La vita difficile degli scalpellini
La malattia più frequentemente diffusa fra gli scalpellini era la silicosi, determinata dalla inalazione continua della sottile polvere di granito: quindi più minacciosa negli ambienti di lavoro chiusi, dove essa formava quasi una nebbiolina ben visibile, sospesa nell’aria, ancora più pericolosa se a provocarla erano i macchinari che la facevano schizzare a forte pressione e in grande quantità; la sola prevenzione era costituita della mascherina che però era giudicata dagli operai ingombrante perchè rendeva più difficile la respirazione. E così, di fronte a una malattia infida perché solo col tempo manifestava i suoi effetti deleteri, gli scalpellini locali tendevano a minimizzarne la pericolosità dicendo che, lavorando all’aperto, il vento della Maddalena manteneva puliti i polmoni e l’aria e così nessuno pareva preoccuparsene.
Altra cosa erano gli incidenti i cui effetti erano immediati e, anche se spesso non gravi, comportavano dolore, qualche volta un intervento chirurgico, sempre la sospensione del lavoro.
Quelli leggeri erano frequenti e interessavano, per gli scalpellini, soprattutto gli occhi (per qualche scheggia sbalzata dal masso in fase di lavorazione) e le dita (pestate dal mazzuolo); per i manovali ancora le dita delle mani (schiacciate fra un pezzo e l’altro) o i piedi (che potevano finire sotto i massi spostati) con un periodo medio di convalescenza di 7 giorni. A volte però gli incidenti erano ben più gravi e comportavano l’abbandono del lavoro per lunghi periodi e, come abbiamo visto, l’Assicurazione faceva di tutto per scaricare il problema creando situazioni di vita difficili agli operai e alle loro famiglie, con rimborsi stentati, che arrivavano sempre in ritardo e, qualche volta, venivano negati con appigli legali artificiosi. In tali casi Attilio Grondona prima e suo figlio Nanni poi denotarono una grande umanità, col conforto di un interessamento personale verso l’ammalato, o di una lettera per chi stava lontano e spesso con la disponibilità ad aiutare economicamente chi era in stato di necessità.
Cito alcuni di questi casi (dei quali si trova traccia nei documenti dell’Archivio Grondona e nella memoria dei testimoni) anche per mostrare le condizioni di vita miserevoli di quei tempi e le scarse garanzie per chi subiva un incidente:
-6 febbraio1906. Giovanni Rossi ha avuto un incidente agli occhi, è a Milano in osservazione dall’oculista: non ha ancora ricevuto niente dalla compagnia di assicurazione, solo soldi da Grondona prima di partire. Prega il padrone perché assuma al suo posto il padre, disponibile a trasferirsi in cava nel giro di pochi giorni;
-14 settembre 1909. Giulio Cecchini, uno dei primi scalpellini venuti in cava come “cottimista individuale” nel 1901, scriveva da Sambuca Pistoiese: era malridotto dalla malattia, dalla fame, dal freddo e chiedeva aiuto, almeno 150 lire, per comprare un organetto per potersi guadagnare da vivere andando in posti più caldi;
-Pirro Camici aveva riportato una frattura al braccio; “non avendo alcun mezzo per poter vivere per i primi giorni dopo le dimissioni dall’ospedale ed avendo la sua vecchia genitrice ottantaduenne ed un fratello demente, si rivolge alla generosità della S. V. e dei compagni di lavoro acciocchè vogliano in qualche modo e per quanto possono aiutarlo per i primi giorni”;
-7 ottobre 1911. Spostando dei massi, Francesco Rugiu riportava una distorsione lombo-sacrale non riconosciuta dall’assicurazione perché “non conseguente a causa violenta”, ovvero non provocata dal contatto diretto del masso sul corpo; Grondona intervenne prima con aiuti personali, poi con una liquidazione che riuscì a recuperare solo a distanza di un anno dall’assicurazione, grazie all’intervento dell’avvocato Manini.
