L’organizzazione del lavoro in cava
Quando la ditta Marcenaro e Grondona acquistò la cava, non fu sempre facile attirare la manodopera e quindi convincerla a rimanere alla Maddalena: probabilmente, nella fase di avvio, il lavoro era limitato, tanto che il sindaco Gerolamo Zicavo, nel 1899, lamentava “le condizioni sempre più gravi dell’operaio per l’assoluta mancanza di lavoro” e quindi accettava le domande di emigrazione per l’Egitto dove la costruzione della diga di Assuan aveva richiamato operai da tutta Europa. In quell’anno la richiesta di espatriare era tanto alta che il Ministero dell’Interno emanava delle circolari circostanziate invitando i comuni a non avviare le pratiche in assenza di una chiamata nominale per i lavoratori e di un sicuro impiego, che, a detta del ministero, era possibile solo per gli operai specializzati e, fra questi, per gli scalpellini: infatti la mano d’opera generica era reclutata fra i nativi in quanto molto meno costosa.
In quel momento erano ad Assuan circa 2000 operai dei quali 500 italiani, in gran parte scalpellini attirati dalla possibilità di fare buone economie visto che godevano della gratuità dell’alloggio, dell’assistenza medica, dei medicinali e dell’eventuale ricovero in ospedale: unica spesa a loro carico era quindi il vitto.
Ma le condizioni ambientali erano dure in alcune stagioni: a detta dello stesso ministero “la temperatura…diventa caldissima nei mesi aprile-settembre salendo fino a 45 gradi, specialmente a Challal luogo privo di vegetazione in mezzo alle cave di granito…”.
Le circolari precisavano inoltre che la ditta appaltatrice (John Aird & C.) “una delle più potenti e stimate d’Inghilterra, non concedeva sezioni di lavoro a piccole imprese. Così molti capi squadra, arrivati con la speranza di ottenere a cottimo il lavoro delle cave, ebbero un rifiuto”.
Dalla Maddalena una ventina di scalpellini avevano avviato le pratiche di emigrazione anche se poi solo 8 partirono quell’anno; alcuni, delusi dalle condizioni di vita, ritornarono presto in patria.
Man mano che il lavoro in cava diventava più assiduo, Grondona cercava di richiamare direttamente le persone di fiducia, dovunque si trovassero, ottenendo molte risposte positive. Un certo Pacifico Galassini era stato raggiunto da una lettera di chiamata mentre era in viaggio per l’Abissinia, attirato in parte dalla speranza di lavoro, in parte dal desiderio “di vedere quella terra Abissinia”. Arrivato a Ghinda da Massaua, rimase deluso dalle cave che, a suo dire facevano “pietà” e anche dal compenso proposto: a fronte di una spesa per la produzione di “250 franchi al metro cubo, l’impresa non intendeva pagare che 80”; ritornava perciò ben volentieri in Italia accettando di entrare a Cala Francese con i suoi aiutanti.
Nella cava di Cala Francese il sistema adottato e ormai rodato era quello dell’affidamento del lavoro a cottimo ai cosiddetti capo-compagnia responsabili dell’attività dei loro addetti dal momento in cui il masso veniva staccato dalla parete e consegnato dai cavatori, al momento in cui i pezzi finiti venivano depositati alla banchina pronti per l’imbarco.
Nel 1901 i capo-compagnia erano nove e producevano 500 metri cubi al mese; erano persone esperte, in grado di gestire direttamente 20-30 operai ai quali veniva affidato un fronte di cava con ordini di lavoro stabiliti in un vero contratto; gli altri non inquadrati in questi gruppi, i “cottimisti individuali”, dipendevano direttamente dalla direzione, ma erano in numero molto limitato.
Gli assistenti della direzione avevano il compito di controllare l’andamento e il rispetto delle clausole, misurare i conci, valutarne la corretta esecuzione. I pezzi giudicati buoni venivano “accettati” e in tal caso erano contrassegnati con una pennellata di pittura e messi da parte in attesa del loro trasporto successivo: in tal modo si poteva quantificare il lavoro eseguito in una giornata e pagare il corrispettivo stabilito al capo-compagnia.
Questo sistema non era esente da problemi, che si manifestarono, soprattutto nella prima fase, con furti, rapporti a volte tesi fra capo-compagnia e dipendenti, contenziosi spinosi fra ditta e cottimisti. Ci furono, infatti, tentativi di “rubare” i tacchi agendo sulle due pitture (nera e bianca) che Ercole Molinari e il capo-compagnia adoperavano per smarcare il lavoro fatto: ciò comportò la messa a punto di un migliore sistema di controllo. Seguirono i malumori nati fra i lavoranti della cava Crescioli che accusavano il loro capo di scarso rendimento e scrivevano alla direzione dichiarando di non volerne più accettare gli ordini. Poi le lettere anonime che segnalavano furti di polvere da parte di alcuni minatori: con un sotterfugio essi diminuivano la polvere necessaria per ogni mina e nascondevano quella risparmiata in un tafone; raggiunta una discreta quantità la vendevano alla Maddalena.
Il caso più spinoso fu però quello dei fratelli Giuseppe e GiacomoTedeschi che gestivano la compagnia più numerosa. Venivano da Baveno con una esperienza notevole nel lavoro: come molti loro compagni manifestavano apertamente le idee di sinistra, tanto che uno di loro, Giuseppe, veniva semplicemente chiamato “il socialista”. Dai documenti esaminati sembra di poter dire che i due non ottemperassero alle clausole del contratto soprattutto perché spesso assenti, impegnati a dirigere per loro conto altre cave in lontane località della Sardegna, e quindi responsabili del mancato controllo dell’opera della compagnia; Giuseppe pareva creare difficoltà al suo stesso fratello per questioni di rendiconti economici. La SEGIS contestava loro lavori inferiori per quantità a quelli stabiliti dal contratto, scarsa diligenza nel “pulire” i piazzali, mancato trasporto all’imbarco dei pezzi finiti. La situazione si presentava difficile perché i Tedeschi respingevano le accuse: anzi Giacomo scriveva lamentando di non essere pagato secondo gli accordi63 e accusando la direzione cava di non approntare il materiale grezzo, che doveva essere staccato dalla parete a cura dei cavatori dipendenti direttamente dalla ditta. La contesa si prolungò fino al 1903 finendo con il licenziamento dei due. Gli operai alle loro dipendenze furono avvertiti in modo che, se lo avessero voluto, avrebbero potuto restare nella cava assunti direttamente dalla SEGIS o accorpati ad altre compagnie, alcune delle quali si erano venute formando in quegli anni per assolvere alle grosse forniture del bacino di Malta e delle prime importanti pavimentazioni stradali di Genova.
Giovanna Sotgiu – Co.Ri.S.Ma
- L’uso del granito prima del 1860
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- L’avvio della Società Esportazione Graniti Sardi – SEGIS
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- Il declino di Cava Francese
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- Libro matricola degli operai dipendenti SEGIS del 1924
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