Le salvaguardie sanitarie
La frequente comparsa nei paesi del bacino mediterraneo di epidemie di colera, peste, febbre gialla ed altri morbi oggi fortunatamente scomparsi, resero necessaria l’adozione di cautele sanitarie dettate da rigide disposizioni che regolamentavano gli approdi, le quarantene, il movimento delle persone e delle merci e l’istituzione dei lazzaretti e delle ronde sanitarie lungo i litorali. Particolare attenzione, poi, come emerge dalle numerose corrispondente tra le autorità maddalenine e la sede viceregia di Cagliari, doveva essere prestata ai movimenti marittimi nell’arcipelago e nelle coste nordorientali sarde, sia per la frequentazione costante di navi provenienti dall’estero, sia per la diffusa pratica del contrabbando con conseguenti approdi clandestini che sfuggivano ad ogni controllo.
Nel 1799, a seguito dell’occupazione francese del Piemonte, Carlo Emanuele IV, asceso al trono dopo la morte del padre Vittorio Amedeo III, si trasferì a Cagliari con tutta la corte e poco dopo si recò con la famiglia a Firenze lasciando in Sardegna con funzioni viceregie il fratello Carlo Felice, duca del Genovese. Proclamata l’assoluta neutralità della Sardegna, oltre alla costante del pericolo barbaresco, l’Isola, divenuta scalo delle navi delle potenze belligeranti e soprattutto di quelle corsare al loro servizio, veniva ad essere particolarmente esposta ai pericoli del contagio. Il 28 novembre 1804, Carlo Felice, constatata la necessità di salvaguardare la salute del regno emetteva un “Regolamento Pratico Sanitario”, che istituiva il Magistrato di Sanità nella capitale e il Deputato di Sanità nei principali porti, demandando l’applicazione delle norme sanitarie nei piccoli scali ai Ministri di Giustizia del luogo.
Ed ecco quali erano, come recita l’art.1 del capo 4 del regolamento gli incombenti del deputato di sanità all’arrivo di una nave.
“Arrivando ne’ Porti del Dipartimento ad ogni Deputato di sanità assegnato qualunque bastimento grande sia o piccolo, ancorchè da guerra, nessuno eccettuato, provenga egli dalle coste di questo Regno, o da altrove, tanto suddito che estero, dovrà il rispettivo Deputato di Sanità recarsi immediatamente sul posto con competente numero di persone per collocare all’uopo le opportune guardie, onde impedire ogni comunicazione.
Essendo il bastimento mercantile in distanza a poter parlamentare intimerà al capitano, o padrone del medesimo di dovere sotto pena di morte, e mediante suo giuramento dire la verità su quanto sarà interrogato. Indi prestato il giuramento dovrà immediatamente interrogarlo sul nome, cognome e patria, della denominazione del bastimento, del luogo da dove è partito, del tempo impiegato nella navigazione; se avesse in seguito rilasciato in qualche parte; se in tutti essi luoghi, o loro vicinanze vi fosse qualche morbo contagioso, che nel suo caso si farà spiegare; se vi fosse accaduta qualche morte con sospetto di contagio; se nell’atto della sua partenza, ed anche prima si viveva in buona e perfetta salute; quali mercanzie porti e da dove le abbia effettivamente prese; se pendente la navigazione siavi accaduta qualche morte nel suo bordo, e se siavi qualche infermo, e di qual malattia; e se cammin facendo avesse comunicato con qualche bastimento, in qual parte, di qual nazione questo fosse, e da dove procedesse. L’obbligherà a dare adeguata e specifica risposta su ognuna di esse domande, per poterne nel suo caso render conto al Magistrato di Sanità”.