Credo che Nanni Grondona avesse ereditato dal babbo la sua umanità semplice e discreta che lo spingeva a prender parte alle difficoltà che affliggevano i suoi operai. Fra i tanti esempi disponibili cito la risposta scritta allo scalpellino Domenico Fresu, emigrato all’Elba in cerca di lavoro, che desiderava tornare alla Maddalena: “Caro Domenico…Per noi qui il lavoro è zero; non abbiamo da fare neppure una scaglia e chissà quindi quando potremo riprendere a lavorare, sarei contentissimo avere qualcosa da fare per telegrafarti immediatamente di venire in giù insieme a Salvatore e Giovannino, ma in queste condizioni non è possibile. Cerca quindi di fare il possibile almeno per il momento, di sistemarti ove sei, anche comprendo con gran sacrificio, se Dio vorrà e principalmente se gli uomini un giorno si accorgeranno che anche noi abbiamo diritto alla vita le cose potranno cambiare. Speravo che all’Elba vi foste potuti sistemare bene, al contrario mi accorgo che non è così. Se vi sarà qualcosa da fare qui, non dubitare che… sarai fra i primi ad essere avvertito per telegrafo. Saluta tutti quelli di Maddalena che sono con voi e cerca unitamente agli altri di passare alla meno peggio questo brutto periodo. Io vi sono sempre vicino e penso al sacrificio che fate distanti da casa; cercate di stare tranquilli e di non pensare ad altro che tirarvi su, se tu dovessi aver necessità di qualcosa scrivimi che cercherò nel migliore dei modi di venirti incontro. Saluta tutti i maddalenini e tu unitamente a Salvatore e Giovanni abbiatevi una stretta di mano dal vostro af/mo”.
Quando, nei primi anni trenta, i segnali della parabola discendente si fecero sentire, a Cala Francese e a Santo Stefano iniziarono per i lavoratori anni di incertezze e fluttuazioni: la diminuzione progressiva del salario prima, i licenziamenti più tardi.
I salari dei lavoratori erano più alti rispetto a quelli di altre località: alla Maddalena tagliatori e scalpellini di prima e seconda categoria percepivano L. 2,90 all’ora mentre all’Elba sono pagati 1,90, al Verbano, Cusio Ossola 2,50”.
Inoltre, in mancanza di commesse per pietra da taglio, gli scalpellini fatturanti (di prima, seconda e terza qualifica) venivano impiegati tutti, senza distinzione, nel lavoro di routine per approntare tacchi per pavimentazione: ciò comportava un declassamento del loro lavoro al quale le imprese intendevano far corrispondere un minore salario. Poiché, in quest’ultimo caso, il responsabile dell’Ufficio di collocamento della Maddalena, Carlino Bertorino, tendeva a dare ragione agli operai, Schiappacasse era intervenuto con forza presso il segretario del Partito Nazional Fascista accusando il “collocatore unico” di accettare le qualifiche denunciate dagli scalpellini spesso in contrasto con quelle attribuibili dalle ditte.
Tutto ciò portava a tensioni e conflittualità evidenti che si risolvevano spesso con il licenziamento dei contestatori. Uno di questi fu Antonio Fadda per il quale il responsabile dell’ufficio di collocamento scriveva a Schiappacasse la lettera che pubblico quasi integralmente perché credo faccia luce su diverse situazioni: “Mi permetto di chiederle un favore personale pregandola di voler autorizzare a Tonelli di fare assumere dal signor Webber l’operaio Fadda Antonio. Detto operaio è quello licenziato dal sig. Pinetto Grondona perché colpevole, insieme ad altri, di aver reclamato alla Presidenza della nostra organizzazione per far sapere che la ditta non si attenava ai patti di lavoro. Questa mia preghiera le potrà sembrare strana in quanto il reclamo non era per la sola ditta, ma di conseguenza era rivolto anche contro di me. Poiché ho la coscienza di fare il mio dovere di organizzatore, mi lascia indifferente l’atto inconsulto di pochi che non apprezzano il mio operato ed è perciò che non serbo rancore a chi è venuto meno ai doveri di lealtà e cameratismo che dovrebbero esistere reciprocamente fra me e gli organizzativi, ed è perciò che ci tengo anche a dimostrare con fatti quanto dettole. Sono sicuro che il Fadda, già da un mese a spasso sarà d’ora innanzi il miglior prestatore d’opera perché in questo frattempo ha potuto toccare con mano quanto danno si sia fatto. Un’altra ragione che mi ha spinto a chiederle l’ammissione del Fadda è il fatto che ha una sorella gravemente ammalata e Lei sa cosa voglia dire avere in casa di un operaio degli ammalati quando l’unico sostegno della famiglia si trova disoccupato…..”. Forse Bertorino non conosceva ancora le clausole del consorzio appena firmato fra le due ditte che non consentivano all’una di assumere personale licenziato dall’altra per motivi di ordine contrattuale e sindacale!
