Almanacco isolanoLa Maddalena Antica

La colonia penale agricola di La Maddalena

Carcer est locus securus et horribilis, repertus, non ad poenam, sed ad delinquentium, vel debitorum custodiam.

Nell’ambito della ricostruzione storica dell’identità della comunità di Moneta ci è gradito portare a conoscenza un tema poco noto e apparentemente marginale che riveste invece un interesse sostanziale come elemento integrante della nascita e dello sviluppo dell’abitato del quartiere.

La corretta conoscenza della storia dei luoghi e la maturazione della coscienza della propria identità sociale e civile consente di avviare un processo di identificazione con il contesto nel quale si vive e sollecita una maggiore attenzione verso la qualità degli spazi con i quali si è quotidianamente a contatto. Il presente contributo rappresenta l’esito di una articolata ricerca svolta e sviluppata in ambiti disciplinari diversi, per tali caratteristiche si presenta in una forma particolarmente densa di riferimenti a fonti, notizie e problematiche che possono rendere la lettura non particolarmente agevole. Al lettore la preghiera di avere la pazienza e la tenacia, seppur con fatica, di arrivare sino in fondo.

L’antica pena della condanna al remo, già applicata dai Fenici e contemplata dal diritto romano nella damnatio in opus publicum, veniva espiata a bordo delle galere sia dai condannati a vita che dai condannati a tempo. In epoca moderna tale condanna continuò ad essere applicata fino al XVI secolo, allorché entrò in crisi il sistema di navigazione a remi e si sviluppo progressivamente la navigazione a vela che consentiva tra l’altro di affrontare lunghe traversate. Nella seconda metà del Cinquecento si ebbero, inoltre, notevoli progressi tecnologici che migliorarono la qualità dei materiali e delle tecniche di lavorazione e di produzione delle armi da fuoco. La rigatura delle canne e l’adozione, anziché di proiettili sferici, di proiettili ogivali più leggeri, aumentò straordinariamente la precisione di tiro e l’ampiezza della gittata. La diffusione dell’uso delle armi da fuoco sulle navi richiese, quindi, una maggiore velocità ed una più ampia rapidità di manovra delle imbarcazioni. Il salto di qualità imposto da queste innovazioni sarà determinante anche per lo sviluppo dell’ingegneria militare che lascerà un’impronta notevole anche in campo architettonico ed urbanistico. Con lo sviluppo della navigazione a vela venne meno anche l’utilità delle condanna al remo e i galeotti furono costretti ad espiare la pena ai lavori forzati presso i bagni penali, stabilimenti ubicati in genere nelle isole, presso località costiere, ma anche sulla terraferma.

Tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo si diffondono in Europa alcune idee guida del pensiero illuministico come l’abolizione della pena di morte e delle mutilazioni corporali e si sviluppano correnti riformatrici ispirate al principio filantropico ed umanitario dell’inutilità delle pene e dei supplizi. Durante il 1800, nella quasi totalità dei paesi europei, si apre un intenso dibattito sui sistemi penitenziari che spinge alla ricerca di nuove forme di pena detentiva; per questo, a partire dalle esperienze dei bagni penali, si farà sempre più ricorso alla pena dei lavori forzati.

Bagno penale del 1821 diretto da D. Millelire.

Questo fenomeno ebbe naturalmente sviluppi diversi in quanto ogni paese si era dotato di proprie specifiche leggi al riguardo. A partire dal 1786 il codice criminale del Granducato di Toscana si era fortemente ispirato ai principi umanitari che prevedevano, nella conduzione degli istituti di pena, l’espiazione delle pene per lo più presso i bagni penali, attraverso 1’abolizione della pena di morte e la sostituzione con la pena ai lavori forzati. I regolamenti dei Bagni Penali, emanati il 26 febbraio 1826 dal Regno Sardo-Piemontese, che contemplavano le norme per i condannati alla pena dei lavori forzati, continuarono ad essere applicati anche dopo l’Unità d’Italia fino a quando il governo emano con Regio Decreto del 19 settembre 1860 un nuovo “Ordinamento dei Bagni di Sardegna e di terraferma” che ne regolava tra l’altro anche la disciplina e la contabilità. I bagni penali erano più propriamente riservati all’espiazione della pena attraverso lo svolgimento del lavoro forzato in opere di pubblica utilità o con l’impiego dei condannati nei porti o nelle saline, mentre le case di pena erano destinate normalmente alla carcerazione, alla reclusione ed alla segregazione dei condannati. I bagni penali per la loro origine storica e per la loro tradizione marinara erano di competenza.

Pur con una propria autonomia contabile ed amministrativa, del Ministero della Marina, mentre i penitenziari e le case di pena erano alle dipendenze del Ministero dell’Interno. Lo stesso Ministero della Marina, che considerava anomala questa divisione di competenze, sollecito il trasferimento dei bagni penali sotto il controllo del Ministero dell’Interno.

