in epoca moderna sull’architettura degli ingegneri militari e civili sardo piemontesi.

L’autore di questi disegni è stato ritenuto anche artefice della realizzazione dell’opera da tutti gli studiosi e compilatori di monografie o semplici guide turistiche storiche locali: quindi è stato considerato non solo come progettista della prima idea, ma, per deduzione, anche autore della chiesa che abbiamo conosciuto prima dell’ampliamento del 1952.
Con la ricerca scientifica di una messe cospicua di documenti francesi ed italiani posta in essere dal professor Carlino Sole negli anni del dopoguerra, si sono analizzati molti aspetti sulla storia dell’arcipelago e quindi anche quelli della chiesa senza aggiungere, però, elementi significativi relativi alla sua costruzione.
Il primo studio universitario articolato, del 1958, coordinato dal professor Baldacci sull’Arcipelago della Maddalena, ha analizzato e coordinato le ricerche dei vari studiosi, ma, almeno per quanto riguarda la chiesa, non ha pubblicato documenti inediti che potessero aggiungere qualche notizia rispetto al Ciasca e al Garelli.
Gli autori di monografie isolane compilative dei successivi anni (da quelle di Frau-1972, Racheli-1982, de Martino-1988, all’ultima di Addis-2009) non danno maggiori informazioni in merito, ma ricalcano in una sorta di copia-incolla la precedente vulgata già conosciuta.
La bibliografia sull’architettura sabauda in Sardegna è abbastanza ricca e quasi tutti gli storici citano il progetto Cochis previsto per l’isola, allegando a comprova i disegni autografi di Torino.
Il primo studioso che ha analizzato analiticamente l’evoluzione della costruzione della parrocchiale è stato Salvatore Sanna del Co.Ri.S.Ma. che ha trovato tra i faldoni cagliaritani il bandolo della matassa, cioè l’autore effettivo del primo impianto che non fu Cochis, ma un suo collega, anch’egli ingegnere militare, Marciot (o Marciotti). Purtroppo la notizia è uscita solo su una pubblicazione settimanale, II Vento (2000), che ha una utenza prevalentemente locale.
L’unico studio organico, con notizie storiche e regesto di documenti d’archivio inediti, è la breve monografia della dottoressa Rita Piras (2007) che ha utilizzato le notizie pubblicate dal Sanna.
Il lavoro della Piras è germogliato da una serie di studi sull’architettura di fine Settecento in Sardegna che vede nel Cavallari Murat (1960) il suo primo estimatore. Purtroppo, però, anche il prestigioso testo recentissimo (2013), Gli Architetti del Re di Poli e Roggio, analizza in maniera molto articolata la sequela di architetti ingegneri sabaudi in Sardegna e non tratta dettagliatamente della questione dell’edificio sacro isolano nel suo iter; anzi allega le vecchie mappe torinesi del Cochis senza far capire che non si può dare a lui la paternità dell’opera. E, come vedremo in seguito, anche lo storico Naitza assegna a questo progettista la paternità della chiesa maddalenina.
Questo accade perché, malauguratamente, gli studi degli storici dell’arte accademici non sempre si confrontano con i ricercatori locali che fanno sì bassa manovalanza, ma riescono talvolta a scovare chicche appetibili.
Sulla base del lavoro di Sanna e con successive analisi più approfondite, oggi abbiamo aggiunto qualche tassello in più alla storia della costruzione della chiesa parrocchiale alla Marina, anche se non siamo ancora in grado di colmare tutte le lacune: molti documenti d’archivio sono irreperibili, forse dispersi perché considerati poco importanti, ma seguendo alcune tracce si possono ricostruire almeno in parte le varie fasi della costruzione della chiesa nei suoi impianti: il primo che va dal 1782 fino al 1792, il secondo degli anni 1814 -1819, il terzo dal 1948 al 1953, l’ultimo rimaneggiamento riguardante la facciata del 1993.