La conseguenza di tali situazioni fu l’emigrazione, dapprima saltuaria, con campagne di lavoro all’estero di qualche mese o anche di un anno, che portavano i nostri operai a conoscere ambienti diversi, ma sempre legati al mondo della pietra.
Già nel 1930 una quarantina di scalpellini maddalenini avevano ripreso la via dell’Egitto; l’esperienza si ripeteva nel 1935, nel 1937, nel 1940: il lavoro si svolgeva nelle grandi cave di sienite e di granito situate fra Assuan e El Shallal, distanti fra loro circa sette chilometri, in un ambiente che, almeno in inverno, risultava abbastanza confortevole. Altri si erano spinti più lontano, a Gebel Aulia Dam, dove era in costruzione una grande diga sul Nilo Bianco, a 40 chilometri da Kartum.
Un altro gruppetto, del quale facevano parte Pietrino Marci e Settimio Spolvieri, lavorava ad un’opera monumentale ordinata da un facoltoso egiziano ad una ditta italo-belga che occupava circa 700 operai: i nostri scalpellini, ai quali era affidata la parte più delicata dell’opera realizzata tutta a scalpello e bocciarda, godevano di un buon trattamento economico, valutato mediamente in 60 piastre al giorno, a fronte di quello degli operai egiziani che non superavano mai le 15 piastre. Ai locali era affidato, fra l’altro, il lavoro di carico: i conci sorretti da due catene legate a lunghi pali posati sulle spalle venivano faticosamente spostati dal luogo di lavorazione al trenino che, in 17 ore, li trasportava al Cairo.
Gli scalpellini vivevano in cameroni da 30 persone l’uno, corredati da un unico servizio igienico al centro del campo “sotto una tenda con le mosche a migliaia”; una mensa che costava 300 piastre al mese provvedeva ai pasti compresa la colazione del mattino, consistente in mezzo litro di latte e un filoncino di pane, che veniva inviata direttamente sul posto di lavoro verso le nove. Le condizioni igieniche poco curate avevano come normale conseguenza la dissenteria che colpì mortalmente uno scalpellino maddalenino, Antonio Cossu, soprannominato Santa Maria, pianto dai compagni che lo seppellirono in una tomba di granito rosa nella chiesa cattolica di Assuan.
Per gli italiani un punto di riferimento importante era la missione gestita da 13 suore e diretta da padre Antonio di Brescia, che, fra le altre attività rivolte anche agli immigrati, aveva organizzato per i giovani locali una scuola di arti e mestieri.
I nostri amavano farsi fotografare con persone del luogo o presso gli alberghi di El Shellal che durante l’inverno ospitavano personaggi favolosi come l’Aga Khan: le foto di donne e uomini vestiti dei loro lunghi abiti accrescevano la meraviglia dei racconti strabilianti di chi rientrava portando con sé i cappelli di tela rigida da esploratori e, a volte nascosti in fondo al cuore, i ricordi degli incontri, della fatica, del caldo cocente dell’estate, della nostalgia.
Paradossalmente ad una diminuzione della richiesta di pietra lavorata corrispondeva l’incremento del numero delle nuove cave con la conseguente parcellizzazione della produzione, una concorrenza spietata che danneggiava tutti e che comportò, in breve, inesorabili chiusure di esercizio e licenziamenti. Nel 1934 erano state presentate 6 domande per l’apertura di punti di estrazione:
-Biagio Migliaccio, alla Trinita, in proprietà di Sebastiana Nieddu;
-Paolo Moi, a Furcon di li Casci, in un suo terreno;
-Enrico Architta e Vincenzo Massidda, in area comunale “vicino all’asilo” (?);
-Antonio Sardo, presso il Cimitero, in zona appartenente alla madre;
-eredi Russo Webber nei possedimenti di famiglia;
-Società Ing. Amagliani & C a Spalmatore, in località Petrajacciu, di proprietà dei fratelli Chinelli, con Sebastiano Rolland direttore dei lavori.