Il Regio Decreto 29 novembre 1866. n. 3411, con decorrenza dal 1 gennaio 1867 trasferiva la competenza dei bagni penali dal Ministero della Marina al Ministero dell’Interno. Successivamente vennero riformati anche gli organici del personale di custodia che confluì, con il regolamento istituito nel 1873, nel ruolo unico delle guardie carcerarie. In seguito i bagni penali vennero progressivamente chiusi per essere poi definitivamente soppressi dal Regolamento carcerario del 1891 che istituiva le Colonie Penali Agricole.

All’indomani dell’Unità d’Italia il nuovo stato italiano si trovava davanti alla necessità di unificare i diversi codici penali che ereditava dagli Stati preunitari. Le principali leggi penali in vigore fino ad allora erano tre: il codice penale del Granducato di Toscana del 1853; il codice dello Stato Sardo-Piemontese del 1859 che era diventato il codice del Regno d’Italia e il codice delle Province Napoletane esteso anche al Regno delle due Sicilie, che era nato sulla base del codice penale sardo sensibilmente modificato con decreto luogotenenziale del 17 febbraio 1861. Dopo 1’Unità si avvia così una lunga e travagliata fase di transizione che culminerà nel 1890 con la promulgazione del codice Zanardelli con il quale l’Italia raggiunge l’unificazione legislativa. L’intenso dibattito che si sviluppa intorno al diritto penale sostanziale ed alla riforma del sistema delle pene si svolge nell’arco di un trentennio e vede emergere la necessità di istituire delle colonie penali agricole nelle numerose isole italiane, non escluse le principali: la Sardegna e la Sicilia. Le prime colonie penali agricole realizzate in Italia dopo l’Unità vengono istituite sull’esempio di quella che i Lorena avevano creato nel Granducato di Toscana nel 1858 sull’isola di Pianosa. Sull’esempio di Pianosa un primo esperimento di rilievo nell’applicazione del lavoro dei detenuti per interventi di sbancamento, di dissodamento e di bonifica di terreni venne realizzato nel 1885 nella tenuta delle Tre Fontane, alle porte di Roma. Nella seconda metà dell’Ottocento il vasto territorio intorno Roma si trovava in una situazione estremamente problematica di arretratezza e di abbandono. Il degrado dell’ambiente naturale si accompagnava con la piaga della malaria dando luogo ad una realtà ambientale ostile, incompatibile con la sopravvivenza umana che inibiva le potenzialità produttive del lavoro e l’espandersi dell’agricoltura. Dopo il settembre 1870, quando il governo si insediò a Roma, le condizioni nelle quali si trovava il territorio intorno alla capitale erano di estrema gravità e richiedevano interventi urgenti, sia per motivi di igiene che per motivi di prestigio. L’esperimento delle Tre Fontane rappresentava, nello spirito filantropico dell’epoca, il modello di educazione correzionale adottato dalla Chiesa cattolica già impegnata in diversi paesi europei a fornire il personale direttivo degli istituti pubblici e privati per minori. La personalità intorno alla quale ruota 1’intera operazione è monsignor Saverio De Merode.

Inoltre tra le questioni più urgenti cui si doveva far fronte all’indomani dell’Unità d’Italia e della proclamazione di Roma capitale vi era certamente l’esigenza di dotare la città di un sistema difensivo militare. La necessità di fortificare le capitali si inseriva nel quadro più generale della difesa dello stato e interessò durante l’Ottocento tutte le più importanti capitali europee. Il dibattito che investì la cultura urbanistica del tempo riguardava il problema del superamento della città murata e l’abbattimento delle antiche cinte fortificate. Questa idea che doveva rappresentare il simbolo di un’epoca nuova e dell’organizzazione delle nuove forze politiche nascenti si concretizzo attraverso l’espansione nel territorio circostante e la creazione di nuovi quartieri esterni all’antico recinto della città. Piuttosto che abbattere le mura antiche. come avvenne in altre capitali europee, e sostituire le vecchie strutture difensive, a Roma si preferì connettere le preesistenze storiche con il campo trincerato, una corona di forti disposti tutt’intorno alla città. Il dispositivo adottato collocava i forti e le batterie militari, quali capisaldi del campo trincerato, a corona della città; l’intento era di allineare le difese della capitale ai più aggiornati campi trincerati del tempo, costituiti appunto da cinture di forti isolati ma capaci di proteggersi l’un l`altro anche a grande distanza grazie all’impiego di moderni cannoni. 1 forti, disposti circolarmente e attestati lungo le vie consolari, distavano dai 2 ai 4 km dalla città. con un diametro variabile tra gli 11 e i 13 km, ed erano separati tra loro da intervalli di circa 2 km. Al termine dei lavori di costruzione il risultato fu una rete difensiva composta da 16 forti e da 4 batterie. situate in posizione lievemente arretrata e in particolari punti, con funzioni di rincalzo e completamento della copertura dei tiri; i nomi furono assegnati con il Regio Decreto del 1° novembre 1882 in funzione delle località in cui sorsero.