Dell’interrogatorio del capitano e del relativo verbale, che assunse il termine corrente di “costituto”, troviamo ampia traccia nelle corrispondenze fra la sede sanitaria di La Maddalena e quella di Cagliari, essendo quest’ultimo porto e quello di Alghero i soli abilitati alla quarantena nel caso che si fosse accertata qualche provenienza sospetta. Negli anni precedenti le norme sanitarie, non dissimili da quelle emesse dal duca del Genovese, consentivano la libera pratica a La Maddalena nel caso di provenienza non sospetta ed in caso contrario l’avvio alle quarantene di Castelsardo e Sassari (Asinara).
Una lettera del 31 ottobre 1793 diretta al viceré dal comandante Riccio con allegato un “verbale di ammissione a libera pratica” della galeotta di Cesare Zonza, giunta in porto con una preda, ci da modo di conoscere come di fatto venivano applicate le norme di cui sopra, come si svolgevano a La Maddalena le pratiche sanitarie e come avveniva lo sbarco dell’equipaggio dopo che aveva scontato la prescritta quarantena.
“Il giorno 29 scadente – comunicava il Riccio – si è ammessa a libera pratica la galeotta la Sultana, e si sono usate tutte le dovute cautele da questo deputato di sanità e chirurgo Alfonsi, come rileverà V.E. dal quì incluso verbale. E siccome tutto detto equipaggio non ha mai sofferto pendente il tempo della quarantena veruna sorte di malattia, non occorre che detto padrone Zonza si porti ne’ in Castello Sardo, nè Sassari”
Il verbale allegato, redatto dal Bailo Carzia, facente funzioni anche di deputato di sanità, così descrive le operazioni:
“Isola della Maddalena, li 29 ottobre 1793.
In seguito ad ordine di sua Eccellenza con sua lettera del diciotto spirante ottobre diretta all’infrascritto regio bailo di doversi mettere a libera pratica i legni che si trovano in contumacia scontati però prima giorni quaranta, non occorrendovi però nulla di sinistro siino ammessi colle solite cautele. A tal effetto il sottoscritto regio bailo e deputato di sanità, con l’intervento del chirurgo di quest’isola Giò Domenico Alfonsi, e la maggior parte di questo consiglio comunale, essendosi trasferiti in vicinanza della goletta la Sultana, e richiesto il sottocomito comandante di essa Cesare Zonza si è interrogato se nel tempo della contumacia abbia avuto alcuno del suo equipaggio ammalato, e se ne avesse alcuno presentemente, se veruno di essi avesse avuto comunicazione mediata o immediata al di fuori, se siasi ben visitato tanto il regio legno come il predato e per accertare che in questi non esistesse alcun fangotto di robbe suscettibili di contagio. Alle quali domande previe ammonizioni sovra il suo giuramento risponde di non aver presentemente, né aver avuto durante la contumacia verun ammalato, né tampoco aveva avuto veruna comunicazione con persone al di fuori, ne’ trovasi al suo bordo, ne’ a bordo del legno predato verun fangotto di robbe suscettibili di contagio, di aver usate durante la contumacia le più astrette cautele che soglionsi praticare in simili circostanze. Le quali cose non distando da quanto depongono con giuramento le guardie a tal effetto destinategli, e ad istanza del surriferito chirurgo fatto scendere a terra e sopra di una punta tutte esse persone di contumacia si fecero saltare e movere separatamente per ogni verso, indi si fecero entrare tutte in una camera preparata con profumo di aromatici, a porte e finestre chiuse si lasciarono ricessare esso profumo per lo spazio di vari minuti, ne’ risultando nulla che impedir dovesse, contraria fosse alla salute pubblica, si lasciarono liberamente uscire e furono messi a libera pratica”.
E’ singolare il fatto che per accertare lo stato di salute degli uomini degli equipaggi, prima di sotttoporli alla “profumazione”, si imponesse loro di procedere a solatelloni per verificare se erano in perfette condizioni fisiche ed in particolare se non era compromesso il requisito dell’equilibrio.