Il disagio fu registrato per primo da Schiappacasse: egli aveva continuato a produrre tacchi per il comune di Genova che invece, proprio quell’anno, bloccò gli appalti per la pavimentazione delle strade. Il podestà della Maddalena scriveva al prefetto di Sassari comunicando, preoccupato, che entro il 31 luglio Schiappacasse avrebbe sospeso ogni produzione e licenziato tutto il personale.
“Il colpo che dalla chiusura delle cave riceve la città non ha bisogno di particolare illustrazione……più di un centinaio di famiglie si vedono mancare improvvisamente il pane”.
Il dramma fu evitato grazie alla decisione del podestà di Genova (alla quale forse non fu estraneo un intervento a livello di prefetture) di affidare alla ditta due lotti di pavimentazione, ma si ripresentò poco dopo, presso la cava di Spalmatore dove Amagliani metteva in liquidazione l’impresa licenziando tutti. Il tentativo di Rolland di continuare fallì a distanza di qualche mese con la perdita definitiva del lavoro per quaranta operai.
Colpo ancor più grave, la SEGIS comunicava che entro novembre tutti i dipendenti sarebbero stati licenziati provocando preoccupati interventi del prefetto: in una lettera questo pregava il podestà “di favorire urgenti informazioni al riguardo ed eventuali proposte per l’assorbimento di questa mano d’opera da parte di altri cantieri o per occupazione anche temporanea in lavori comunali”; in una successiva comunicazione all’Ufficio del Genio Civile e al Provveditorato per le Opere Pubbliche, evidenziando i licenziamenti in corso e
l’impossibilità di assorbire alla Maddalena la manodopera eccedente, descriveva “la situazione quanto mai critica”, e pregava i due enti di intervenire presso gli appaltatori per impiegare gli operai disoccupati.
Si capiscono, quindi, in questo stato di profonda crisi, le continue ricerche di lavoro all’estero: oltre l’Egitto, ormai sperimentato, altri paesi divennero meta di emigrazione.
Così, nel 1937, avendo saputo tramite un certo Efisio Catalano di Villasimius, che lavorava alla cavetta d’a Conca d’a vacca, che una ditta francese operante a Bona in Algeria, cercava manodopera, quindici operai della cava di Cala Francese accettarono di partire, con un contratto di 100 franchi al giorno, rivelatosi inadeguato al sacrificio dell’emigrazione: la cava infatti era situata in una zona impervia, circondata da una foresta nella quale era arduo avventurarsi.
La distanza dal porto di Bona era coperta da una teleferica di servizio per il trasporto della pietra tagliata e dei viveri. Ma la strada, e quindi la posta, si fermava ad un villaggio a mezza costa oltre il quale solo una mulattiera consentiva di arrivare alla cava. Michelino Chinelli, che cercava di scendere al paese per imbudelle lettere attraverso una scorciatoia in mezzo alla foresta, vi si smarrì e fu ricondotto alla base da alcuni carbonai locali. Malgrado ciò i nostri scalpellini scendevano spesso alla costa alla ricerca di un ambiente più vicino a quello che avevano lasciato in patria e, forse, di un po’ di conforto che la vista del mare poteva arrecare.
Le condizioni di lavoro non erano facili: era impossibile usare la punta per tagliare quella pietra scura, imbrugliata, dalla quale si doveva ricavare pavé per fondi stradali in lastrine delle dimensioni di 10×15 o 15×20 cm; gli unici attrezzi per spezzarla erano il testù e il picciacantù che richiedevano però una pratica diversa da quella acquisita per il taglio del granito.