Durante la realizzazione delle opere dì difesa. su richiesta degli imprenditori impegnati nei lavori di fortificazione della Capitale, il Ministero dell’Interno concesse un certo numero di condannati lavoratori per la costruzione dei forti militari. La gestione di questa operazione venne praticata da intermediari privati e non sottoposta al controllo diretto dell’amministrazione dello stato per cui si rivelò fallimentare e improduttiva sia sotto il profilo morale che dal punto di vista economico. Anche dal punto di vista della difesa militare le opere realizzate risultarono scarse e inadatte già all’indomani della loro costruzione, non conobbero mai il collaudo del fuoco e furono ben presto destinate a compiti secondari come depositi e caserme delle truppe di guarnigione. A causa di questi difetti tale esperienza non assunse carattere fisso, stabile e metodico e la stessa amministrazione carceraria, in previsione di nuove richieste per l’impiego di condannati in lavori di interesse pubblico, si preoccupo di promulgare in data 2 agosto 1884, il regio decreto n. 2632 (s.3a), poi modificato con regio decreto 25 marzo 1886, n. 3780 (s.3a), che istituiva un regolamento speciale per l’impiego dei servi di pena nei lavori che dipendevano dal Ministero della Guerra.

Anche lo studio del sistema difensivo da adottare per il presidio militare dell’arcipelago di La Maddalena fu ispirato al modello strategico del campo trincerato e la possibilità di impiegare la manodopera dei condannati in lavori di competenza del Genio Militare, ampiamente ed opportunamente sfruttata nella realizzazione delle opere di fortificazione della capitale, trovò parziale applicazione più tardi solo in favore del Ministero della Marina per la realizzazione delle opere difensive fortificate che riguardavano l’isola di La Maddalena. Dopo la firma della Triplice Alleanza, nel 1882, il problema della sicurezza e della difesa dei confini marittimi occidentali e dei contrasti con la Francia, a causa della vicinanza con la Corsica, che era già stata fortificata, iniziarono a diventare tra le principali preoccupazioni del governo sabaudo. Una commissione governativa venne inviata in Sardegna con l’incarico di individuare, attraverso rilievi tecnici e sopralluoghi, il sito più adatto, dal punto di vista strategico, per la difesa di questo delicato settore. Una relazione dettagliata, spedita a Roma nel 1883, indicava nell’isola di La Maddalena la zona più adeguata per la realizzazione di una base navale quale presidio difensivo. Più specificamente veniva individuata una zona costiera pianeggiante situata a sud dell’isola, a ridosso dei venti dominanti di scirocco e di maestrale, che si estendeva tra la Cala Camiciotto e la Punta della Moneta. Con il Regio Decreto del 3 novembre 1886 vennero dichiarate di pubblica utilità le opere da realizzare per la sistemazione e la difesa dei servizi militari marittimi nel1’arcipelago di La Maddalena. In seguito il Regio Decreto del 6 marzo 1887 istituiva il Comando Difesa Marittima del1’estuario della Maddalena e quindi con la Legge del 10 luglio 1887 si autorizzavano ulteriori spese straordinarie nel bilancio del Ministero della Marina per realizzare le fortificazioni dell’arcipelago di La Maddalena. Il 18 agosto veniva istituita una direzione straordinaria del Genio Militare per l’esecuzione dei lavori. L’Ufficio del Genio Militare, che dipendeva dalla direzione per i lavori della regia Marina di La Spezia, venne istituito il 1° novembre del 1886 ed era incaricato di eseguire i fabbricati e le opere di difesa necessari per poter impiantare una base navale.

Tuttavia soltanto verso la fine di novembre del 1886 fu possibile impiantare regolarmente l’ufficio del Genio e i lavori previsti, a causa dei ritardi nell’invio degli attrezzi e dei materiali necessari dal continente, poterono iniziare i primi giorni del mese di dicembre. Nel gennaio 1887 si ebbe un discreto impulso nell’esecuzione dei lavori potendo contare su una forza lavoro giornaliera composta da 300 operai borghesi e da circa 60 condannati. Il sistema difensivo doveva comprendere la realizzazione di una serie di batterie basse per fiancheggiare gli sbarramenti di levante e di ponente e di una serie di batterie alte che dovevano proteggere la bocca del canale della Moneta, difendere gli sbarramenti e gli ancoraggi interni.

La nuova base navale doveva comprendere il cantiere del Genio, i baraccamenti per 500 condannati destinati all’esecuzione dei lavori, magazzini, officine, la realizzazione di una stazione per le torpediniere, magazzini di rifornimento, l’impianto di due distillatori Normandia con relativo rifornitore, una caserma per 200 uomini, una infermeria ed inoltre un grande piazzale che doveva accogliere il deposito del carbone della capacità di oltre 1500 tonnellate.