Analoga procedura ritroviamo qualche anno dopo in un verbale allegato ad un lettera del 30 settembre 1803 nel quale lo stesso Bailo Carzia, unitamente al comandante militare Gasparo Gerbon e al dottor Giò Antonio Boino, nell’ammettere alla “libera pratica” due bastimenti con nove uomini di equipaggio predati dal corsaro inglese Querolo “…ha comandato di farli saltare essi 9 uomini e muoversi per tutte la parti, ha trovato di nulla esservi contro la pubblica salute, le fece prendere il solito profumo e messe a libera pratica”.
La “profumazione” consisteva nella sosta per qualche minuto in un ambiente chiuso nel quale erano state fatte delle fumigazioni di erbe aromatiche disinfettanti. Il regolamento nel prevedere i vari tipo di “profumo”, suggeriva che “…tra gli altri profumi preservativi, e che purgano l’aria da adoprarsi non meno per le case che per le popolazioni, è di sperimentata bontà ed altresì facile ad eseguirsi il seguente. Bacche di ginepro, foglie di assenzio, di quercia, di ruta, timo, rosmarino, salvia, spigo, maggiorana, il tutto ben secco e polverizzato a parti uguali unito con zolfo si brucerà con paglia alquanto umida, spruzzandovi anche dell’aceto”.
Quanto poco efficace fosse questo profumo è facile immaginare, salvo poi a soffocare le persone con i vapori di zolfo.
Più complessa era la procedura in caso di provenienza della nave da luoghi in cui erano in corso epidemie o comunque sospetti. Difatti, l’art II del regolamento disponeva che, effettuato l’interrogatorio del comandante:
“Se dalle anzidette risposte rileverà che il bastimento proceda da luoghi infetti, sospetti, od anche sospesi, o avessero in essi rilasciato, ovvero comunicato con bastimenti da detti luoghi procedenti, con bastimenti da guerra, corsali o barbareschi, non dovendosi tali provvidenze ammettere, se non ne’ Porti per le medesime destinati dal Governo o che si stimerà destinare all’avvenire, gli intimerà la pronta partenza, e la proibizione di sbarcare a terra persona alcuna, o roba, e di comunicare con verun regnicolo o persona ammessa alla pratica, sotto la pena di morte naturale, perdita del bastimento e degli effetti che in esso esistono, quantunque di spettanza di un terzo, ma che per potersegli accordare o negare la pratica a seconda delle circostanze dovesse dirigersi agli additati porti. Intanto però collocherà le debite guardie in terra per impedire ogni comunicazione; e se in quel porto vi fosse qualche bastimento, o bastimenti ammessi alla pratica, si destinerà pure una barca ancorchè pescareccia montata da uomini armati, che si terrà lontana dal bastimento suddetto, e sempre sopravvento, non meno di una gomina, ossia di tre o quattro lunghezze dello stesso bastimento, per impedire tanto di giorno che di notte, ogni comunicazione con essi bastimenti in pratica, o di travasare ne’ medesimi roba di sorte alcuna”.
Le modalità di controllo erano rigidissime. L’art. III del regolamento disponeva a tal fine:
“…si farà avvicinare il capitano o padrone della scialuppa, se gli si permetterà che discenda, e gli si ordinerà di collocare in terra in un sito separato la sua patente di sanità, assicurandola con un sasso sopra per impedire che il vento la trasporti altrove, il tutto senza comunicazione e contatto alcuno, collocandosi sempre il Deputato, e le guardie alla distanza di venti passi ordinari e sopravvento. Ciò eseguito s’imporrà al capitano di allontanarsi, e ritirarsi sulla sua scialuppa, avvertendo che non lasci alcuna cosa suscettibile, nel qual caso si farà ritornare per ritirarla. Indi sempre sopravvento si avvicinerà il Deputato e prenderà con le pinzette la patente senza contatto alcuno né di mano, né di roba e, discostandola da sé alla distanza da poterla leggere, osserverà se sia brutta o postillata, ovvero libera e netta. Se la patente fosse brutta, o postillata, o sospetta gli intimerà la partenza”.