Il primo impianto

Il progetto elaborato da Cochis era più dispendioso, ma sicuramente di maggior impatto estetico rispetto a quello poi realizzato su progetto del Marciot che risultò troppo misero, perché rispondente a evidenti esigenze di economia, già nella sua prima attuazione; il cosiddetto cappellone aveva, però, l’indubbio vantaggio di essere stato pensato in modo che, in caso di ampliamento, la parte già costruita potesse essere inglobata nella nuova costruzione con la funzione di presbiterio.
Non sappiamo quali furono le trasformazioni che nel 1792 apportò il comandante De Constantin e delle quali, come abbiamo visto, era molto fiero. Certo, per sua stessa ammissione, fu sistemato lo spazio antistante l’edificio che divenne una bella piazza quadrata. Non sappiamo con certezza quale fosse l’orientamento del primo cappellone: supponiamo un asse nord-sud, con l’ingresso a sud in base a un documento del 1809 che, a proposito della proprietà della fonte contestata alla parrocchia dal Consiglio Comunitativo, la descrive posta dietro la chiesa: in effetti la fonte si trova nell’edificio alle spalle dell’abside.
Non ci rimangono immagini o disegni sicuramente riferibili a questo primo impianto, ma abbiamo, comunque, due tracce: la prima, da considerare come una vera rappresentazione della chiesa parrocchiale e non solo come simbologia usuale, è lo stendardo così detto Millelire perché conservato presso questa famiglia, oggi esposto nel salone comunale. La chiesa è una sorta di stereotipo infantile molto semplificato, con la facciata a forma di capanna e una specie di campanile (mai indicato in nessun documento, ma essendoci la campana poteva trattarsi del solito campanile a vela in facciata) sul lato sinistro. In facciata vi è raffigurata un’unica porta centrale, con due finestre simmetriche al secondo ordine che potevano essere presenti nella facciata provvisoria del Marciot. Sappiamo che lo stendardo fu realizzato materialmente in parrocchia con la voglia di rappresentare la chiesa sia come ente che come edificio reale avendo davanti agli occhi la facciata esistente, seppur provvisoria, i lavori erano ancora in corso d’opera; la mano che l’ha disegnato è ingenua ma non poi troppo, poiché rivela una certa padronanza del disegno per le proporzioni e per l’anatomia del personaggio di Santa Maria Maddalena in esso raffigurata.

La seconda traccia è l’acquerello del pittore e commerciante svizzero Salomon Brunner del 1811: pur essendo molto preciso nell’illustrare tutti gli edifici, la chiesa risulta appena schizzata. Ma quel che vediamo sembrerebbe contraddire la posizione indicata dallo stendardo Millelire: infatti nella parete rivolta a sud non si vedono aperture né di porta né di finestre, e sembra di scorgere il campanile a destra, come se la chiesa fosse ruotata e il suo ingresso fosse a nord o a est: in quest’ultimo caso la piazza di cui parlava De Constantin sarebbe quella rimasta fino alla seconda metà dell’Ottocento e denominata piazza Sant’Erasmo: purtroppo, non potendo vedere l’originale dell’acquerello (forse disperso) ma solo la sua riproduzione, queste suggestioni potrebbero non avere alcun riscontro con la realtà.

