L’adeguamento alle nuove leggi del Regno d’Italia
La gestione di Susini non sembra diversa da quelle precedenti in quanto a indipendenza e a libertà di azione: anche lui, come gli altri suoi predecessori, teneva a casa sua i registri con poco ordine, ma nessuno poteva dubitare della sua onestà. Tuttavia, quando la legge sul riordinamento dell’asse ecclesiastico del nuovo Regno d’Italia richiese il rispetto di regole precise, il parroco Mamia e il sindaco Volpe fecero di tutto per liberarsi di lui.
Il 22 febbraio 1867 i due scrivevano al Vicario Generale di Tempio, canonico Tommaso Muzzetto denunciando che da circa 20 anni non erano più a conoscenza delle entrate e delle uscite, né delle offerte dei fedeli che nel tempo dovevano essersi accumulate: pur senza accusare Susini di scorrettezze, dicevano chiaramente che la popolazione non aveva più fiducia in lui proprio perché tenuta all’oscuro dei redditi della Chiesa. Chiedevano pertanto che si nominasse un Consiglio di Fabbriceria a norma di legge e ne indicavano i membri designati. (1) Risposta in calce di Tommaso Muzzetto: Nulla Osta.
Parallelamente, su sollecitazione del Sindaco, la sottoprefettura di Tempio invitava a nominare un Consiglio di Fabbriceria con presidente il Parroco. I consiglieri dovevano essere di fiducia del Sindaco e del Parroco e, alla fine di ogni anno, avrebbero consegnato i loro conti al Consiglio Comunale per il dovuto controllo. Il fabbriciere Nicolò Susini, del quale possiamo solo immaginare le reazioni, veniva perentoriamente invitato a dare “subito” conto “esattissimo” della sua gestione nei molti anni passati.
Il 30 aprile 1867 egli presentava il suo ultimo inventario: vi si registrava un buon incremento nel tesoro della Santa che comprendeva, fra l’altro, 167 anelli d’oro, 61 pendenti, 4 cuori d’oro, altrettanti quadretti d’oro, 7 bottoncini sempre in oro, i soliti fischietti d’argento, rami di corallo, cuori d’argento e una effige della Madonna di Loreto d’ottone dorato: probabilmente quella Madonna di Guadalupe già censita nel 1829.
Ma l’assetto finalmente raggiunto fu messo in dubbio in una azione legale particolarmente dura che vide il parroco Mamia, come presidente della fabbriceria, difendere i diritti della Chiesa contro Francesco Susini che, per motivi strettamente familiari, cercò di coinvolgere tutto il Consiglio Comunale in una sua questione privata finita in tribunale. Susini, infatti, voleva difendere gli interessi della moglie, Vincenza Zonza, che per un testamento di suoi familiari, doveva dare alla Chiesa una pensione annua di 60 lire a fronte della celebrazione di un certo numero di messe: dopo cinque anni di mancato pagamento, nel 1868, Mamia Addis si era rivolto al Pretore, ma Francesco Susini, forte del suo incarico di consigliere comunale, fece votare una delibera nella quale si disconosceva la legittimità del Consiglio di Fabbriceria e si stabiliva che questo dovesse essere sostituito dall’intero Consiglio Comunale. Le argomentazioni portate a sostegno di questa teoria venivano chiarite in fase di dibattimento dal procuratore di Susini-Zonza, il garibaldino ex sacerdote Luigi Gusmaroli: “impertinenza di una commissione intrusa sotto il nome di fabbriceria: prepotenza che per via d’intrighi si volle inalberare all’effetto di stabilire la commissione … all’insaputa dello stesso Consiglio Comunale dell’isola quando che deve prima conoscere simili istituzioni”. Il Comune sussidiava la parrocchia quindi aveva il diritto di verificare la correttezza dell’amministrazione della Chiesa non attraverso il solo sindaco ma con tutto il Consiglio. A questi argomenti Gusmaroli aggiungeva che la legge sulla fabbricerie, in vigore nel continente, non era mai stata estesa alla Sardegna e, comunque, era stata abrogata da successive disposizioni. Malgrado la forza di queste argomentazioni, Mamia ottenne momentaneamente ragione, ma Susini, con notevole dose di coraggio, ricorse al Papa che decretò “la grazia” sollevandolo dal pagamento richiesto.
