La pesca con le nasse
Il “mestiere” delle nasse è stato a lungo appannaggio esclusivo dei Ponzesi, i primi ad adoperarlo a Maddalena. Meno costoso rispetto alle reti, per le quali occorreva acquistare molte più materie prime (cotone, piombo, sughero, tinta), si realizzavano con materiali facilmente reperibili quali giunchi, canna, mirto e solo il cotone (necessario per fissare i vari elementi) veniva acquistato. I giunchi, presenti ovunque presso le foci delle “vadine” e in terreni acquitrinosi venivano scelti, scartando quelli vuoti, nei mesi di giugno e luglio, divelti, privati del fiore (l’operazione, “a scapizzatura“, poteva essere fatta a mano o, più velocemente, con l’accetta) e messi a seccare sparsi, per 10 giorni circa, avendo cura di girarli spesso per farli bene asciugare. Le canne, tagliate a marzo, venivano spaccate in doghe larghe un dito, fatte seccare e smussate (private del “filo” tagliente con un coltello adatto). Il mirto, per le sue peculiari qualità di flessibilità e resistenza, veniva adoperato, per tutte le nasse normali, solo per le “trappe“, le parti iniziali, cioè, sulle quali si inseriva il vero corpo di giunchi o canne, ma costituiva l’elemento dominante per i grossi vivai delle aragoste, “i marruffi“, del diametro di cinque-sei metri, che, dovendo restare per 5-6 mesi a mare, richiedevano particolare resistenza. La durata normale delle nasse era 4-5 mesi, poiché i giunchi marciscono presto nell’acqua; il mirto, che durerebbero molto più a lungo, non ha però le caratteristiche di mimetizzazione del giunco e, dicono, respinge i pesci.
Tipi di nasse
Nasse per aragoste: larghezza 1 m. x 1,5 m. di altezza; fatte di giunco all’interno di ogni giro e di canne all’esterno di ogni giro, si adoperavano da maggio a settembre con esca di pesci salati, guaie (berta maggiore) e anche magroni (cormorani). Nasse per zerri: larghezza 1,5/1,80 x 2,0 di altezza; realizzate solo coi giunchi, erano usate nel periodo d'”u muntoni”, calate senza esca nei luoghi in cui i zerri si recavano per l’accoppiamento.
Nasse per murene (morene) e gronchi (gronghi): larghezza 50 cm. x 1 metro di altezza, in giunco, adoperate nei mesi estivi con esca di zerri e boghe. Nasse per tanute: larghezza 1 m. x 1,5 di altezza, si calavano nei mesi di novembre, dicembre e gennaio con esca di calamari, polpi e seppie. Le nasse della stagione, molte decine, venivano portate nei mesi pesca incastrate le une nelle altre e calate dopo aver cucito sul posto la gamba al corpo. Una volta a mare venivano salpate e ributtate giù, tutt’al più spostate, ma non ritirate definitivamente. Erano trattenute al fondo da una mazzera da 20 Kg. legata ad una cima da 60 braccia. A segnalarle bastavano quattro pezzi di sughero a un braccio l’uno dall’altro.
Le nasse e i “punzesi”.
Si calavano la sera e si issavano il mattino all’alba. Tirandole dai fondali era uno spettacolo unico vedere i saraghi agitarsi nelle gabbie di giunchi. La densità del bagliore argenteo che scorgevamo sotto il pelo dell’acqua ci diceva ancor prima che le nasse emergessero di quanto fosse grosso il bottino.
Una volta a bordo i pesci continuavano a dimenarsi sul pagliolo ritmando con il movimento della coda un tam-tam cadenzato simile ai colpi del mazzuolo sul tamburo. Una danza tribale cui ponevamo fine spostando i pesci nei secchi colmi d’acqua.
Parliamo della pesca con le nasse, una pesca molto diffusa fino agli anni 70.
C’erano le nasse per i saraghi ma anche quelle per le aragoste, le murene, i gronchi e quelle per le occhiate.
Cambiavano le dimensioni ma la tecnica per costruirle era sempre la stessa. Quando si andava a calarle e la barca non era molto grande non si poteva essere in tanti perché buona parte della prua e della poppa era occupata dalle nasse.
La nassa è uno strumento da pesca antichissimo.
