La legge delle chiudende
Con l’Editto delle Chiudende del 6 ottobre 1820, Vittorio Emanuele I, mettendo in atto un proponimento del suo predecessore Carlo Emanuele III, diede avvio, soprattutto dietro la spinta dei precorsi suggerimenti boginiani, ad una vasta riforma tesa a promuovere il rifiorimento dell’agricoltura in Sardegna. Scopo della legge, la cui attuazione fu regolamentata dalla Carta Reale del 14 novembre successivo, era quello di assegnare dei precisi confini ai terreni rendendo perfetta la proprietà individuale. A tal fine ogni possessore aveva la facoltà di recintare il proprio terreno con muro o siepe consolidandone la proprietà. Inoltre, sia i terreni comunali che quelli della corona potevano essere ripartiti fra gli agricoltori e ad essi venduti, dati in affitto o concessi in enfiteusi.
Le cose, tuttavia, non andarono esattamente secondo i proponimenti del Re e furono necessari numerosi successivi provvedimenti per l’abbattimento delle chiusure fatte illegalmente e per la ripartizione dei terreni agli agricoltori, fino a pervenire all’Editto di Carlo Alberto del 26 febbraio 1839, pubblicato con Pregone del viceré Montiglio del 15 marzo successivo, con il quale, dopo aver premesso che era “..Sovrana mente di consolidare in private mani la proprietà dei terreni, vera sorgente dell’industria che dee condurre al rifiorimento della Sarda agricoltura”, esponeva in dettaglio il Regolamento che, all’art. 18, stabiliva: “I terreni demaniali coltivabili rimarranno a disposizione del governo il quale si riserva di assegnarne quella quantità che crederà del caso, o in proprietà, od in dominio utile, e colle regole che saranno infra stabilite”.
Il Regolamento, inoltre, dopo aver sancito che i terreni concessi rimanevano esenti da tasse per i cinque anni successivi alla loro cessione, prorogabili a dieci anni se gli assegnatari avessero provveduto alla costruzione di case rurali, stabiliva all’art. 62, che “Coloro …che avranno partecipato o alla divisione dei terreni Comunali, o all’assegnazione di quelli demaniali, saranno tenuti a dissodarli, ed a coltivarli entro lo spazio di cinque anni dal giorno della divisione, o dell’assegnamento, sotto la pena della decadenza tanto dalla concessione quanto dall’esenzione del pagamento del canone”. Il successivo art. 63 prescriveva inoltre: “Sarà…vietato di vendere o cedere i medesimi terreni in pagamento pel corso di dieci anni”.
Nell’arcipelago maddalenino, sebbene la legge delle chiudende non abbia avuto vasta applicazione data la modesta superfice delle isole e la totale assenza di terreni in regime feudale, vi fu tuttavia chi, approfittando della confusione del momento, chiuse, tentando di farli propri, dei terreni di pertinenza del comune o del demanio destinati poi alla ripartizione. In particolare, Paolo Bertoleoni, figlio di Giuseppe, il capostipite della fantasiosa dinastia dei Re di Tavolara, aveva abusivamente recintato alcuni terreni comunali dando luogo ad una serie di controversie col governo che si erano concluse nel 1845 con il disconoscimento delle pretese da lui accampate e finalmente, con l’assegnazione dei lotti agli agricoltori maddalenini che ne avevano diritto e che non avevano potuto partecipare alla predente ripartizione del 1842 a causa della vicenda giudiziaria col Bertoleoni e di altre controversie insorte con alcuni occupanti abusivi.
Ma come ci informa una lettera della corte cagliaritana del 14 maggio 1845, diretta al consiglio comunitativo di La Maddalena, pubblicata da Renzo de Martino, i maddalenini si rivelarono agricoltori “poco solleciti” e, dopo aver a lungo aspirato al possesso di quei terreni ed aver dato luogo a costose controversie, li avevano lasciati pressocchè abbandonati rischiando la decadenza. Molti degli assegnatari, difatti, decaddero dalla concessione e molti altri, negli anni successivi al periodo di esenzione, non avendo pagato le tasse dovettero subire l’esproprio esattoriale con restituzione dei terreni non più al comune, ma all’erario. Molti di quei lotti, poi, essendo lo stato piemontese a corto di denaro, furono ceduti come “honesta missio” ad ufficiali andati in pensione. E così, dei ventidue lotti in cui fu ripartita l’isola di Santo Stefano, ben diciannove furono successivamente assegnati al colonnello Lodovico Frapolli, il quale non venne mai nell’isola e che in seguito, pare per un debito di gioco, li cedette nel 1864 al bresciano Federico Federici i cui eredi, a loro volta, nel 1891 li vendettero a Pasquale Serra “Guarrè” (nella foto) la cui famiglia ancora li possiede.
Nella sua lettera, il viceré De Launey, al quale era pervenuta notizia delle inadempienze degli agricoltori isolani, così esordisce: “Il mio disgusto non fu minore della mia sorpresa nell’apprendere dalle informative che mi furono all’uopo somministrate, che fino al giorno d’oggi nessuno abbia costà cominciato a coltivare la porzione di terreno che gli fu assegnata nel non ha guari eseguito riparto e nemmeno a cingerla secondo l’uso del paese.