Fin dagli inizi dell’Ottocento l’isola di La Maddalena era stata un luogo di prigionia e di esilio, ospitando un distaccamento della compagnia del Corpo Franco o Soldati della grazia. Successivamente venne costruito un bagno penale per volontà del governatore, il barone Giorgio Des Geneys (1761-1839), in prossimità del primitivo ospedale dell’isola ancora oggi noto come l’Ospedale Vecchio. L’edificio poteva ospitare sessanta forzati e comprendeva anche due camere destinate al custode e al corpo di guardia. l detenuti, vestiti di poveri cenci dormivano in genere su di un tavolazzo sul quale era adagiato un pagliericcio e nei periodi di maggiore affollamento anche coricati sul nudo pavimento di terra battuta. Le condizioni igieniche erano dunque piuttosto precarie e i forzati, malnutriti, malvestiti e incatenati, andavano facilmente soggetti a malattie e a infezioni polmonari. Nonostante le affermazioni del comandante dell’isola, Gaspare Andreis, circa la salubrità e l’idoneità dei locali, la costruzione era stata realizzata in economia con semplici cantoni di pietra e malta di argilla senza arricciatura né imboccatura di calce e per questo l’edificio andò soggetto ad un rapido degrado, favorito anche dalla esposizione agli agenti atmosferici ed alle intemperie.

I condannati ai lavori forzati o servi di pena, come già prescritto dagli antichi bandi e regolamenti dei Bagni penali del Regno Sardo, emanati il 26 febbraio 1826, erano incatenati tra loro due per volta; spesso denutriti e vestiti di poveri cenci, venivano da sempre impiegati nei lavori più massacranti e umilianti, la manutenzione stradale il dragaggio dello scalo di Cala Gavetta, lavori di pulizia e di raccolta della legna. In particolare vennero impiegati nella costruzione della chiesa di S. Maria Maddalena e nella realizzazione del prezioso pavimento della chiesa stessa dono del barone Des Geneys. Inoltre realizzarono le strade di collegamento del Forte S. Teresa e del Forte Carlo Felice e furono impegnati in ingenti opere di sbancamento, in lavori di livellamento, nella costruzione di ponti e di cunette e nella manutenzione di tutte quelle strade che durante i periodi di pioggia erano invase da ogni tipo di materiale che l’acqua trascinava con sé fino al mare. Nel 1850, la necessità di potenziare le difese dell’isola di La Maddalena tramite la costruzione di una serie di forti militari, impose il potenziamento del contingente di forzati già presenti sull’isola al servizio della Regia Marina. I servi di pena venivano impiegati soprattutto nelle cave di granito, la cui estrazione, ancora per alcuni anni fu limitata agli usi militari. Nel 1842 il consiglio comunale fece richiesta affinché alcuni di loro fossero destinati alla raccolta dell’immondizia e impiegati nella realizzazione di passeggiate. I ‘bagni penali’ e gli “ergastoli” si rivelarono nel tempo come dei luoghi di pena e di tormento indegni di un paese civile e in virtù di queste considerazioni si iniziò a pensare che fosse opportuno e necessario realizzare nuove strutture carcerarie.

Nel 1881 il rinnovato interesse per l’istituzione nell’isola di un bagno penale fu manifestato dal sindaco di La Maddalena Leonardo Bargone che fece espressamente richiesta, al Ministero della Giustizia, affinché venissero destinati a La Maddalena settanta condannati allo scopo di impiegarli in opere di carattere agricolo ed in particolare per la piantagione e la cura degli ulivi. Il Ministero aveva richiesto assicurazioni sulle condizioni di vitto e di alloggio che sarebbero stati a carico del Comune e dei datori di lavoro privati. Inoltre sulle casse comunali gravavano le ingenti spese, comprese tra le tre e le quattromila lire, necessarie per adeguare i caseggiati del demanio nei quali sarebbero stati ospitati i condannati. Il sindaco, definitivamente scoraggiato da questi problemi, non solo fu costretto a rinunciare al suo progetto ma nel 1884, in occasione della discussione, in seno al Comizio Agrario di Tempio, sull’eventualità di istituire il bagno penale a La Maddalena, si affrettò ai consigliare come sedi più adeguate Porto Pozzo o il bacino del Liscia.

Il primo insediamento provvisorio della Colonia Penale di La Maddalena venne realizzato tramite la costruzione di una serie di apposite baracche, situate presso Cala Camicia, che davano ospitalità ai condannati ai lavori forzati, impiegati per la realizzazione degli edifici progettati. In un secondo tempo la Colonia Penale avrà sede nei locali di un fabbricato che più tardi verrà trasformato nella odierna Caserma Faravelli. Il prospetto principale dell’edificio, posto a sud del complesso, si sviluppava su due piani, mentre il resto della struttura si svolgeva, attorno ad un ampio cortile, su un solo piano. Le quattro ali rettangolari che circoscrivevano il cortile interno accoglievano i dormitori, la mensa, la direzione e il corpo di guardia, un forno, alcuni magazzini, le celle e i servizi; le finestre si affacciavano per lo più verso l’interno del cortile centrale, al quale si accedeva tramite tre robusti cancelli di ferro. Il numero di questi lavoratori, stimato dapprima in un massimo di cinquecento unità, era all’incirca di duecento.

Il regolamento per l’impiego dei condannati nei lavori dipendenti dal Ministero della Guerra prevedeva che, qualora in prossimità del posto di lavoro non vi fosse un istituto penale per la fornitura giornaliera dei condannati necessari, il Ministero della Guerra si sarebbe accordato con il Ministero dell’Interno per impiantare una colonia penale. Per problemi inerenti la disciplina o per motivi sanitari l’amministrazione carceraria poteva temporaneamente o in via definitiva chiudere la colonia penale e trasferire altrove i condannati. La colonia penale era impiantata, a cura e spese dell’amministrazione militare, in edifici demaniali, in edifici privati o anche in baracche costruite appositamente.