Secondo quanto riporta A. Sanez Reguart nel suo “Dicionario historico de los artes de la pesca nacional”, pare sia nata casualmente osservando i pesci che accorrevano in prossimità delle sponde dei fiumi quando le donne vi si recavano per lavare le stoviglie. I rimasugli di cibo facevano da richiamo e l’osservazione da parte dell’uomo di questo andazzo lo portò a pensare di poter imprigionare i pesci calando in acqua dei cesti.
Ovviamente l’arguzia e l’intelligenza hanno fatto il resto.
Strumento da pesca notissimo a Ponza, agli inizi del secolo scorso non c’era pescatore ponzese che non sapesse realizzarle. Anzi sono stati proprio i pescatori della nostra isola a diffondere questa strumento da pesca in Sardegna, in Corsica, all’isola d’Elba, alla Galite, perfino sulle coste della Jugoslavia, ora Croazia.
Racconta un vecchio pescatore ponzese, che anni fa, quando lavorava a Latina, aveva una cliente di origine slava (era dell’isola di Lagosta) che si chiamava Konte Dragica. Nome curioso e cognome un po’ familiare visto che mi ricordava i tantissimi “Conte” di Ponza. Sufficiente motivo per parlarle, un giorno, di Ponza e di quanto quel cognome fosse simile a quello così comune sull’isola.
E grande fu lo stupore e, conseguentemente, reciproca la gioia nello scoprire che avevamo origini comuni.
Mi raccontò infatti la signora Dragica che il suo bisnonno proveniva da Ponza. Di cognome faceva Conte, Conte con la “C”, consonante modificatasi nel corso del tempo in “K” probabilmente per un’esigenza legata alla lingua del posto o per un errore di trascrizione. Ma la cosa bella della chiacchierata fu sentirmi dire che di mestiere faceva il pescatore e che aveva insegnato ai pescatori di Lagosta a prendere le aragoste con dei curiosi cesti a forma di campane (così li chiamò) da lui stesso costruiti. Erano le nasse e quel racconto la conferma di quanto internazionali e “globali anzitempo” siano stati i nostri pescatori.
Ricorda Francesco Vittiello in uno scritto, “Omaggio ai primi pescatori ponzesi arrivati a La Maddalena”, appendice alla “Storia della Pesca” di Antonio Ciotta, i suoi antenati.
Scrive Francesco che il primo a toccare le coste sarde fu il suo bisnonno Angelo Vitiello nato nel 1854.
Lo stesso fecero, agli inizi del ‘900, suo nonno Aniello e suo zio Gaetano che a La Maddalena chiamavano ‘u punzesu“.
Francesco così parla delle nasse: “La pesca con la nassa era la più praticata dai pescatori della mia famiglia e fu per un lungo tempo un loro esclusivo appannaggio. Tale tipo di pesca, meno costoso rispetto alle reti e assolutamente rispettoso dell’ambiente, si realizzava costruendo attrezzi che utilizzavano materiali facilmente reperibili: giunchi, canne, rametti di mirto ecc…. Le nasse, incastrate l’una nell’altra, venivano portate nelle zone di pesca, raggiunte faticosamente remando o al massimo con l’ausilio di una vela latina…e, una volta a mare, venivano salpate o tutt’al più spostate ma non ritirate definitivamente. Erano trattenute sul fondo da una pietra (detta “mazzera”) del peso di 15/20 chili legata ad una corda da 60 braccia e segnalata a galla da pezzi di sughero…”.
Col passare degli anni la pesca si è evoluta, le nasse non sono più utilizzate come una volta e chi vi ricorre usa spesso nasse fatte in maniera diversa, dove il ferro e la plastica hanno preso il posto dei giunchi, delle canne e dei rametti di mirto.
Parzialmente tratto da “Il mondo della pesca” – Co.Ri.S.Ma – Giovanna Sotgiu
- Il mondo della pesca – I parte
- Il mondo della pesca – II parte
- Il mondo della pesca – III parte
- Il mondo della pesca – IV parte
- La pesca con le reti
- La pesca delle aragoste
- La pesca con le nasse
- La pesca con i palamiti
- Erba corallina
- Foca monaca – (Monachus Monachus)
- Tartaruga di mare – Cuppulata
- Pinna Nobilis – Gnacchera
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