Le abitudini degli scalpellini
Le caratteristiche fondamentali dell’abbigliamento degli operai della cava restarono invariate negli anni, costituendo quasi, per la loro uniformità, una divisa: durante l’inverno tutti portavano maglie intime e mutande di lana, camicie di mollettone (matrassu), pantaloni di fustagno (frustagnu), molto resistente chiamato pelle di diavolo, giacca di fustagno o di velluto. Capitava spesso che l’uso logorasse i pantaloni che venivano rinforzati fino a che la stoffa reggeva e poi rattoppati soprattutto nei punti di maggiore attrito, cioè all’altezza delle ginocchia o del sedere: qualcuno diceva che dopo una serie di rattoppi dei primitivi pantaloni rimaneva solo la cintura.
Ai piedi le pezze di lino o tela (più recentemente le calze) e gli scarponi di cuoio chiodati (i cracchi o i cracchetti); in testa il cappello con la falda intera (u cappeddu), o il basco o il berretto schiacciato (a bicazzina), chiamato anche a bicicletta. Nella stagione calda le uniche variazioni riguardavano la camicia di cotone più leggero sempre senza colletto, col solo collo (che oggi definiremmo alla coreana), sostituita a volte dalla maglietta, e la paglia foderata di tela o il cappello di sughero che molti avevano portato dall’Egitto.
Per difendersi dal sole d’estate gli operai costruivano una sorta di rudimentale tenda monoposto con sacchi cuciti tra loro, sostenuti da cavalletti che potevano essere spostati seguendo il corso del sole. In inverno, per evitare che il freddo spaccasse la pelle indurita delle mani, alcuni adoperavano il sego, che ammorbidisce e protegge, prelevandolo da una stagnaletta nella quale era stato sciolto.
Al mattino quelli che venivano dalla Maddalena, dovendo percorrere a piedi la strada che li separava dal posto di lavoro, partivano da casa alle sette per arrivare alla cava entro le otto, quando il suono della campana, dall’alto del deposito grande, annunciava l’inizio delle attività. Essendo diverse le zone di lavoro nella cava principale e nelle cavette, ognuno, seguendo il punto di partenza dalla Maddalena e la meta da raggiungere, seguiva percorsi diversi: il più alto comprendeva Guardia Vecchia, i Colmi, a Conca d’a Vacca; il secondo la salita di Peretti, la parte sud di Guardia Vecchia, il Puntiglione; il più usato, lungo il mare, costeggiava villa Webber, la Crocetta, la Stretta (presso la villa del dottor Chirico), Stagnaledda (attuale albergo Nido d’Aquila, proprietà Molinari). Su questo percorso insisteva la proprietà demaniale della batteria di Tegge, per cui, per non far sorgere diritti di passaggio, periodicamente il comando militare chiudeva la parte della strada più vicina al mare costringendo gli operai a passare più a monte, addaretu a zì Giggì, cioè l’orto di Gigi Molinari, a ridosso della base del Puntiglione.
Ognuno portava con sé in un cestino (u cavagnu), o in un grande fazzoletto (u mandillu da gruppu), il pranzo costituito da pane e mortadella, o patate, pomodori in estate, o pesci fritti, o minestrone della sera prima, pane e formaggio, o anche solo pani e pani. Quelli che avevano casa più vicino al posto di lavoro (la Crocetta, Padule, Spinicciu), nei giorni di vacanza delle scuole, ricevevano a volte un pasto appena cucinato mandato attraverso i bambini che assolvevano a questo compito volentieri, specialmente se riuscivano ad organizzarsi in un allegro gruppetto. A mezzogiorno, quando il suono della campana annunciava la sosta (di un’ora d’inverno, di due ore d’estate), ognuno scaldava il gamellino sulle braci della forgia e, all’aperto o al riparo di qualche tafone provvidenziale, si consumava il pasto. Era il momento delle chiacchiere e dei discorsi seri, quando le novità nelle famiglie, i problemi della categoria, la situazione politica e sociale potevano costituire argomenti di semplice scambio di idee o di approfondito di battito, al quale molti erano in grado di partecipare con cognizione, dimostrando di essere informati e di potere esercitare, grazie a idee politiche precise, anche critiche obiettive.