Il secondo impianto

È opera del Barone Desgeneys che ne fu il promotore e si avvalse sicuramente di un progettista ancora ad oggi anonimo, ma di notevole sensibilità artistica. Quando nel 1814 si mise mano al lavoro, della costruzione iniziale rimase ben poco, ma non sappiamo se questa sia stata almeno in parte integrata portando a compimento il disegno di progetto o se sia stata distrutta per far posto alla nuova struttura di proporzioni molto più grandi. Comunque l’edificio realizzato negli anni 1814-1819 è quello giunto fino a noi e sottoposto a parziali trasformazioni solo dopo il 1950. Anche per questo secondo impianto l’iconografia ottocentesca non è molto ricca, ma con alcune preziose rappresentazioni databili alla seconda metà del secolo: quella dell’inglese William Sanderson Craig (conservata nel castello di Sanluri) che presenta l’esterno laterale sinistro della chiesa con il campanile; il quadro Millelire, in cui si vede chiaramente la parte superiore della facciata, il campanile e una strana lunetta centrale che sembrerebbe aperta, e la stampa Fitz Maurice che ripropone ancora facciata e campanile. Attraverso queste tre immagini ottocentesche e l’enorme messe di riproduzioni del primo Novecento, utilizzate per l’edizione di cartoline postali ora tanto apprezzate dai collezionisti isolani, possiamo documentare la invariabilità formale dell’edificio per tutta la seconda metà dell’Ottocento e la prima del Novecento fino al 1952.

La questione della paternità intellettuale dell’opera finita e che per più di un secolo, dal 1830-1953 i nostri vecchi hanno potuto ammirare, è ancora aperta.
Sicuramente la costruzione della chiesa voluta dalla magnanimità del barone Desgeneys fu portata avanti da un valido architetto-disegnatore dell’entourage del barone e di sua fiducia, che può anche aver visto i disegni del progetto Cochis e sicuramente la “riaggiustatura” di De Constantin ma che ha dato una valida chiusura all’opera nella sua, seppur semplice, struttura muraria.

Nei nostri recentissimi studi e ricerche sull’argomento chiesa e in qualche documento dei primi dell’Ottocento compare un personaggio che architetto allora non lo era ancora: lo diventerà ad altissimo livello ma ben lontano dalla Sardegna, divenendo anche urbanista e imprenditore con molte disponibilità finanziarie per l’epoca. Aveva sposato, in Sardegna, una tempiese di buona famiglia e con lei abitò per qualche anno alla Maddalena dove nacque il suo figlio primogenito. Nei documenti rintracciati a Sassari, all’isola e a Cagliari si dice operante come maestranza alla Maddalena negli anni 1813-1815, ma lo strano è che una monografia molto documentata su di lui lo dice già impegnato qui nel 1806 ai lavori di una “fortezza”. Il suo nome (ma solo quello) è stranamente molto noto all’isola perché compare in una via del centro storico: è via Domenico Corti, in un quartiere dedicato ad artisti quali Raffaello Sanzio e Leonardo Da Vinci. Qui sorgono i problemi: è legittimo ipotizzare che fosse conosciuta la sua attività di architetto o costruttore al momento in cui gli è stata intestata la strada? Quale è stato questo momento? Chi lo ha proposto e perché? Dalle ricerche che abbiamo condotto risulta solo che l’intestazione può essere avvenuta fra il 1910 (anno in cui ancora non comparivano i nomi riferiti ad artisti in quel quartiere) e il 1930 (perché al censimento del successivo anno 1931 è registrata la via Domenico Corti). Purtroppo non possiamo dare risposte precise perché nell’Archivio Comunale non sono stati trovati i documenti sulla toponomastica cittadina relativi a quel periodo.
Su Corti sono state scritte molte pagine di storia dell’arte triestina e tutti gli storici che si sono occupati di lui confermano che ebbe un periodo giovanile isolano prima di passare a lavorare in Corsica, a Capraia e infine a Genova quando non era ancora architetto e prima del suo più famoso periodo triestino della maturità. Nella città istriana intere strade e quartieri portarono la sua firma e molta fu la sua fortuna economica come imprenditore delle sue opere architettoniche, tanto da avere perfino un teatro a suo nome.
Il barone Desgeneys e Corti potrebbero essersi conosciuti all’isola, a Genova o a Capraia: erano infatti presenti entrambi negli stessi anni negli stessi posti. Sono congetture non confortate da documenti ma plausibili. La cosa che taglierebbe la testa al toro sarebbe ritrovare la giustificazione dell’intitolazione della strada isolana e non disperiamo di ritrovare il bandolo della matassa.
Di certo, in un documento del 1813 Corti risulta muratore alla Maddalena, chiamato come perito a verificare il danneggiamento di una struttura militare; in seguito, in un atto notarile registrato alla Maddalena il 13 luglio 1815 nel quale era definito capo mastro muratore, egli giustificava l’affidamento ad un procuratore di Tempio di una importante causa con questa parole: “non potendosi in quella villa trasferire per le continue occupazioni dei presenti lavori di questa parrocchiale chiesa”. Non stiamo dicendo che Domenico Corti, il primo architetto urbanista lombardo di nascita ma triestino d’adozione che dette un’impronta neoclassica alla grande città di Trieste, fu il progettista-direttore dei lavori della parrocchiale maddalenina. Vogliamo solo dire che è perlomeno significativo che compaia all’isola, negli anni 1813-1815, come capo mastro muratore impegnato nella costruzione della chiesa e, a distanza di cento anni, lo si ricordi concedendogli l’onore della dedica di una strada cittadina.