Epperò la divisione delle terre che ora vuole lasciarsi senza frutto, è quella stessa che già da gran tempo fu oggetto delle calde istanze di codesto Consiglio Comunitativo e di codesti abitanti, e quella stessa che motivò le vive controversie del Corpo Consolare col Bertoleoni, perchè alla stessa non isfuggisse alcuna porzione di terreno, e quella stessa che diè origine a tante opposizioni, per non concedersi certuni lotti, onde non ne rimanessero privi gli aventi diritto poziore, e quella stessa infine che costò tante cure al Governo, e che fu occasione di spese tanto rilevanti”.
La reprimenda, nel proseguire con l’intimazione al consiglio comunitativo di ben vigilare e di impegnarsi, “…colla voce quindi e con l’esempio”, a che venissero rispettati gli obblighi incombenti agli assegnatari, concludeva con l’avvertimento che, perdurando lo stato di cose segnalato, si sarebbe pervenuti alla dichiarazione di decadenza dai benefici concessi.
“Reputo superfluo – scriveva De Launey – il prevenire le SS.VV. che il Governo si mostrerà inflessibile nel togliere a chiunque non li abbia resi a coltura nello spazio di cinque anni i lotti avuti in sorte, e nel concederli a chi, e nel modo che si crederà conveniente”.
L’episodio dimostra quanto a cuore avessero i sovrani piemontesi, fin dai tempi del Bogino, il rifiorimento dell’agricoltura in Sardegna, quale capillare azione di vigilanza esercitassero sulle concessioni fatte e, come vedremo, quali premi erano riservati agli agricoltori che si fossero particolarmente distinti. Difatti, con Carta Reale del 24 ottobre 1837, Carlo Alberto, nell’istituire una “Medaglia d’Onore” da conferirsi “…per li cultori delle belle arti, e promotori d’opere industriali e di pubblica utilità”. aveva dato preciso risalto al settore dell’agricoltura. Il decreto reale, reso noto in Sardegna dal conte Don Silvestro Lanzavecchia di Buri (un vicerè che si colloca fra Giuseppe Maria Montiglio e il conte Giacomo de Asarta, non citato dal Pintus), costuisce quasi un piccolo “Premio Nobel ante litteram”, da conferirsi, come recita lo stesso provvedimento:
“1) Agli scrittori di opere di comprovata utilità, qualunque sia il ramo della scienza cui appartengono;
2) Ai distinti Commessari Vaccinatori, ed ai distinti operatori Chiurgici;
3) ai distinti maestri di scuola normale;
4) Ai distinti agricoltori e promotori dell’agricoltura pratica, giusta migliori metodi, ed a chiunque avrà formato a sue spese un podere modello;
5) Agli inventori, scuopritori, perfezionatori od introduttori nel Regno di un utile ricavato, di un’arte o fabbrica, ed ogni altro nuovo ramo di industria;
6) Ai benefattori d’opera pie e d’istituzioni di pubblica utilità”.
Il viceré, nel rituale preambolo al suo Pregone, così presentava il provvedimento reale:
“Intenzionata S.M. di promuovere con ogni maniera d’incentivo tra questi suoi fortunatissimi sudditi l’utile cultura delle belle arti, e opere industriali, e di riconosciuta pubblica utilità, si è degnata con Carta Reale del 24 precorso ottobre d’istituire una medaglia d’onore in favore di coloro che vi si applicheranno, e vi si distingueranno, da conferirsi nei casi e modi contemplati e prescritti nella stessa Carta Reale e nelle istruzioni che pur degnossi di approvare”.
La medaglia, coniata in argento, come dice il sovrano all’art. 2 del regolamento, “…porterà da un lato la Nostra immagine in rilievo, e nell’esergo saranno incisi il nome e cognome del soggetto, cui verrà impartita, e l’oggetto pel quale ne sarà favorito”. Il conferimento doveva avvenire su segnalazione del viceré e la medaglia doveva essere consegnata nel corso di una manifestazione ufficiale durante la quale, “…l’atto di solenne collazione del succennato contrassegno d’onore verrà eseguito dal sindaco in apposita congrega consolare, previa una analoga allocuzione pronunciata dallo stesso sindaco, o chi sarà da lui deputato a tal uopo”.
