La vera storia di Squarciò
“La vera storia di mio padre, Pasqualino Rivieccio detto Squarciò, ve la racconto io. Quella del film è romanzata”. Nuccia Rivieccio ci riceve nella sua casa accogliente. Nelle pareti diverse foto della sua famiglia, figli e nipoti, ma in particolare del padre. Il film al quale allude Nuccia è quello prodotto negli anni Sessanta da Gillo Pontecorvo, dal titolo ‘La grande strada azzurra’, tratto dal romanzo e con la sceneggiatura di Franco Solinas, e l’interpretazione del grande Yves Montand e dalla brava attrice italiana Alida Valli. Un po’ diverso dalla storia di suo padre, per esigenze cinematografiche. Storia che Nuccia ci racconta orgogliosa. “Squarciò era nato a La Maddalena insieme ai suoi fratelli e sorelle, una famiglia numerosa la sua di origine, come numerosa è stata la nostra. Mio nonno, Giovanni Rivieccio, era di Ponza e lo chiamavano Giovannuzzu. Venne a La Maddalena da giovanissimo, per fare il servizio militare da marinaio. Qui ha conosciuto mia nonna, Giuseppina D’Oriano. Dal loro matrimonio sono nati sette figli: Maria, Mina, Giuseppe, Umberto, Nello, Assunta e Pasqualino, mio padre. Com’era allora nella tradizione, prosegue Nuccia “i miei zii avevano i nomi dei loro nonni e parenti. Mia mamma invece era i Tortolì, si chiamava Maria Bonaria Mazza, aveva quattro fratelli, Assunta, Francesco, Gianni e Lazzarino, gli ultimi due palombari. Gianni poi andò a vivere in Sicilia. Mio zio Lazzarino Mazza, il palombaro, a Maddalena lo hanno conosciuto tutti”. La mamma Maria Bonaria col padre Pasqualino ebbero 12 figli. “Io sono la sesta, sono nata il giorno di Santo Stefano, il 26 dicembre, subito dopo Natale. Per questo mi hanno messo il nome Stefania”. Da cui Stefanuccia – Nuccia. “Era una belle giornata – prosegue – ed erano andati a mangiare ricci a Santo Stefano, alla spiaggia del Pesce. Mia mamma aveva preparato i ravioli, doveva portarli all’ora di pranzo, ma le presero le doglie”. A battezzarla furono Archimede Palamidesi e la moglie Antonietta, di origine corsa. La famiglia Rivieccio abita a Bassa Marina, l’attuale via Amendola. “Il fatto è – racconta Nuccia – che quando scoppiò la guerra e ci furono i bombardamenti, una bomba distrusse la nostra casa. Noi per fortuna non c’eravamo perché sfollati a Cossoine. Abbiamo perso tutto, quando siamo rientrati dormivamo per terra. Mio padre era lì, a Cossoine, da qualche tempo lavorava in un caseificio. Vi domanderete perché Squarciò, pescatore, si trovasse a Cossoine” domanda la donna. “Era lì perché confinato dal Fascismo, perché perseguitato per motivi politici. Squarciò era antifascista. Lui aveva trasportato in Corsica alcune persone perseguitate dal fascismo. A Cossoine, da confinato, lo aveva in custodia il podestà del paese, che aveva circa duecento abitanti. Il podestà aveva un caseificio e lo aveva messo a lavorare lì. Quando siamo tornati a Maddalena” ricorda Nuccia, “abbiamo dovuto iniziare da zero, da profughi. C’era da sfamare un’intera famiglia, c’era da ricominciare. E cominciò a pescare con le bombe. Venne aiutato da qualche militare che gli vendeva, trafugata, miccia e polvere. Riuscì a rifarsi la barca che pagò a rate, munita di motore, un Ansaldo”.
“Franco Solinas, lo sceneggiatore, da noi era di casa, lo conoscevamo bene. Mio babbo Squarciò lo ha portato tante volte con la barca nelle isole“. Lui è venuto più volte a casa mia. Eravamo quasi coetanei. ‘O Nù mi ha detto dopo che è uscito il film, ‘Sai cusa ti digu? Alumancu lasciu u numignulu di ricordu, di Squarciò (“O Nuccia, sai cosa ti dico? In questo modo lascio comunque il soprannome di Squarciò). Io gli ho detto: Ma perché non sei venuto prima a casa, facevamo le cose perbenino, ricostruivamo meglio tutta la storia. Mi ha risposto: ‘Pontecorvo non mi avrebbe accettato il film se non era romanzato’. Queste sono le parole di Franco Solinas, ricorda la figlia di Squarciò, Nuccia Rivieccio, la quale ci tiene, e giustamente, a ricordare il carattere, il grande cuore di mio padre, la sua generosità”.