A questo punto si innesta un piccolo giallo: Mamia aveva continuato a celebrare le messe, con conseguente richiesta di pagamento, anche dopo la pubblicazione del rescritto papale che, stranamente, si era smarrito; possiamo azzardare che si trattò solo di una piccola vendetta del Parroco.
Dovette intervenire il Vescovo (siamo alla fine del 1873) per porre fine alla contesa: egli scrisse al sindaco perché rassicurasse Vincenza Zonza che non sarebbe stata più “tormentata dal vicario della Maddalena”; suggeriva di chiedere un duplicato del rescritto, ma anche di pagare, per mantenere la pace, le messe celebrate “in buonafede” da Mamia.
Il Consiglio di Fabbriceria operò per qualche anno al gran completo: fu necessario adibire un locale ricavato dalla sacrestia per ospitare i fabbricieri e i loro documenti e si acquistarono anche sedie e tavolino. Responsabile della tenuta dei registri fu dapprima Francesco Mille-lire e, successivamente Luigi Alibertini (figlio di Antonio e Maddalena Raibaldi, da non confondere con il nipote omonimo che tanti dispiaceri avrebbe dato, in seguito, al parroco Vico): il Vescovo nelle sue revisioni annuali lodava “la diligenza, la sollecitudine e lo zelo” con i quali si gestiva la fabbriceria.
Correttezza formale indubbiamente, anche se qualche sbavatura si può notare. Oggi non sarebbe giudicata corretta la scelta di non rispettare la volontà dei donatori: ad esempio, la moglie di Fresi Zichino “il pastore che abita al Palavo” aveva regalato dei soldi per comprare un “pegno che sia alla veduta del pubblico“. Legittima era la richiesta, inopportuna ci sembra la scelta di trasferire quella somma all’acquisto di candele ignorando la volontà della donatrice.
Nel 1880 il Consiglio di Fabbriceria era formato dal canonico Michele Mamia Addis, Alibertini cav Luigi, Volpe Pasquale, Zicavo Giovanni, Millelire Giovanni, Rivano Vittorio, Bargone Antonio, Volpe Nicola, Millelire Battista detto Mambrino, Zonza Marco Maria, Sabatini Battista. Il tesoriere, custode anche del tesoro di Santa Maria Maddalena era Luigi Alibertini, ma alla sua morte, avvenuta il 15 dicembre 1882, si ripresentava il problema di reperire, fra i membri della fabbriceria, un vero responsabile che tenesse in ordine i conti e custodisse carteggi e beni. Il Comune (sindaco Leonardo Bargone) aveva scritto al Vescovo dapprima chiedendo cortesemente di passare la gestione al viceparroco Vico, poi intimandogli, a nome dell’intero Consiglio, di non consegnare i beni a Pasquale Volpe e minacciando, in caso quelli fossero richiesti da chiunque non fosse Vico, di esercitare gli atti che la legge gli consentiva. Di fronte a queste minacce, delle quali ci sfugge la ragione, il Vescovo assunse una posizione molto determinata proibendo il coinvolgimento del giovane viceparroco; ma, data la situazione, consentiva che tutto rimanesse custodito momentaneamente presso la vedova Alibertini (Caterina Zonza) mentre la fabbriceria si organizzava con una cassaforte per il tesoro e con la nomina di un nuovo economo.
Fu designato, infine, Giovanni Zicavo che assolse con scrupolo il suo compito coadiuvato dal nuovo viceparroco Antonio Vico: il Consiglio Comunale approvava, a fine gestione, i conti presentati. Questo sistema durò fino al 1896, poi i libri contabili non riportarono più i visti comunali.