Alcuni stringevano i denti e restavano, altri ritornarono a casa per ripartire dopo poco tempo per Marsiglia e poi Tolone, e poi ancora la Corsica, dove si sapeva che un certo Balata aveva aperto una grossa cava: ma anche questo tentativo risultò vano perché nel frattempo troppi operai erano partiti per la stessa meta, anche senza passaporto. Qualcuno aveva addirittura rubato la barca di quello stesso Michelino Chinelli che, per aver atteso il regolare permesso di espatrio, arrivò da Balata quando ormai il bisogno di manodopera della cava era esaurito.
Come spesso succede nelle situazioni drammatiche, si cerca di sopravvivere ricorrendo anche all’ironia. Un simpatico episodio risulta emblematico a questo proposito: forzatamente a riposo alcuni scalpellini si incontravano in piazza lamentando la difficile situazione e uno diceva che a casa sua non aveva più da mangiare e i figli erano raffreddati; Domenico Conti pronto rispondeva: “a casa mia i figli stanno bene, ma si è raffreddato il camino”.
Fortunatamente, per certi versi, si apriva in quegli anni un altro sbocco proprio alla Maddalena; il rafforzamento delle strutture militari determinato dalle scelte politiche e di alleanze del momento, con la conseguente costruzione di nuove batterie antinave e antiaeree e con il potenziamento dell’arsenale e di alcune ditte che assumevano appalti per la Marina, vide molti scalpellini cambiare professione e diventare carpentieri, meccanici, tornitori, guardie giurate.
Quando già la guerra in Europa faceva presagire un intervento dell’Italia, una strana richiesta arrivò sul tavolo del podestà: la Società Anonima FIAT di Torino chiedeva il permesso di intraprendere ricerche di minerale di molibdeno in tutta l’isola Santo Stefano. Non so cosa avesse provocato l’interesse della Fiat e quale utilizzo intendesse fare del minerale: so solo che la cosa si arrestò subito per “l’opposizione presentata dalla signora Manca di Mores nata Serra”, sorella di Battista direttore della cava di Villamarina.
Il blocco del periodo della guerra divenne totale dopo il bombardamento del 10 aprile 1943: se la SEGIS e Serra ricevevano almeno un indennizzo per l’occupazione dei locali, per i lavoratori non impegnati nei servizi militari significava la stasi quasi assoluta: nel mese di gennaio 1943 a Cala Francese erano impegnati 38 operai che scendevano a 2 nel mese di dicembre e a zero presenze per tutto il 1944.
La situazione era tanto grave che il Genio Marina, dietro preghiera del sindaco Tanca, concedeva l’estrazione per tre mesi dai grandi massi confinanti col muro di cinta sud-orientale della batteria della Trinita, malgrado i timori che la vicinanza della cava poteva suscitare dato lo stato di guerra ancora in corso. E successivamente, sempre per facilitare in qualche modo l’occupazione, il capo di stato maggiore concedeva ad un altro piccolo imprenditore l’uso della banchina di Tegge per l’imbarco del materiale estratto in una vicina cava.
Il lavoro riprese con tante speranze nel 1946 quando la necessità di ricostruire i porti danneggiati dalla guerra aprì qualche spiraglio; il sindaco Balata tentò con le città di Civitavecchia e di Livorno scrivendo sia ai colleghi sindaci che alla direzione del Genio Civile: ma i risultati furono nulli anche perché ogni Ente cercava di alleggerire la disoccupazione generalizzata del proprio territorio di appartenenza e Livorno, in particolare, doveva necessariamente tener conto delle esigenze delle cave dell’Elba e del Giglio.
Si apriva ancora quell’anno qualche possibilità di assunzione nelle miniere di Carbonia, ma furono pochissimi i maddalenini che accettarono di andare a lavorare sottoterra, preferendo, ancora una volta, l’emigrazione. A Cala Francese, dopo qualche commessa interessante che diede l’illusione di poter riprendere una normale attività, il lavoro andò inesorabilmente scemando nel 1949, anno nel quale si passò da 46 operai di gennaio a 9 operai dei mesi estivi fino ad arrivare a 1 nel mese di dicembre.