In famiglia, 12 figli, ospitarono anche due ragazzi, un maschio e una femmina, per molti anni. “Quando eravamo a Cossoine, mio babbo Squarciò da confinato e noi da sfollati, vennero bombardati dagli aerei anche i paesi di Pozzomaggiore e Giave. Mio padre in quel momento era al caseificio e caricavano il formaggio sul treno. Quando cominciano ad arrivare le bombe lui era dentro il treno. Diede una spallata al portellone e pur ferendosi, riuscì a scappare. Finì in campagna, in mezzo al fieno. Ad un certo punto ha sentito il pianto di un neonato. Era una bambina abbandonata. Lui l’ha presa in braccio e a bombardamento finito l’ha portata a casa. L’abbiamo tenuta per 13 mesi. Poi sono venuti i Carabinieri, che l’hanno portata via per restituirla alla madre, che era una profuga di Cagliari”.
A Maddalena per l’affondamento di un bastimento e l’aiuto che ha dato per salvare i naufraghi qualche anno dopo ha avuto una medaglia d’argento, racconta Nuccia. “Era molto religioso. C’è una foto che ritrae mio babbo portando la Santissima Trìnita. Partecipava attivamente alle feste di Santa Maria Maddalena e alla processione a mare, la sua barca piena di lumini di carta a colori. Eravamo sempre presenti alla festa della Madonnetta e a quella della Trìnita. Quanti Zimini … Era festaiolo, di cuore, un ballerino, dove c’era l’allegria!” ricorda con commozione Nuccia. “Quando don Capula doveva andare a Castelsardo si faceva portare in barca da lui, ed era lui, mio babbo, che portava la madre superiora a Tegge, in barca alla Colonia che facevano le suore”. Lui, ricorda ancora la figlia, “voleva un bene dell’anima a mia mamma e a noi figli. Quando il motore della barca tardava a partire gli diceva: “Ajò, mettati in motu, cammina che in casa ghi so i ziteddhi chi aspettani u pani”. (Dai, mettiti in moto, che a casa ci sono i bambini che aspettano da mangiare). “Prima di andare a dormire non ci faceva mancare il bacio della buona notte, e ci raccomandava: fà a preghiera, chi u to babbu dumani devi andà a piscà”.
Nuccia Rivieccio, ritorna sul tragico avvenimento dell’affondamento di un bastimento carico di generi alimentari diretto a La Maddalena. In quell’occasione il padre tra gli altri salvò un ragazzo di 16 anni, di Castellamare di Stabia, del quale Nuccia oggi ricorda solo il cognome, Pertacca. Per il fatto Squarciò ebbe, come già detto, la medaglia d’argento. Col ragazzo la famiglia Rivieccio rimase in contatto tanto che quando questo dopo qualche anno morì per cause che Nuccia non ricorda, Squarciò “andò al suo funerale a Castellamare di Stabia”. Da Bassa Marina dove abitava, come detto, la numerosa famiglia Rivieccio, al rientro dello sfollamento, era andata ad abitare in un vicolo di via Italia con finestre su via XX Settembre, un’abitazione a due piani. Poi si trasferirono in via Domenico Millelire, nella casa che tuttora reca la targa ‘Casa Squarciò’. E fu in quella casa che quella famiglia, numerosa ma fino ad allora gioiosa e generosa, visse il grande dramma della more del padre.
