Co.Ri.S.MaIl mondo della pescaLa Maddalena Antica

La pesca con i palamiti

I palamiti, o palangresi, si compongono essenzialmente di un galleggiante al quale è legata una corda di canapa (solo recentemente sostituita dal nylon) chiamata “trave”, lunga 300 metri, del peso complessivo di circa 8 Kg., sulla quale, ogni 20-25 metri, viene inserito un bracciolo con un amo.

A La Maddalena tali strumenti vengono definiti diversamente secondo le dimensioni e quindi l’uso, dividendosi in:
– “coffoni”, adatti per pescecani, hanno un “trave” particolarmente resistente (da 8mm.), i braccioli di 3 metri di lunghezza con 20 cm. di ferro al quale è attaccato l’amo molto grosso; l’esca abituale è il gronco, preferibile perché più resistente nell’acqua;
– “coffi”, per dentici, cernie, gronchi, morene, hanno “trave” da 3 mm. e braccioli da 2 m.; si innescano con polpo bollito, zerri freschi;
– “mezzi ami”, per tanute, paggelli, prai, più sottili delle coffe, vengono innescati con calamari o seppie;
– “catalani”, ancor più leggeri, per parchette, “sciarrai”, orate, sono innescati con calamari, seppie, oloturie;

In tempi più recenti i palamiti hanno subito delle trasformazioni e oggi son usati con molte varianti: per esempio col trave ondeggiante o a fondo e con l’esca verso la superfice. Un tipo molto particolare di pesca con i “coffoni” era quella ai pescecani, oggi in disuso, ma effettuata nei nostri mari fino al 1965 dalla famiglia Salese, proveniente da Cetara, e in particolare da Ignazio Salese “Gnazù”, padrone di un gozzo da 6,5 metri. I “canusi”, così venivano chiamati i pescecani, appartenenti alla famiglia Carcharhinidae (Carcharhinus plumbeus) erano frequentatori dei nostri mari, a profondità variabili fra 25 e 50 metri, facilmente reperibili nelle zone a nord di Maddalena (Barrettini, Arpaia (1), anche Cala Lunga): di colore grigio intenso, avevano pelle durissima, tanto che per issarli a bordo era indispensabile agganciarli dalla bocca, risultando ogni altra parte del corpo praticamente impenetrabile. Per ucciderli occorreva assestare un colpo preciso in un punto determinato della testa che la pratica insegnava a riconoscere. Capitava a volte che le femmine, tolte dall’acqua, partorissero sulla barca i loro numerosi piccoli prima di morire (eccezionalmente se ne contarono dodici). I pescatori privavano i canusi del ventrame, controllandolo con una certa curiosità per rendersi conto delle loro preferenze alimentari, data la paura, sempre presente, che essi potessero essere pericolosi per l’uomo; ma sono certi che la loro alimentazione fosse basata solo su pesci e molluschi. Consegnati ai magazzini, i “canusi” venivano privati della testa e inviati ai mercati del continente, dove, erano probabilmente venduti come palombi o pescespada. In effetti le carni, ad alto contenuto proteico, potevano risultare di sapore simile. Fra gli altri squaliformi abbastanza comuni erano anche il pesce martello (Sphyrna Zygaena) e lo squadro (Squatina Squatina); più rari il pesce vacca, la verdesca (Prionace Glauca) e il pesce volpe (Alopias Vulpinus).

Parzialmente tratto da “Il mondo della pesca” – Co.Ri.S.Ma – Giovanna Sotgiu

  1. Il mondo della pesca – I parte
  2. Il mondo della pesca – II parte
  3. Il mondo della pesca – III parte
  4. Il mondo della pesca – IV parte
  5. La pesca con le reti
  6. La pesca delle aragoste
  7. La pesca con le nasse
  8. La pesca con i palamiti
  9. Erba corallina
  10. Foca monaca – (Monachus Monachus)
  11. Tartaruga di mare – Cuppulata
  12. Pinna Nobilis – Gnacchera
  13. Delfino – U fironu
  14. Le spugne
  15. Le razze
  16. La barca
  17. Provenienze dei pescatori maddalenini
  1. Arpaia è il nome con cui viene chiamata la punta rocciosa a nord di Portu Longu, nell’isola di La Maddalena. Come ci spiega Antonio Conti, studioso di tradizioni popolari e storia locale maddalenina, spesso sui cocuzzoli si trovano quei luoghi il cui nome fa riferimento a rapaci che volano in alto, come il falco o lo sparviero. Quindi è davvero molto probabile che questa denominazione sia insorta in relazione alla presenza di un rapace. A conferma Conti ipotizza che la parola derivi dalla lingua toscana perché “arpaia” all’isola d’Elba indica il “falco reale”. Si potrebbe ipotizzare anche un legame con il còrso arpale, alpale che ha il significato di “balza, rupe” e con i nomi locali còrsi alpale, rapale, arpagna.