In tutti questi anni di fine secolo, grazie alla presenza di Vico nella sua qualità di presidente del Consiglio di Fabbriceria, si registra un’attenzione maggiore per la pulizia della chiesa e dei paramenti, anche se, a riprova della solita povertà, alcuni di questi, prima di essere rinnovati, venivano rammendati più volte. La stessa attenzione venne dedicata al decoro dell’edificio e degli arredi. Nel 1884 un contributo straordinario di lire 1000, erogato dall’Economato Generale dei Benefici Vacanti di Torino, fu utilizzato per alcuni lavori straordinari: fu riformato il meridiano, posta una nuova lapide dedicatoria nella lunetta della facciata, (2) aggiustato l’orologio, dorati gli angeli della porta maggiore, riparate e dipinte tutte le finestre, sostituite molte piastrelle del pavimento, imbianchitele pareti laterali, restaurata e pitturata la statua della Patrona. Uno sforzo notevole al quale presero parte molti artigiani locali quali Sebastiano Baffìgo, Pietro Comparetti, Antonio Ornano, Luigi Bottini, Mattia Sorba, Antonio Derosa, Vincenzo Semidei, Agostino Andreani, Pietro Pitturru, Luigi Roland e i non meglio identificati Saltalamacchia e Tosto.
Il commerciante Stefano Dezerega aveva ordinato la nuova lapide dedicatoria ad un marmista di Santa Margherita Ligure che fu, probabilmente, l’ignaro autore degli errori commessi nel trascrivere il testo voluto da Desgeneys più di sessanta anni prima.
A questo periodo sembra riferirsi la foto nella quale gli angeli della porta, con il loro cartiglio, sono dorati di fresco, intorno all’orologio si vede traccia di recenti lavori mentre non compaiono ancora la riformata meridiana e la nuova lapide.
Per il Sepolcro del Giovedì Santo si rivelava una particolare cura con conseguenti piccoli acquisti: la carta colorata si univa alle stoffe bianche, rosse e blu, ai rami di ginepro che i giovani portavano per adornare la cappella a questo dedicata. In occasione della festa patronale, a fronte delle offerte speciali, quali le cupe di grano per le ostie, vi erano le solite spese con la polvere da sparo per i mortaretti, la legna che veniva trasportata dalla marina e ammucchiata in Piazza di Chiesa per il grande falò, i salari garantiti all’organista, al sacrestano Zenoglio e al vigoroso Muto, figlio di Gagliardo per portare la croce durante le cerimonie religiose. E poi il vino e i canestrelli per la festa grande di Santa Maria Maddalena e ancora vino tutte le volte che bisognava ricompensare operai e manovali per i lavori di manutenzione di finestre, pulizia delle volte, sostituzione di tegole o di mattonelle nel vecchio pavimento malridotto di ardesia e marmo e anche per il trasporto dei quattro evangelisti della facciata, inviati a Genova nel 1886 per una ripulitura. Compaiono quindi, almeno da quell’anno, i fuochi artificiali acquistati a Tempio da Pietro Cossu o da Giordano Anziani e, nel 1888, grandi quantità di damasco rosso e di saten (sic) celeste per adornare il presbiterio in qualche occasione importante.
Dal mese di giugno 1901 Antonio Vico ritirava i registri e ne curava personalmente la tenuta, attento come sempre ad ogni forma di risparmio, ma senza trascurare il decoro e la manutenzione della chiesa.
Le entrate erano le solite: il fitto dell’Isuleddu (che dal 1910 passerà in enfiteusi a Ricciotti Garibaldi per la somma annua di 140 lire) e del terreno della Trinità che verrà espropriato dallo Stato, la tanca del camposanto, i vari censi ormai trasformati in cartelle e, sempre interessante, l’asta per portare la Santa in processione che, con la solita altalena, fruttò 200 lire nel 1895 pagate da tale Gennarino (3) e crollò a 60 nel 1899. A partire dal 1904 Pasquale Serra e, in seguito, fino al 1923 sua moglie Virginia, garantirono più o meno consistenti offerte per questa occasione.
Giovanna Sotgiu – Co.Ri.S.Ma
1. Cav. Millelire Francesco, Volpe Pasquale sindaco, Alibertini Luigi ufficiale in ritiro, Zonza Giulio idem, Susini Nicolò l’attuale economo, cav Michele Mamia Addis vicario parrocchiale.
2. Evidentemente quella voluta da Desgeneys non era più utilizzabile, ma non ne conosciamo i motivi.
3. Dovrebbe trattarsi di Gennaro d’Oriano, chiamato Jennarò, un vecchio pescatore noto per la sua grande religiosità.