“Ora vi racconto la vera storia della disgrazia. Mio padre era stato punto da una tracina ed era fasciato alla mano. Dottor Chirico gli aveva fatto un’iniezione per il dolore e non sarebbe dovuto andare a pescare. Quel giorno però Zio Cosimino Carta, un uomo che andava a pescare con lui, alle quattro del mattino bussò alla porta di casa. Babbo era a letto, ancora dolorante, ed era incerto se alzarsi o meno. Sono stata io ad apire la porta” Cosimino disse a Nuccia: “Dighi a u to babbu chi è tempu bonu!”. Lei glielo riferì. “Agghju capitu” rispose dal letto Squarciò. E aggiunse in tono scherzoso. “ZI Cosimì stamani mi seti rumpendi l’anima” E l’altro: “Cusa è, nun ti voi arzà, sei au cardu cò a to muddheri?”. Era un modo di dire, precisa Nuccia, perché eravamo nel mese di giugno. Era infatti la mattina del 24 giugno del 1951. Da quella casa di via Domenico Millelire partirono per la pesca Squarciò, zì Cosimino, Giuseppe (figlio di Squarciò) e Gavino Pittalis, un ragazzo che viveva con la famiglia Rivieccio. Di loro i primi due un tornarono vivi. Da Cala Gavetta, dove lo ‘Spalviero’ era ormeggiato si diressero verso le isole. “Non avevano però il ‘materiale’ per pescare. Lo avrebbero fatto con i palamiti e con le nasse, come erano soliti fare, tranne quando avevano altro”, racconta Nuccia. Accadde però che a Razzoli, nei pressi di una spiaggia, trovarono un ‘bossolo’ tedesco. Zì Cosimino, racconta Nuccia disse: “Eppuri da qui passemu sempri, chissà da undi è sciurtitu”. E Squarciò rispose scherzosamente: “Sarà statu quarchi bastimentu di passagghjiu chi l’ha ghjttatu”. Rispose l’altro: “Dà chi lu aru ghjè, ci piglemu a pulvara”. Questo dialogo lo riferì a Nuccia il fratello Giuseppe, che aveva assistito alle scena spostato di qualche metro più indietro. A quel punto racconta la donna, “Zì Cosimino ha preso il bossolo, lo ha messo tra le gambe ed ha iniziato ad aprirlo. A fianco c’era mio babbo, mio fratello Giuseppe, era dietro, Gavino nella barca. Zì Cosimino non riusciva ad aprirlo. Stava albeggiando. Poi, improvvisa, ci fu l’esplosione”. Qualcuno ebbe il tempo di dire: “Madonna perdonaci!”.
“Nell’esplosione mio babbo e Zì Cosimino sono rimasti dilaniati”. Lo ricorda commossa per il dolore rivissuto. “Gavino era in barca e non è rimasto ferito, ha visto mio babbo e l’altro che erano morti. Gavino ha composto i due corpi. Mio fratello Giuseppe, che era poco distante, era stato sbalzato all’indietro, era tutto insanguinato e imbambolato. Gavino l’ha aiutato a salire sulla barca e l’ha sdraiato sul fondo. La barca è rientrata. Tutti conoscevano il rumore della barca di Squarciò. Gente di Padule, come ha visto la barca rientrare presto, portata da quel ragazzo, ha capito che qualcosa di grave doveva essere successo. La barca è passata davanti a Cala Gavetta e punto dritta per l’Ospedale Militare. Subito si è sparsa la voce. A casa – prosegue Nuccia – sono venuti ad avvertirci alle sette del mattino. Chi è venuto? Don Capula. Nel vedercelo piombare a casa a quell’ora tutti abbiamo intuito che doveva essere accaduto qualcosa di grave. Don Capula ha fatto sedere mia mamma che si era agitata, aveva già capito cosa era successo. E lì c’è stata la tragedia, la disperazione di mia mamma e di noi figli, bambini e ragazzi”. I corpi di Squarciò e Cosimino, rimasti a Razzoli, dopo il sopralluogo per le indagini ei Carabinieri furono recuperati da una zattera della Marina Militare e portati a Maddalena. Ai funerali la chiesa non bastò. “Vennero anche molte persone da Palau” ricorda Nuccia. Nel registro del Civico Cimitero è trascritto che entrambi morirono nell’isola di Razzoli il 24 giugno del 1951. “Causa della morte, esplosione ordigno bellico per pesca di frodo”. Cosimo Carta, nativo di Giave, aveva 53 anni. Pasquale Rivieccio detto Squarciò, nato a La Maddalena, di anni ne aveva 47.
“La polvere e la miccia veniva trafugata dai depositi della Marina”. C’era evidentemente chi gliela forniva. “Loro andavano a prendere le scatolette di latta vuote, i barattolini di conserva, li recuperavano nell’orto di Leopoldo perché l’allora c’era la discarica comunale, i carretti della spazzatura allora venivano svuotati lì. Loro poi li riempivano con la polvere e sistemavano la miccia”, ricorda Nuccia. Pescare “a bomba” era all’epoca piuttosto usuale, sebbene vietato ma all’epoca era piuttosto diffuso … Squarciò e Carta non furono gli unici pescatori in quegli anni a rimetterci la vita. Altri ci rimisero braccia, gambe, occhi e anche la libertà. Qualcuno finì in prigione ai Tozzi o alla Rotonda di Tempio, altri nelle durissime galere della Corsica. Ci fu infatti chi si spinse nelle acque francesi e la Gendarmeria non scherzava affatto.