Il terzo impianto

Nell’anno 1947 l’ingegner Lorenzo Battino elaborava, su richiesta del parroco don Capula, un progetto per l’ampliamento della parrocchiale e, conseguentemente, per una nuova facciata della chiesa: non si poneva il problema dello snaturamento nell’aspetto dell’edificio. Era nello spirito dell’epoca e nel pensiero del committente che l’ampliamento dovesse essere una tangibile prova di rinnovamento anche estetico dell’opera muraria e della comunità maddalenina tutta, osservante ed agnostica.
La sensibilità, tutta moderna, verso la salvaguardia delle principali tracce tangibili di un importante passato che si adegua alle nuove esigenze di spazio, non era contemplata. La facciata è, in maniera sintomatica, quello che si presenta all’esterno ad ogni tipo di utenza e rappresenta un simbolo iconico e semantico della sua esistenza sul territorio.
Ora, a posteriori, potremmo dire che l’impostazione di una navata più lunga regge bene nei confronti della sua ampiezza e risulta molto più calibrata.
La proposta Battino, si può analizzare essendo reperibile tra i documenti dell’archivio parrocchiale perché fortunatamente conservata agli atti; criticabile per l’impostazione che sarebbe risultata molto lontana dall’originale per la facciata ripensata ex novo ma anche incongrua con il preesistente interno neoclassico che, fortunatamente, sarebbe stato conservato nel nuovo impianto.
Battino proponeva una facciata con gli angoli smussati, per non incombere sulla piazza sagrato che sarebbe risultata ridotta di proporzioni una volta avanzata la facciata di 8 metri effettivi. All’interno, nel vano sinistro di forma curvilinea proponeva il fonte battesimale e simmetricamente, per il lato opposto, la scala per salire alla tribuna. Per dare maggior movimento alla nuova facciata proponeva un pronao di accesso e due porte laterali, il tutto in una declinazione classicheggiante con terrazza- pulpito per le occasioni molto importanti. Il progetto, un po’ lezioso ma corretto negli elementi decorativi per reminiscenze classiche, doveva risultare senza un aggancio stilistico di riferimento con l’interno, che sarebbe rimasto inalterato, ma sarebbero state cancellate le decorazioni floreali sostituite da rivestimenti di marmo nei pilastri. Sarebbe risultato molto costoso per la messa in opera di due colonne monolitiche del protiro di accesso.