La pena per le persone che da navi alle quali era stata intimata la partenza fossero scese a terra era unica e definitiva. Avvertiva infatti il regolamento, all’art. XXVIII, che:
“Qualunque persona de’ bastimenti non ammessi alla pratica, la quale malgrado il divieto osasse temerariamente introdursi nel Regno, ove alla prima intimazione non si ritirasse al suo bordo, potrà essere impunemente uccisa. Incorrerà poi la pena di morte naturale chiunque di qualsiasi grado, e sesso provenienti da detti bastimenti non ammessi alla pratica s’introducesse in qualunque maniera nel Regno”.
Per morte “naturale” deve intendersi, “naturalmente”, quella eseguita mediante impiccagione.
Gran da fare dunque per il Deputato di Sanità di La Maddalena poichè erano fin troppo frequenti gli scali di navi, specialmente corsare, con a seguito natanti predati della cui provenienza si sapeva ben poco. Numerosi quindi i casi di rifiuto di ammissione alla pratica e di intimazione all’immediata partenza non senza proteste da parte dei rappresentanti delle nazioni estere che erano interessati anche economicamente per i diritti consolari che loro competevano a far scontare la contumacia a La Maddalena. Nelle corrispondenze dell’epoca sono più che frequenti gli esposti al viceré del viceconsole britannico Garzia (non sappiamo se parente del Bailo e deputato di Sanita) e del commissario Brandi a seguito di rifiuto di pratica, di allontanamento o di avvio alla quarantene abilitate intimate ai corsali inglesi ai cui capitani si prestava poca fede.
Le navi da allontanare potevano tuttavia essere rifornite prima della partenza con le modalità dettate dall’art. XX che prescriveva:
“Qualunque volta i bastimenti anche infetti, o procedenti da luoghi infetti, o che in mare avessere praticato con legni infetti o sospetti, avessero bisogno di viveri, questi dovranno somministrarsi, mediante però le seguenti debite cautele. In un luogo lontano dal popolato e remoto in vicinanza della riva si faranno trasportare e riporre i viveri richiesti, avvertando però di non lasciare ivi alcun sacco, involto o panno di tela, lana, e qualunque altra cosa soggetta ad infezione ancorchè picciolissima. In seguito si faranno allontanare i naturali del paese che condussero i viveri ed indi i rispettivi Deputati di Sanità, con l’intervento dei Ministri di Giustizia, collocheranno le guardie alla distanza non meno di 40 o 50 passi ordinari, e sempre sopra vento faranno a quel sito avvicinare le persone del bastimento per prendere i viveri. Invigileranno particolarmente che le medesime non lascino in terra qualche cosa suscettibile, sebbene in piccilissima quantità, facendole anche ritornare indietro per ripigliarla, nel caso ve ne avessero lasciato”.
Circa le medicine, richieste per le cure degli ammalati a bordo, esse dovevano essere messe “…dentro vasetti di terra in luogo separato e sopravvento delle guardie; indi si permetterà che discenda uno dell’equipaggio per ritirarle, ovvero si attaccheranno detti vasetti contenenti le medicine ad una lunga canna, o pertica, e si porgeranno ad alcuno dello stesso equipaggio, che rimarrà in mare sulla scialuppa, facendogli ritirare anche i legami, in modo che resti sola e libera la canna, o la pertica, che da quella banda si tufferà in mare”.
Per il pagamento delle forniture, che doveva essere immediato e in moneta metallica, bisognava attendere un non meglio precisato lasso di tempo per venirne in possesso. Era infatti prescritto che “…il denaro con cui si pagheranno dette somministranze non potrà riceversi in mano, ma si farà riporre in un vaso pieno di aceto forte da dove dopo un competente spazio di tempo potrà ritirarsi”.