Le spese per l’adattamento e per la sicurezza dei locali destinati ad alloggi dei carcerati e la scelta del tipo di baracche dovevano essere concertate fra l’amministrazione militare e quella delle carceri. La colonia era gestita da una direzione autonoma direttamente dipendente dalla direzione generale delle carceri, che garantiva dell’ordine e della condotta dei carcerati. L’amministrazione militare stabiliva il numero complessivo necessario dei condannati per un dato lavoro e indicava quanti di loro dovevano essere scelti in base a ciascun mestiere. Inoltre doveva stabilire, di comune accordo con la direzione della colonia, il numero dei graduati e delle guardie da destinare ad ogni colonia, tenuto conto che per ogni cento condannati vi sarebbero dovuti essere non meno di dieci agenti, scelti possibilmente tra quelli che avevano avuto già esperienze di questo tipo.

Per la realizzazione dei lavori le guardie dovevano eseguire le direttive degli ufficiali e degli impiegati del Genio Militare che avevano il dovere di denunciare eventuali mancanze da parte degli agenti al direttore della colonia. La custodia dei condannati era affidata a personale armato, collocato in punti designati che venivano indicati al capo guardia dal direttore della colonia in accordo con l’ufficiale del Genio direttore dei lavori.

Altre guardie disarmate svolgevano il ruolo di capisquadra, impartendo gli ordini per l’esecuzione dei lavori e controllando che questi fossero perfettamente eseguiti dai condannati con alacrità e prontezza e con l’osservanza dell’ordine e della disciplina. Un regolamento scritto, stabilito di concerto tra l’ufficio del Genio e il direttore della colonia, disciplinava la condotta di tutto il personale di guardia che rispondeva in prima persona di qualsiasi disordine si fosse verificato. Nel caso il lavoro di vigilanza non avesse offerto sufficienti garanzie per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza, le guardie stesse avrebbero dovuto sospendere i lavori riferendo il caso al direttore della colonia che sarebbe intervenuto con adeguati provvedimenti.

Ciascun condannato, a seconda delle proprie attitudini e del grado di abilità, veniva destinato al ruolo di semplice mastro oppure di capomastro. Qualora non fosse stato possibile impiegare ciascun condannato a seconda del proprio mestiere, questi avrebbe dovuto assumere il ruolo generico di garzone, manovale, terraiuolo o destinato a servizi diversi e in base a tali incarichi retribuito. I capimastri in genere percepivano una paga giornaliera di una lira e quaranta centesimi, i maestri guadagnavano una lira e venti centesimi, mentre ai garzoni, ai manovali e ai terraiuoli veniva corrisposta la paga di una lira al giorno; L’amministrazione applicava una ritenuta di quaranta lire ogni cento lire guadagnate. Poteva essere anche concessa, a discrezione dell’amministrazione militare, un’integrazione di dieci centesimi al giorno che veniva ovviamente sospesa nel caso di indolenza o di cattiva condotta; i negligenti abituali venivano rapidamente sostituiti ed in seguito allontanati dalla colonia stessa.

Dal punto di vista amministrativo i lavori venivano condotti in regime di economia, se non sussistevano problemi di disciplina alcuni incarichi potevano essere affidati “a misura”; ovvero previo accordo sul costo con l’utilizzo di squadre scelte. Le ore di lavoro e di riposo in ogni giornata erano stabilite concordemente dall’amministrazione del genio e da quella carceraria, le eventuali variazioni potevano essere stabilite d’accordo tra il direttore dei lavori e quello della colonia; quando non si poteva occupare 1’intera giornata, secondo gli orari stabiliti, le retribuzioni erano computate solo sul tempo impiegato nel lavoro, con una divisione della giornata per quarti. Ogni sera il direttore dei lavori richiedeva il numero dei lavoratori occorrenti per il giorno dopo; sul luogo di lavoro si verificava se il loro numero ed i loro requisiti fossero conformi all’elenco giornaliero che il capo guardia compilava in duplice originale. Il direttore dei lavori divideva i condannati in squadre dirette da un assistente del genio e vigilate da un numero sufficiente di guardie carcerarie indipendenti dalle guardie armate incaricate della custodia dei condannati.