In inverno il lavoro pomeridiano finiva alle cinque, in estate alle sei; quando però la ditta doveva fare delle consegne e occorreva accelerare i tempi, i fatturanti lavoravano fino a che la luce del giorno lo permetteva e, a volte, anche a buio, con le lampade ad acetilene. Questo avvenne, ad esempio, nel 1920, quando si dovettero preparare i pezzi della platea e le porte per lo sbarramento del Velino (Terni) e consegnare il lavoro entro agosto, perché fosse messo in opera prima della stagione delle piogge.
E il tempo libero? Gli scalpellini dicevano di se stessi di essere stati abili cercatori di funghi, discreti pescatori dilettanti e grandi amanti del vino. In effetti mentre i più giovani, dovendo cercare moglie, preferivano passeggiare ”in paese” e andare alle feste da ballo, quelli già accasati passavano volentieri il loro tempo libero all’aria aperta, ma spesso, soprattutto nelle lunghe sere d’inverno, li si trovava in folti gruppi nelle cantine.
A tutte le persone interpellate ho chiesto quali fossero le concezioni religiose e le idee politiche dominanti e quali i rapporti con il potere, soprattutto dopo l’avvento del fascismo: le risposte sono state unanimi. La maggior parte degli scalpellini era atea e quindi conosceva la chiesa per il battesimo e la cresima (se i genitori avevano creduto di avvicinarli a questi sacramenti), il matrimonio (solo se dovevano accontentare le esigenze della sposa o della sua famiglia), la morte, occasione alla quale non si sottraeva nessuno; erano bestemmiatori accaniti con speciale varietà sul tema. Quando don Capula, giovane prete pieno di zelo, incominciò le sue visite in cava, quasi nessuno sollevava gli occhi dal proprio lavoro per rispondergli e solo dopo molti tentativi inutili, lentamente egli riuscì a penetrare la scorza di ostilità manifesta instaurando rapporti amichevoli.
Si racconta che un giorno rimproverasse bonariamente un vecchio scalpellino, zì Ghjuanpetru, dicendogli che Dio era adirato con lui perché non andava in chiesa; “socu più attidiatu eu cu iddu chi m’a fattu poaru e cecu”, rispose questi argutamente.
Politicamente quasi tutti erano socialisti, contrari al fascismo e dovettero subire per questo qualche violenza; la necessità di mantenere il posto di lavoro comportava per i più prudenti qualche compromesso, silenzi o discrezione nel manifestare le proprie idee, che non valsero però a salvarli dalla prepotenza di alcuni che mostravano, in queste occasioni, il loro lato peggiore, purtroppo accettato e giustificato dal potere costituito. Così nel 1923 tre scalpellini (Angelo Del Bene, Beniamino Noce e Giovanni Tonelli) che passeggiavano tranquillamente nelle vie del centro, furono prelevati e portati alla XX Settembre dove li attendevano Laganà e Barabino (Barabì) per propinare loro la purga. Rabbia e umiliazione investirono tutti i lavoranti e lo stesso Attilio Grondona che si scagliò con vigore contro quei prepotenti chiamandoli mascalzoni e vigliacchi, e rischiando per questo rappresaglie, malgrado la sua posizione.
Dopo la morte di Matteotti la Federazione del Partito Socialista di Sassari organizzò una colletta per erigere un monumento commemorativo e gli operai della cava contribuirono in massa secondo le loro possibilità con una, due, o anche dieci lire.
Responsabili della divulgazione delle idee socialiste, e anche anarchiche, furono certamente gli operai toscani, liguri e piemontesi, venuti alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento, portando con loro esperienze di rivendicazioni e di lotte sociali sconosciute nella nostra isola; idee che si propagarono e fecero presa, creando un positivo sottofondo comune di aspirazioni, una diffusa tendenza all’impegno sociale, un amalgama che nessuna categoria alla Maddalena aveva mai conosciuto.
Giovanna Sotgiu – Co.Ri.S.Ma
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