Non erano però soggette a queste rigide norme le navi addette al traffico interno o i battelli da pesca purchè i comandanti all’arrivo in porto rendessero dichiarazione giurata di non aver effettuato scali e di non aver avuto contatti con navi corsare o con bastimenti nazionali provenienti da luoghi sospetti, ma “…occultando i Padroni e Marinari di dette barche e battelli la verità, allonchè ne sono interrogati, saranno a seconda delle concorrenti circostanze puniti con pene corporali estensibili fino alla morte”.
Per quanto riguarda le navi militari, poi, e non si spiegherebbe altrimenti il fatto che gli ufficiali della flotta di Nelson potessero scendere a terra subito dopo il loro arrivo, il regolamento spiega che:
“Non saranno obbligati ad esibire le patenti di sanità i legni da guerra tanto di S.M. che delle altre Potenze, mentre per essi sarà bastante che il loro comandante attesti, benchè a voce, sulla parola d’onore, che provenga da luogo libero e sano, che non abbia toccato luogo alcuno sospetto, né praticato pendente il viaggio con persone di bastimenti procedenti da luoghi sospetti e che tutto l’equipaggio goda di buona salute. In cosiffatte circostanze volendo la pratica gli si concederà”.
La vigilanza sanitaria a La Maddalena fu attentissima e, anche se non vennero scrupolosamente osservate tutte le norme, l’isola rimase quasi sempre immune dal contagio. Soltanto il colera del 1854 fece la sua apprizione, ma fu subito domato. Moltissimi gli abitanti colpiti dal morbo, ma pochi i morti. V’è da supporre però che nel mancato insorgere dei morbi contagiosi La Maddalena fu anche fortunata perchè i frequenti commerci clandestini e le poco veritiere dichiarazioni di taluni comandanti all’atto della presentazione dei “costituti” diedero luogo a non poche violazioni delle norme sulle salvaguardie sanitarie.
La cosa era fin troppo nota anche in alto loco tant’è che il 23 ottobre 1804, allorquando era stato paventato l’insorgere di una nuova pestilenza, il segretario di stato presso il viceré aveva prevenuto e redarguito il comandante Agostino Millelire con la seguente lettera:
“Positivi riscontri annunciano che la febbre gialla siasi appalesata in Livorno. L’incendio è vicino e si deve vegliare giorno e notte particolarmente nell’isola della Maddalena situata a poca distanza dalla Caprara, dall’Elba e da Livorno. Sgraziatamente le provvide cure del governo per allontanare li corsali da codesti mari sono stati delusi costì più d’ogni altro luogo, non ignorandosi le introduzioni clandestine e l’indegno traffico che si è fatto delle mercanzie predate, e giacchè il Signore ha preservato finora il regno dal terribile flagello della peste che si sarebbe potuto introdurre per questa via, è ormai tempo di scuotersi e di spiegare energia in massimo grado per difenderci dall’ultimo degli infortuni. Le decisive determinazioni di S.A.R. sono di non perdonare le benchè apparente leggiera mancanza in materia di sanità pubblica e di punirla con la morte, qualunque sia la persona che la commetta”.
E una brutta disavventura occorse nel novembre del 1828 a Nicolò Susini, intraprendente commerciante maddalenino, che, per non aver dichiarato al suo arrivo in porto di aver toccato uno scalo straniero, dovette fuggire dall’isola e subire ben sette mesi di latitanza e di forzato esilio. La vicenda, conclusasi nell’estate successiva grazie all’intervento del viceré, è narrata dallo stesso Susini in una supplica diretta al conte Tornielli di Vergano che in quegli anni reggeva la Sardegna.
“Eccellenza,
Nicolò Susini dell’Isola della Maddalena col più profondo ossequio espone all’E.V. che verso la metà del settembre 1828 prese imbarco con un legno di sua proprietà dall’Isola di Capraia per restituirsi a La Maddalena sua patria.