Il direttore compilava, di mese in mese, i conti delle paghe spettanti ai condannati e li consegnava al direttore dei lavori. Le misure e il conteggio dei lavori a cottimo venivano eseguiti, di mese in mese, entro i primi dieci giorni, dai ragionieri geometri del genio in accordo con la direzione carceraria; il consiglio d’amministrazione della direzione del genio pagava direttamente al contabile della colonia l’ammontare complessivo di ciascun conto. Il pagamento dei condannati era in ogni caso a cura della direzione della colonia in completa autonomia dalla direzione dei lavori che non doveva avere alcuna ingerenza nelle distribuzioni a favore dei condannati. Nei lavori affidati ai condannati potevano essere impiegati anche operai liberi senza tuttavia che questi ultimi potessero far parte di squadre di condannati. Nei casi di assoluta necessità era consentita la presenza di un solo operaio libero all’interno di una squadra di condannati; questo operaio libero doveva comunque appartenere all’amministrazione militare ed essere immediatamente sostituito, per intervento del direttore della colonia, qualora lo avessero richiesto ragioni di ordine e di disciplina. La contabilità relativa all’impiego di operai liberi, così come l’acquisto di materiali, il noleggio di strumenti o di macchine, doveva essere eseguita a parte, in conformità con il regolamento del genio militare dell’8 luglio 1883.

Le modalità di invio nella colonia precisavano che in questa potevano essere inviati, per ordine del Ministero, in seguito ad una proposta motivata del Consiglio di disciplina dei vari luoghi di pena, quei condannati che per la lodevole condotta tenuta, fossero riconosciuti meritevoli di tale premio. Inoltre, durante tutto il tempo di permanenza, pena l’allontanamento, doveva persistere il requisito della buona condotta. Per chi doveva scontare pene particolarmente lunghe questo tipo di colonie era certamente da preferire agli altri istituti carcerari.

Il regolamento della colonia penale prevedeva per i detenuti che la vita si svolgesse, in virtù della natura stessa dell’istituzione, all’aria aperta, a differenza degli istituti di pena tradizionali all’interno dei quali il tempo veniva trascorso in ambienti chiusi, nell’ozio delle celle o al più svolgendo piccoli lavori interni. Al posto dell’usuale isolamento i destinati alle colonie, adeguatamente istruiti circa le regole da osservare, erano tenuti all’obbligo del silenzio pressoché durante tutta la giornata, fatta eccezione per le ore del passaggio e del riposo durante le quali i condannati potevano intrattenersi, discorrendo tra loro, a voce moderata e nel più perfetto ordine; i canti, le grida e le conversazioni clamorose erano sempre e ovunque assolutamente vietate. L’unica eccezione riguardava le feste o quando a causa delle intemperie i condannati erano costretti a restare all’interno dei dormitorio nelle sale comuni; in questi casi era consentita la lettura ad alta voce. Qualche condannato poteva leggere per i suoi compagni riuniti intorno a lui libri istruttivi e di morale che venivano distribuiti a tale scopo dalla direzione dell’istituto. In generale le condizioni di vita erano buone così come lo stato di salute e limitato il tasso di mortalità.

Per quanto riguarda più in particolare la disciplina il numero estremamente basso di castighi infittiti, secondo i relativi indici statistici, rivelava come la conflittualità fosse particolarmente bassa. Le infrazioni alle regole e i delitti compiuti si verificavano in misura assai ristretta, così come scarsi risultavano i casi di recidività nelle infrazioni disciplinari. I principali lavori che si svolgevano potevano riguardare la coltivazione, il dissodamento e la bonifica di terreni a scopo agricolo, o anche lavori riguardanti la costruzione di strade e fabbricati, l’esercizio di arti affini o sussidiarie dell’agricoltura o di speciali industrie in servizio delle colonie stesse. I condannati potevano essere impegnati nelle officine o all’aperto in gruppi o in squadre, posti sotto la vigilanza di un adeguato numero di guardie. Durante la notte erano tenuti sotto vigilanza all’interno dei dormitori comuni.

Il regolamento disciplinava con rigore la giornata e scandiva con regolarità gli orari che i carcerati dovevano rispettare; di regola la sveglia suonava, dal 1° di settembre al 15 di aprile, mezz’ora prima del levare del sole, mentre dal 16 di aprile sino alla fine di agosto era prevista al levare del sole. Dopo la sveglia i condannati dovevano attendere in buon ordine alle pratiche di pulizia prescritte in attesa di essere chiamati al lavoro.

Mezz’ora dopo la sveglia i condannati venivano destinati alle varie occupazioni alle quali dovevano attendere senza sosta, fino all’ora della prima refezione, prevista dopo due ore e limitata ad un quarto d’ora di tempo.

Il lavoro riprendeva quindi fino all’ora del rancio o della prima distribuzione del vitto. Per il vitto e per il riposo pomeridiano veniva concessa una pausa di un’ora e mezza, dopo di che i condannati dovevano fare ritorno ai luoghi di lavoro, senza altre interruzioni, fino a mezz’ora prima del tramonto. Durante il periodo estivo quando le giornate erano più lunghe e più calde il direttore poteva concedere a quei condannati impegnati in lavori particolarmente faticosi una sosta di mezz’ora durante il pomeriggio. I condannati che lavoravano all’aperto venivano dotati di un cappello di paglia ricoperto durante le stagioni più fredde da una incerata gialla. Nel caso in cui il luogo di lavoro fosse particolarmente distante dai dormitori il termine del lavoro poteva essere anticipato in modo tale da consentire ai condannati di rientrare sempre entro il tramonto. Dopo il rientro dal lavoro veniva distribuito il vitto che doveva essere consumato entro una mezz’ora di tempo, dopo di che, adempiute le visite e le altre formalità, era concesso ai condannati di riposarsi. Per i giorni nei quali, a causa delle intemperie, i lavori all’aperto non potevano essere svolti era prevista una organizzazione speciale del lavoro. In questi casi, come durante i giorni festivi, la sveglia veniva posticipata di mezzora e veniva concessa un’ora e mezza di tempo per dedicarsi alla pulizia personale e dei locali. Durante il resto della mattinata festiva i condannati potevano assistere alla Messa ed alla spiegazione del Vangelo ed erano impegnati in attività scolastiche e di educazione in genere; dopo il pasto ed il riposo si assisteva al catechismo e alla benedizione e fino al tramonto era concesso di passeggiare o di curarsi della corrispondenza.