La facciata del 1952

L’incarico passò a un giovane architetto emergente, Antonio Simon Mossa, (1) che già aveva lavorato in ambito religioso. Le proposte che egli sottopose al prelato e alla sua “commissione” erano tante. Possiamo dare atto della sua grande fantasia creatrice avendo potuto visionare i numerosi schizzi originali conservati anch’essi nell’archivio parrocchiale; tutte le varianti hanno un denominatore comune: una facciata di tipo mediterraneo spontanea a coronamento orizzontale rettangolare con una variegata aggiunta di elementi decorativi che comunque non alterano l’idea di base.
La scelta ricadde su una facciata poco decorata con una silouette poco mossa e tendenzialmente a capanna; unica concessione alla precedente facciata storica era l’incastonatura dell’antica lapide con dedicatoria a imperitura memoria. Fu pensata una sorta di finestratura con accesso al terrazzo centrale in asse con l’unico portone d’ingresso, come nel progetto classicista di Battino, ed un rosone centrale a motivo solare. Nel tempo il rosone fu sostituito da un discutibile mosaico moderno con l’immagine di Santa Maria Maddalena offerto da una anziana signorina benestante a lei molto devota. La critica nei confronti della nuova facciata voluta senza una consultazione fra gli abitanti non si fece attendere sia a livello popolare che di illuminati addetti ai lavori, ma la personalità del committente fugò ogni possibilità di discussione. La nuova facciata fu paragonata ad una spalliera di letto matrimoniale sagomata, fu considerata priva di stile e senza storia e avulsa dal territorio e dalla realtà isolana. L’incompletezza dei lavori, con il permanere in facciata di elementi di cantiere, e la posa in opera di piastrelle decorative incongrue, aggravarono pesantemente il giudizio popolare.
In qualche modo, però, precorse i tempi di quello che si imporrà sulla costa e che può essere considerato il falso stile mediterraneo detto stile Costa Smeralda.
Fu adottata una soluzione con una simmetria classica con una semplificazione troppo azzardata per l’epoca che non fu rimpianta quando fu demolita e, al suo posto, si adottò una soluzione di ricucitura filologicamente colta riproponendo la vecchia facciata dell’impianto Desgeneys.
Un movimento d’opinione spontaneo fece giustizia sulla imposizione modernista di mons. Capula e di Mossa e, malgrado il vecchio monsignore difendesse fino all’ultimo la sua creatura, i tempi erano finalmente cambiati. Fu proposta, o meglio riproposta, una soluzione la più rispettosa possibile della vecchia facciata che riempiva il cuore dei vecchi maddalenini a cui la nuova non era mai piaciuta. Un’altra cosa che gridava vendetta dal punto di vista estetico erano le mattonelle da bagno, pur anche dipinte a mano, di un improbabile viola che formavano la base esterna e la zoccolatura dei sotto pilastri interni. Forse solo una giustificazione economica potrebbe avere fatto cadere la scelta su una siffatta proposta estetica.

Altra considerazione critica fu la distruzione degli altari delle cappelle laterali, seppur poveri perché eseguiti in murature e calce.
Si sostituirono quelli originali con nuovi altari costruiti con materiali “ricchi” quali il marmo e l’onice, progettati assemblando elementi gotici con elementi rinascimentali in una sorta di nuovo eclettismo ibrido, figlio del proprio tempo. È questo lo scotto da pagare, come sempre succede nelle soluzioni adottate per seguire la moda del momento (e succede anche ai nostri giorni) e solo chi verrà dopo di noi potrà giudicare con un certo discernimento le soluzioni adottate a cuor leggero. Oggi giudichiamo le opere “moderne” anni Sessanta con una certa severità e apprezziamo solo il modernariato frutto del primo design industriale italiano da cui questi altari sono ben lontani da poter essere assimilati per ricerca stilistica. Consideriamo questo post moderno di provincia una sorta di imbarbarimento del canone estetico tradizionale; dall’eclettismo ottocentesco carico ma comunque sempre proporzionato si è passati ad un eclettismo postmoderno dove gli elementi decorativi di sentore classico, ma semplificati al massimo, risultano sproporzionati e grezzi. È facile vedere capitelli di uno stile improbabile più grandi delle paraste come in una scatola da gioco di costruzioni di legno per bambini anni Sessanta.
Con la stessa concezione, non considerando la storia che l’aveva fatta nascere, la chiesa è stata riempita di mosaici moderni figurativi come fosse stata una chiesa nuova di sana pianta di una anonima provincia nella periferia italiana.
Tutto questo nel bene e nel male ascrivibile alla supervisione dell’ex Parroco che negli appunti privati accenna ad una neanche tanto larvata critica dell’impianto della chiesa come l’aveva ricevuta, definendo brutti e poveri gli altari e non capendo il dovere di testimoniare e conservare la realtà storica o per lo meno permettere di conoscerla. Altro peccato fu la distruzione del primo camposanto della fine del Settecento e, con esso, di una bella fetta di storia locale mandata al macero. In lui una bella dose di conformismo tradizionale e una certa dose di modernismo tecnologico furono sempre in conflitto. Gli altari poveri ma originali che avevano resistito alla mania del decorativismo umbertino erano capitolati a quella tabula rasa del boom economico come cose di cui vergognarsi solo perché povere anche se congrue all’impianto originale.
Per avere una idea di quelle povere mense eucaristiche delle cappelle laterali possiamo immaginarle tutte simili, ma variate nei particolari, a quella della chiesetta della Trinità come la vediamo ora.
Consideriamo anche che la parte nobile del tabernacolo della Trinità fu il risultato di un riuso: era stato tolto dalla cappella di Sant’Erasmo della parrocchiale, nella quale l’altare era stato eliminato.