La disoccupazione registrava nel comune della Maddalena, nei tre anni 1947-48-49, i seguenti dati:
-1947: disoccupati 293, di cui 146 nel comparto edile e 13 in quello delle attività estrattive;
-1948: nel mese di maggio su 307 disoccupati 193 appartenevano all’edilizia e 22 alle attività estrattive;
-1949: i disoccupati censiti erano 393 di cui 243 provenienti dal comparto edile e 45 dalle attività estrattive.
In tale situazione l’emigrazione era ripresa: molti erano partiti per la Francia, chiamandosi l’un l’altro: in Savoia, ad Aussois a lavorare per le dighe di sbarramento in granito; nell’Oise, dove si tagliava una pietra morbida, giallognola, chiamata significativamente dai maddalenini petra pulenta; altri si ritrovarono in Svizzera o sulle montagne del Gran Paradiso alla valle dell’Orso, in Lorena, in Alsazia. “…Andando in Francia pensavamo di trovare l’Eldorado di un tempo mentre anch’essa aveva subito una guerra, sia pure come parte vincente… Ci furono lotte interne per produzione, salario, abitazioni. Il clima era pessimo per noi meridionali. Le cave buone per l’estrazione del granito erano in montagna a 1200 metri di altitudine. Nevicava e pioveva spesso anche nei mesi estivi. Il materiale tagliato lassù veniva trasportato a valle nel paesetto di Metzéral per essere lavorato finito nei mesi freddi in baracche, mentre le cave
si ricoprivano del manto nevoso spesso tre metri per tutto l’inverno e fino al maggio successivo”.
L’amministrazione comunale (sindaco Merella) cercava di alleviare la situazione con l’apertura di qualche cantiere di lavori pubblici e con una continua informazione sulle possibilità che di volta in volta si presentavano in Italia o all’estero.
Fra i vari tentativi fatti per dare vigore ad un mestiere che andava estinguendosi si organizzarono, nei tre anni 1949-50-51, dei corsi di formazione professionale regionale per allievi scalpellini, della durata di 180 giorni, durante i quali alle ore di lavoro pratico, sotto la guida degli istruttori Ercole Molinari e Davide Casula, si affiancavano delle ore di studio teorico: matematica (con l’insegnante Lamberto Ciucci) e disegno (insegnante Chiaese).
I pochi scalpellini rimasti diedero vita ad una cooperativa che espletò la sua attività in Gallura nelle cave di Monti Canu per una decina d’anni fornendo, fra l’altro banchine per Portoscuso, Calasetta, Santa Teresa, Maddalena; ebbe anche qualche offerta dalla SEGIS (ormai chiusa) per la lavorazione di macine su granito grezzo fornito dalla cava.
Alla fine degli anni Ottanta lavoravano ancora, a livello artigianale e con una certa continuità solo Antonino Saltalamacchia e Peppino del Chiappo. Oggi qualcuno (Enrico Cambedda, Gavino Mannoni, Primo e Secondo Fresi) cercano di mantenere in piedi almeno una attività parziale, con pezzi particolari di buona fattura che meriterebbero maggiore attenzione.
Giovanna Sotgiu – Co.Ri.S.Ma
- L’uso del granito prima del 1860
- I primi tentativi di cava
- La svolta nello sfruttamento del granito
- L’avvio della Società Esportazione Graniti Sardi – SEGIS
- L’assetto della società SEGIS
- Il declino di Cava Francese
- L’organizzazione del lavoro in cava
- Le immigrazioni degli scalpellini
- La vita difficile degli scalpellini
- La vita della cava
- Le abitudini degli scalpellini
- I monumenti realizzati con il granito maddalenino
- Le specializzazioni del lavoro, i forgiatori
- Le specializzazioni del lavoro, i manovali
- Le specializzazioni del lavoro, fuochini e minatori
- Le specializzazioni del lavoro, i trasportatori
- Le specializzazioni del lavoro, i tagliatori
- Le specializzazioni del lavoro, i conducenti del trenino
- Le specializzazioni del lavoro, i falegnami
- Le specializzazioni del lavoro, scalpellini, fatturanti e modellatori
- Registro dei fanciulli del 1925
- Libro matricola degli operai dipendenti SEGIS del 1924
- Glossario degli scalpellini