Nel 1888 l’incarico dell’esercizio religioso come cappellano presso la Colonia Penale di Moneta venne affidato a Don Antonio Vico, parroco di La Maddalena, dopo la morte dell’anziano parroco Michele Mamia Addis, tra il 1888 ed il 1933. Nei primi due anni il canonico era incaricato in particolare del “servizio religioso”, ovvero dell’assistenza ai condannati moribondi. Nel 1899, tramite un Decreto Prefettizio, gli verrà confermato l’incarico di cappellano con accresciuti oneri che prevedevano oltre all’assistenza ai condannati moribondi anche l’obbligo di celebrare messa con una certa frequenza nel corso dell’anno, senza tralasciare quella per il Natale, per la Pasqua e per lo Statuto. Almeno una volta alla settimana doveva inoltre tenere un discorso morale ai condannati spiegando loro il Vangelo ed educandoli alla Dottrina Cristiana. Le condizioni di vita e di lavoro seguivano dunque un ritmo piuttosto regolare con il primo vitto somministrato in genere a mezzogiorno e quello serale al tramonto. Il regolamento consentiva tuttavia una certa flessibilità per cui a seconda delle circostanze locali e con il variare delle stagioni il direttore aveva facoltà, dietro approvazione del Ministero, di modificare e adeguare gli orari.

La scarsissima densità di popolazione e le storiche condizioni di arretratezza della Sardegna hanno indotto in età moderna diversi tentativi di colonizzazione del territorio attraverso l’intervento dello Stato che tuttavia non hanno ottenuto, in generale, risultati particolarmente significativi. Le iniziative intraprese a partire dal ‘600 nel tentativo di colonizzazione rurale e che culminano nella fondazione o rifondazione di una serie di centri abitati non rappresentano, infatti, che un timido avvio, peraltro con esiti alterni e incerti, di un lungo processo che raggiungerà il suo apice nel ‘900 con la realizzazione delle città fondate durante il regime fascista.

All’interno della lunga storia della colonizzazione della Sardegna la fondazione del centro abitato di La Maddalena rappresenta il risultato del riformismo e della concezione colonizzatrice della monarchia sabauda che inizia a delinearsi negli anni trenta del ‘700 e che conosce il suo apice nella seconda metà del secolo attraverso la fondazione di sette nuovi centri abitati. È questo il primo fenomeno di colonizzazione operato su scala territoriale in Sardegna in epoca moderna; il secondo di questi processi, nel quale sarà di nuovo coinvolta l’isola di La Maddalena è quello relativo alla istituzione delle Colonie Penali Agricole, che si svolge a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. L’intervento dello stato, all’indomani dell’unità d’Italia, si concentrò sulla colonizzazione della Sardegna attraverso lo sfruttamento della manodopera dei detenuti; la realizzazione di queste colonie, sorte su terreni che sarebbero dovuti essere bonificati e portati a coltura dai reclusi, conobbe un notevole impulso. Questa esperienza si manifestò con caratteristiche diverse in relazione con le diverse finalità e modalità di realizzazione, a seconda dei luoghi e dei momenti nei quali vennero concepite. In particolare le isole, per la loro speciale posizione geografica, offrivano da sempre le maggiori garanzie di sicurezza come luoghi di reclusione e di confino; in particolare per accogliere prigionieri politici, condannati all’esilio, imputati per gravi delitti o per ospitare comunità di condannati ai lavori forzati.

La colonia penale agricola di La Maddalena, sorta in virtù della necessità di dotare l’isola di un forte presidio militare, rappresenta un esempio particolare di colonia penale che tuttavia incarnava lo spirito della riforma carceraria intesa ad affrontare e favorire l’emenda del condannato ed il suo reinserimento sociale, una volta scontata la pena. La presenza dei forzati nell’isola veniva comunque percepita, da un certo numero di abitanti, come un ostacolo alla ricerca di occupazione e di lavoro, come attesta un documento del 21 agosto 1893 che invocava un più diretto interessamento da parte dello Stato riguardo le condizioni locali del paese. La concorrenza tra il lavoro dei carcerati ed il lavoro libero costituiva di fatto una delle principali questioni che si imposero all’interno del dibattito riguardo l’istituzione delle colonie penali agricole. Questo problema suscitò diffuse preoccupazioni e in alcuni casi vivaci proteste sia da parte del mondo operaio organizzato che da parte degli imprenditori, del quale si trova eco nelle discussioni parlamentari, in Italia come all’estero. Questi temi, del resto costituirono oggetto di vive discussioni anche in altri paesi europei e in America e vennero ripetutamente affrontati nei congressi penitenziari internazionali, in particolare in quelli di Roma, Pietroburgo, Parigi e Budapest. Questo non impedì tuttavia che alcuni dei condannati, scontata la pena, restassero nell’isola integrandosi nella società civile senza incontrare alcuna difficoltà, sposandosi, creandosi una famiglia, intraprendendo rapporti di lavoro con privati.