Eppure La Maddalena non mancava di una sua caratteristica veste elegante: lo stile cosiddetto umbertino che ritroviamo ridondante nell’architettura civile e militare lungo tutta l’isola con i suoi begli esempi che ritroviamo nelle palazzine dell’Ammiragliato, del Genio Militare, dell’Ospedale Militare, nell’istituto San Vincenzo, nel cimitero nuovo, nelle Scuole pubbliche del Palazzo e nell’edificio comunale come nei vari palazzi del centro storico e dell’immediata periferia di allora, è stato concepito con una classicità semplice ma rigorosa. Oggi si sono perse le tracce di quel decoro che aveva fatto coniare per la nostra isoletta l’epiteto di Piccola Parigi.

L’ampliamento del 1952

L’esigenza di ampliare lo spazio di culto è stata sempre ricorrente nella vita della parrocchia isolana di Santa Maria Maddalena e nelle sue vicissitudini lungo tutto il suo evolversi; dal settecentesco cappellone del Marciot, pensato per una popolazione che andava giorno giorno aumentando, alla chiesa formata a quattro campate abbastanza ampia per contenere molte persone, voluta, nella prima metà dell’Ottocento, dal Barone di Chiomonte.
L’ampliamento della metà del 1900 è figlio del suo tempo nel male e nel bene. Erano tempi in cui chi poteva esercitava il potere decisionale senza contrasti e controlli da parte delle varie soprintendenze preposte a conservare la memoria storica di un luogo; d’altra parte la voglia di risorgere era tangibile dopo un periodo bellico che aveva distrutto quasi tutto e aveva fatto diventare vecchio l’anteguerra.
Il boom economico italiano del dopoguerra deve essere considerato il vero motore di questa voglia di modernismo, che aleggiava nell’aria in quegli anni fortemente politicizzati, a discapito di tutte le attenzioni verso il passato considerato quasi come un pesante fardello da rifiutare.
L’esigenza di ampliare distruggendo ora la consideriamo non politicamente corretta, ma allora, nei primi anni cinquanta, non faceva gridare allo scandalo. Anzi, questa ventata di modernismo verso il futuro era generalmente apprezzata e strettamente legata alla voglia di benessere che sempre più si sentiva nella popolazione tutta che si apriva agli albori del turismo di massa e al rinnovarsi dell’atavica accoglienza isolana.
A livello locale il progettato ampliamento veniva contrastato solo da pochi: erano alcuni, considerati tradizionalisti (e, fra questi, alcuni consiglieri comunali di opposizione), che si mostravano consapevoli del danno al patrimonio storico, più che artistico, arrecato alla comunità, e altri che subivano un danno oggettivo poiché la massa del nuovo edificio avrebbe limitato lo spazio e la luce sulle loro case delle vie adiacenti. La loro ostilità, concretizzatasi in una raccolta di firme, non scalfì il progetto del Parroco. Lui, che per cultura e sensibilità aveva saggiamente condotto la sua comunità isolana attraverso i tempi difficili della guerra, si mostrava legato alla tradizione ma anche aperto a tante forme di rinnovamento: a fronte della necessità del momento di avere una chiesa più ampia, sacrificò gli altri valori.