Aspirare alla medaglia, per quanto riguardava gli agricoltori, non era cosa da poco; difatti, avvertiva il regolamento, “…l’avere migliorato le proprie possessioni o per mezzo di concimi o di sovresci, o per qualche altra savia variazione nella coltura delle terre, avvegnachè sia cosa per sé commendevole, non porge veruna ragione d’aspirare all’ottenimento della medaglia. Potrà bensì ambire cosiffatto favore:
a) Chi avrà dissodato o sgerbito o ridotto a buona coltura un suo tenimento incolto d’una capacità non meno di starelli (1) cento;
b) Chi avrà fatto un novello piantamento nelle sue proprietà di tre mila piante d’alto fusto coll’intento di aumentare il combustibile, o di rendere più salubre ed ossigenata l’aria, o per maggiore abbellimento del luogo cui sia per recar maggior commodo l’ombra di esse piante;
c) Chi avrà piantato ed innestato nei suoi poderi due mila e cinquecento piante da frutti, come sarebbero Olivi, Mamdorli, Noci, Nociuoli, Gelsi, ecc.;
d) Chi avrà fatto ne’ suoi poderi un regolare e produttivo piantamento di due mila alberi de’ meno comuni, o poco coltivati nel Regno, come sono la Carrubba, il Frassino da manna detto Olmeto (pianta indigena dell’Isola, cui altro non occorre che d’innestarla per renderla produttiva), il cotone arboreo, il riscolo (soda), ecc.;
e) Chi avrà formato nelle sue possessioni un regolare vivaio di siffatte piante che sia non minore di ottanta mila individui in perfetta prosperità, e di cui un ottavo sia già innestato, e tre altri ottavi abbiano la forza di tre anni;
f) Chi avrà per tre anni consecutivi coltivato con buon successo in terreni di sua spettanza d’una capacità non minore di starelli cinque la robbia (domestica) tintoria, lo zafferano, il guado, l’indaco; la coltivazione del cotone erbaceo dovrà essere estesa a starelli sessanta;
g) Chi avrà formato un podere modello in terreni di sua proprietà, e dell’estensione non minore di starelli cento, e ciò non solamente per propria specolazione, ma eziandio per rendere popolari i migliori metodi di coltivazione”.
Il lungo regolamento prosegue con l’elenco di altre motivazioni per le quali si poteva aspirare al conferimento della medaglia, ma ciò che più colpisce negli intendimenti dell’illuminato sovrano piemontese è l’insospettata, per quei tempi, sensibilità ecologica nel punto in cui vuole sia conferita la “Medaglia d’Onore” a chi abbia fatto un “piantamento” di alberi con l’intento “…di rendere più salubre ed ossigenata l’aria”, o “… per maggior abbellimento del luogo” , ovvero “…per recar maggior commodo l’ombra di esse piante”. Intendimenti quelli del sovrano che guardavano lontano e dai quali ci giunge un preciso messaggio: chi pianta alberi non farà in tempo a vederli cresciuti: li pianta per i propri figli. E ciò presuppone la coscienza di una continuità che noi abbiamo perduto; i grandi boschi sardi sono stati dilapidati alla fine dell’ottocento, poi non ne sono stati più piantati e di quelli che sono rimasti ai nostri figli lasceremo solo cenere.
Ma i provvedimenti del Re, anche stavolta, ebbero comunque scarso successo; i sardi furono sempre poco propensi all’agricoltura e la politica a suo tempo voluta da Carlo Emanuele e instaurata dal Bogino non fu certo proseguita dai loro successori. L’Angius, infatti, nella prima metà del secolo scorso ebbe a lamentare che molte attività agricole “…si sarebbero già da tempo radicate nell’isola con gran profitto delle finanze, se gli amministratori fossero stati, non dirò invidi della prosperità della Sardegna, quali furono accusati, ma più intelligenti dell’economia politica della quale erano profondamente ignoranti con poche eccezioni. Diciamo il vero, sebbene a molti debba dispiacere: il presente stato generale dell’isola, d’un isola favorita in ogni modo dalla natura, la quale con poche cure avrebbe prosperato, accusa e prova l’inettezza degli uomini che la governarono dal gabinetto del Re e l’inettezza maggiore de’ loro agenti, fatta eccezione del Bogino, e di pochi che in 130 anni furono mandati ad amministrarla”.
E che gli amministratori mandati nell’isola fossero stati “invidi della prosperità della Sardegna” è dimostrato proprio dal primo provvedimento emesso da Vittorio Amedeo III, succeduto a Carlo Emanuele nel 1773, il quale, scrive Satta Branca, “come primo atto soppresse il ministero per gli affari di Sardegna e congedò su due piedi il conte Bogino”.
A La Maddalena, come abbiamo visto dalla reprimenda del viceré diretta ai poco solleciti agricoltori isolani, le cose non andarono diversamente e, sebbene siano sopravvissute le vestigia di qualche meritevole intervento agricolo, possiamo supporre che nessun maddalenino, anche per le modeste estensioni terriere di cui disponeva, aspirò mai a quella medaglia. Forse l’unico agricoltore che l’avrebbe pienamente meritata, se non fosse sopravvenuta proprio grazie a lui l’Unità d’Italia, sarebbe stato Giuseppe Garibaldi che, oltre ad essere stato agricoltore sollecito per aver trasformato Caprera, “luogo deserto, arido, spazzato dai venti e incolto”, in una azienda agricola produttiva, fu l’iniziatore di quella forestazione grazie alla quale oggi l’Arcipelago, malgrado gli incendi, possiede una delle più verdi e belle isole del Mediterraneo.
(1) Lo starello era una misura lineare e di capacità. Lo starello cagliaritano, che corrispondeva al doppio di quello sassarere, equivaleva a 3937 mq. e a 50,50 litri.