Come si è visto la ricerca di forme alternative alla pena detentiva in carcere era stata intrapresa, nel corso del XIX secolo in diversi paesi europei, e gli esperimenti per attuare forme diverse di esecuzione delle pene al di fuori delle carceri tradizionali si concretizzarono in varie forme, dando luogo alla creazione di colonie penali agricole per il recupero dei detenuti attraverso il lavoro dei campi, nelle opere di bonifica di zone incolte, malariche, aride. Nonostante la definitiva chiusura e soppressione della maggior parte di questi speciali istituti penitenziari essi hanno rappresentato, all’interno della storia delle istituzioni carcerarie, un modello positivo di organizzazione del lavoro e della socialità, in alternativa alle carceri, tradizionalmente chiuse, prive di finalità e di prospettive riguardo il recupero sociale dei condannati. Tuttavia questo patrimonio di esperienze ha messo in evidenza lo scollamento tra le finalità dichiarate di dare un lavoro ai carcerati, di promuovere il loro recupero sociale e le oggettive condizioni di disagio e di precarietà. Inoltre i problemi legati alla lontananza dalla terraferma causa del disagio profondo, sia per i detenuti che per il personale addetto alla custodia, hanno contribuito in modo determinante al progressiva chiusura di queste colonie. Inoltre si rivelarono per lo più inadeguate e fallimentari poiché si evidenziò in maniera marcata il divario che esisteva tra le soluzioni idealistiche e la realtà carceraria, tra le direttive della legge ispirata spesso a scopi umanitari e la difficoltà di rendere concreti gli sforzi per il recupero e la rieducazione dei condannati.

Sotto il profilo urbanistico l’esperienza delle Colonie Penali Agricole assume un connotato particolarmente interessante come esempio di colonizzazione del territorio e di fondazione di nuovi insediamenti urbani, lasciando interessanti testimonianze nel tessuto urbanistico di numerosi centri abitati. Con il ristabilimento della piazzaforte militare a La Maddalena. nel 1887, si registra un notevole impulso nell’ampliamento edilizio del centro abitato. Accanto alla città borghese sorge una nuova città militare, estesa lungo tutto il settore costiero meridionale dell’isola sino alla punta Moneta, dove si realizzano opere di banchinamento, scali, magazzini, si adattano e si modellano piazza Umberto I, Cala Chiesa, Cala Camiciotto, Cala Camicia, delle quali si draga e si scava il mare antistante. Le abitazioni dei militari e dei civili impegnati nell’arsenale si attestano razionalmente lungo il declivio retrostante con palazzine a più piani e più appartamenti. Questa nuova espansione edilizia a carattere multifunzionale aumenta di almeno sei volte l’area urbana di La Maddalena, mentre in altre zone dell’isola e nelle altre isole dell’arcipelago vengono costruite le opere difensive, i forti militari, le basi di appoggio per le navi, le caserme, le polveriere. La città si amplia dunque verso oriente, con la particolare specializzazione funzionale di questo settore, dotato di tutte le strutture e i servizi di una città indipendente, non sovrapposta ma affiancata a quella borghese. Al di là della piazza Umberto I, decorosamente sistemata con le palazzine e la sede del Comando Marina, termina la città borghese e inizia la città militare, con una netta distinzione che rappresenta uno dei tratti caratteristici della struttura urbana di La Maddalena. Un importante nucleo di abitazioni civili si sviluppa tra Cala Camicia e la Peticchia in località Moneta con palazzi a più piani destinati soprattutto agli operai civili addetti al cantiere navale. Accanto agli impianti della Marina Militare ed alle case operaie di Moneta legate all’attività del cantiere militare, si sviluppa inoltre un altro agglomerato di case detto Moneta Borghese, sorto intorno alle sparse case rurali degli inizi del ‘900, alle quali si aggiunsero progressivamente nuove abitazioni accompagnate dai primi esercizi commerciali. Nonostante questa vasta operazione urbanistica sia stata gestita quasi per intero dai vertici militari e dai funzionari dello Stato, l’istituzione della Colonia Penale Agricola e la nascita del quartiere della Moneta rivestono per il territorio maddalenino un interesse particolare, soprattutto se analizzati, confrontati e ricondotti all’interno dello stesso contesto storico, sociale e culturale nel quale, contemporaneamente, si svolsero analoghe esperienze, sia nel resto del territorio italiano che in ambito europeo e in molti casi anche a livello mondiale.

Giovanni Mulas