Con la visione a posteriori della storia mal si sostengono le ragioni dell’ampliamento a scapito del rigore storico essendo oggi comune il sentimento di poter tramandare ai posteri non solo l’eccellenza ma anche quello che può sembrare troppo povero per essere lasciato in eredità.
Da sempre la Chiesa ha vagliato quello che per tradizione può essere tramandato e quello che si può alienare perché obsoleto o logoro, inutile da ridipingere insomma, senza vederci niente di male nel disperdere un patrimonio quotidiano che solo la sensibilità moderna ora conserva o, a volte con attenzione maniacale, preserva dall’alienazione creando musei e spazi museali anche di ciò che non rappresenta più la logica del tempo, ma rimane ricordo da collezionare.
Con questo spirito bisogna analizzare l’ampliamento che tanto distrusse, ma anche rinnovò l’immagine della chiesa. Con queste considerazioni bisogna inquadrare l’azione dell’ammodernamento dell’impianto.
La planimetria reggeva l’ampliamento e la piazza sagrato non risultò sacrificata, tanto era ampia e accogliente. Ma il maggior vantaggio che si ebbe fu la pulizia da tutti gli eclettismi decorativi riportando l’insieme ad un rigore neoclassico più adeguato e filologico.
Oggi non si farebbero, o meglio non si potrebbero più fare, scelte così radicali.
Oggi non c’è una generazione che sia molto attaccata alla tradizione, ma è una generazione pronta a recuperare quello che l’ignoranza dei nostri nonni ha trascurato o buttato: valga come esempio lo stendardo di Santa Maria Maddalena del Bordignon, ritrovato nella pattumiera e da noi riportato in auge sull’altare.
Con molta oculatezza oggi si sente il dovere di recuperare, di restaurare, di porre rimedio agli errori più grossolani ritornando a studiare gli antichi, documentandosi con sempre più rigore (vedi la nuova facciata Cianchetti) e si cerca di completare e di portare a termine quello che non fu mai finito in maniera adeguata come sono le nuove statue nelle nicchie in facciata.
La nascita del Museo Diocesano è sintomatica del nuovo ordine delle cose. Lo spazio museale è stato allestito con tanto amore, seppur costretto in anguste stanze, dove finalmente trovano spazio e visibilità le donazioni, i reperti e quanto possa testimoniare la devozione, nel tempo, di questa popolazione, attraverso le grandi prove di affetto e stima che da Nelson, con i suoi argenti, a Giusto Davòli, con la sua collezione di stampe magdaleniche unica al mondo, lo hanno arricchito e abbellito. Ma vi rimangono anche, a memoria di quanto è scomparso dalla chiesa, il tabernacolo di un altare laterale, due colonnine di una vecchia balaustrata, il vecchio tabernacolo dell’altare maggiore che con questo era in perfetta sintonia con i suoi colori, le forme, la porticina dipinta all’esterno e rivestita, all’interno, da una stoffa finemente ricamata.

Antonio Frau – Co.Ri.S.Ma

1. Antonio Simon Mossa, algherese di origine (nato a Padova nel 1916, morto a Sassari nel 1971), è stato un noto architetto, attivo soprattutto ad Alghero, Sassari e in Gallura. Indipendentista sardo, accarezzava l’idea di una federazione europea nella quale la Sardegna avrebbe cercato un rapporto stretto con la Catalogna e la Corsica. Ha curato la ristrutturazione e la realizzazione di diverse chiese.