“La parete di roccia era tutta annerita, a causa dello scoppio. I corpi erano riversi, devastati dalla bomba”. Ricorda così la raccapricciante scena, un parente di Squarciò, giunto sul luogo della tragedia qualche ora dopo. Avevano visto lo Spalviero passare, pilotato da Gavino Pittalis, con a bordo solo lui, e appresa la triste notizia si erano recati a Razzoli. Avevano perlustrato diverse cale fino a che giunti ad un passetto, dal quale poteva passare solo una barca. Lì di lato, nascosti dalle rocce, c’erano i due corpi. Nel frattempo erano sopraggiunti i Carabinieri che piantonarono per alcune ore i due cadaveri fino all’arrivo del pretore. Poi i due corpi furono trasportati nell’isola di Spargi e adagiati sulla banchina per una ricognizione medica, e successivamente furono portati a casa.
Giuseppe, figlio di Squarciò, rimasto ferito dallo scoppio era stato ricoverato all’Ospedale Militare, nel reparto riservato ai civili. Era ferito gravemente e fu sottoposto ad alcuni interventi. Oltre ad alcuni squarci aveva numerose schegge, non tutte, probabilmente estratte. Aveva 17 anni e non sopravvisse per molto. Morì il 14 settembre successivo, meno di tre mesi dopo l’incidente. “Per aver bevuto una gassosa ghiacciata”, ricorda la sorella Nuccia, ma il dubbio è che il fatto sia intervenuto su un fisico debilitato e duramente provato dalle ferite. “Dopo la tragedia di mio padre siamo stati abbandonati da tutti!”, ricorda con dolore e amarezza Nuccia. Non avevamo mezzi di sostentamento e a La Maddalena in quegli anni del dopoguerra c’erano crisi, miseria, disoccupazione, licenziamenti ed emigrazione. “Mia madre è dovuta andare via da Maddalena, a Lecce da mia sorella grande. La famiglia si è così sparpagliata. Le mie sorelle più piccole sono finite all’Istituto San Vincenzo. I miei fratelli a lavorare in Continente e all’estero. Io ero fidanzata con Lino Ugazzi, avevo 14 anni. Con lui ci siamo sposati qualche anno dopo. Se mio fratello Giuseppe fosse sopravvissuto forse le cose sarebbero andate diversamente. Sarebbe stato lui il sostituto di Squarciò, ne aveva la forza e il carattere. Se fosse vissuto lui probabilmente la famiglia non avrebbe sofferto quello che ha dovuto soffrire e non si sarebbe smembrata. La barca, lo Spalviero, è stata venduta. E’ tuttora esistente, a Bonifacio. E’ stata una fatalità” dice ancora Nuccia: “Se quella mattina fosse rimasto a letto sarebbe passata, quella fatalità! In tutte le cose c’è un destino, mio babbo è stato sfortunato.
Parzialmente tratto dal settimanale maddalenino Il Vento del 2011 a da una serie di articoli dello scrittore Claudio Ronchi. (Foto in alto di Fabio Presutti)
Sono commosso da quello che è scritto. Io sono un nipote di Squarciò. Figlio di Elena una delle figlie di Pasquale e Bonaria. Rimango esterrefatto perché questa splendida storia di questo splendido personaggio non sia ricordato con la giusta onorificenza. La sua bontà e l’amore per la famiglia sono oggi importanti per un’era difficile, di cui in questa società so vive senza valori.
Fu un grande uomo ,amato da tutti ,io sono uno dei nipoti ,figlio di Pina Rivieccio la primogenita della sua famiglia, ed ho avuto il nome di Giuseppe, in ricordo dello zio prematuramente deceduto per causa di quel brutto incidente. Grazie per aver condiviso la storia di Squarcio’
Vive nei nostri cuori, grazie a zia Nuccia per la chiarezza del suo racconto dei fatti. Oggi siete tutti in cielo
Io ho nel tempo mantenuto il soprannome di squarcio’ e ne sono orgoglioso .I miei amici d’infanzia ancora oggi che ho 60 anni continuano a chiamarmi così !!! Mi chiamo Giuseppe Rivieccio e sono figlio di Giovanni a sua volta figlio di Giuseppe fratello di Pasqualino … Fiero e orgoglioso delle mie origini
Anch’io lo uso ma ho tolto l’accento x il rispetto che porto al nonno, io sono cugino di tuo padre …sono il figlio di Pina la sorella maggiore di tuo nonno, ora loro sono tutti insieme… sono giuseppe massari ho piacere di aver fatto la tua conoscenza
Ho risposto al tuo commento, spero lo leggerai,io sono Giuseppe Massari figlio di Pina Rivieccio sorella maggiore di Giovanni, quindi cugino da parte di tuo padre, mi trovi su fb con il mio nome e su istagram con il nome squrcio senza accento..piacere ancora di averi conosciuto.