Colto pendente il viaggio da un forte temporale, quel legno fu costretto per la violenza di venti a prendere la direzione dell’Isola dei Cavalli altro degli isolotti che cingono il litorale di Corsica. Nel timore che quel barco avesse sofferto qualche danno si vide il rassegnante obbligato a gittar l’ancora onde passare la visita del medesimo, e fu difatti osservato che passava dell’acqua all’interno.
Tanto per praticare la suddetta visita, quanto per farvi le precise riparazioni, dovette trattenersi qualche giorno in quell’isolotto disabitato, oltrechè il tempo si mantenne burrascoso e non gli permise di partire.
Restituitosi poi in patria da alcuni suoi emoli si fece rapporto al Governo che il rassegnante aveva toccato l’isolotto predetto, avesse pure comunicato con la Corsica ed avesse quindi violato le leggi di Sanità”.
Evidentemente il Susini, al suo arrivo a La Maddalena, aveva taciuto di essersi fermato all’isola di Cavallo rendendo così un falso “costituto” per non sottoporsi alla quarantena. La cosa non era però sfuggita ai suoi “emoli” che, pur di liberarsi di un concorrente, avevano, come dirà lo stesso Susini, “sparso la voce” mettendolo in condizioni di rischiare, oltre alla confisca del bastimento e alla perdita della licenza di commercio e alla patente di padrone marittimo, anche qualche anno di duro carcere. Egli dunque, subdorato il pericolo, si affrettò a lasciare l’isola con il suo bastimento e a far vela verso Genova per non incorrere nei rigori della legge.
L’esposizione dei fatti così prosegue:
“Non fece sul principio conto di questa voce che successivamente ebbe a spargersi e quindi ripartì per i suoi affari verso Genova dove ebbe dei riscontri che si stavano facendo delle inquisizioni a tal oggetto, anzi gli fu riferito che non s’attendeva che il suo ritorno per praticarne l’arresto.
Questi riscontri eccitarono dei timori nel rassegnante per causa dei quali si vide obbligato a trattenersi per lo spazio di mesi sette a Genova lontano dalla sua casa, e dai suoi affari, per cui ha dovuto subire perdite considerevoli”.
Dopo sette mesi di forzato esilio il Susini decise di affrontare risolutamente la situazione e prese imbarco per Cagliari per essere ammesso al cospetto del viceré e da lui ottenere la grazia visto che, oltretutto, dalla sua manchevolezza non era derivato alcun danno.
“Prese finalmente la risoluzione – prosegue la supplica al viceré – di presentarsi in questa capitale da dove si trova da alcuni giorni attendendo le disposizioni dell’E.V. affinchè possa restituirsi in patria senza pericolo di poter all’arrivo soffrire qualche sfregio che sarebbe l’unico scopo alle brame dei suoi emoli”.
E dopo questa frecciata ai delatori che gli avevano procurato la triste disavventura, così conclude:
“Supplica pertanto egli l’E.V. preso in benigna considerazione quanto ci vien da esporre, lasciare quelle provvidenze che stimerà opportune perchè possa l’esponente restituirsi liberamente alla Maddalena”.
In calce alla supplica troviamo il provvedimento datato dal Regio Palazzo il 14 luglio 1829 e sottoscritto dal conte Tornielli con il quale si disponeva: “…presentandosi il ricorrente in questa Segreteria di Stato e di guerra, onde sentire le nostre determinazioni, si prenderà in considerazione la domanda”.
L’istanza del Susini trovò pieno accoglimento; fu infatti riconosciuto che l’isola da lui toccata era disabitata e che le condizioni del tempo, come non avevano consentito a lui di ripartire, non avevano permesso ad altri di approdarvi e di avere quindi contatti con la sua imbarcazione e con l’equipaggio. Scampato il pericolo e munito di salvacondotto, il Susini, in barba ai suoi delatori, potè finalmente far tranquillo ritorno nell’isola, divenendo in seguito uno di cittadini più meritevoli di La Maddalena, amico di Garibaldi e per molti anni sindaco della comunità.