Maestà, dacci il porto franco
Articolo dello scrittore Antonio Ciotta
Il 14 ottobre 1767, Pietro Millelire, “chef de la tribou” che si era fatto portavoce dei pastori stanziati sulle isole, dopo aver pronunciato la famosa frase “Viva chi vince!” consegnò al maggiore La Rocchetta, comandante del corpo di spedizione inviato per occupare l’arcipelago, un memoriale nel quale erano indicate le richieste degli isolani come contropartita alla loro sottomissione alla casa Savoia. Da allora fu una lunga sequela di lacrimose petizioni con le quali i maddalenini non mancarono, in tempi diversi ed a seconda delle circostanze, di chiedere aiuti e soccorsi a favore della popolazione penalizzata dall’insularità. Fra i tanti privilegi che vennero concessi in virtù di quelle prime suppliche, fin dai tempi dei gloriosi fatti del 1793, il più importante fu certamente quello della esenzione doganale sulle merci di importazione: la famosa “zona franca” alla quale gli isolani hanno sempre aspirato e della quale ogni tanto, anche in tempi recenti, si torna a parlare.
Va ricordato che nel 1792, in un momento in cui occorreva essere particolarmente accattivanti stante gli annunciati pericoli del tentativo di invasione gallo-corsa, per consentire l’approvvigionamento di carne era stata abolita la tassa di cinque reali e mezzo che gravava sulla licenza per l’acquisto di bestiame fuori dell’isola. Singolare la motivazione con la quale il comandante Riccio, con una sua lettera del 28 settembre 1792 diretta al viceré, aveva chiesto l’abolizione del balzello.
“Ho fatto sentire a questi popolatori di non lasciare mancare la carne; mi hanno assicurato non potere senza suo pregiudizio per motivo che è permesso il porto di Longo Sardo alli corsi, li quali pagano il bestiame ad alto prezzo e tutti li pastori lo conducono a detto porto …ed essendo ancora obbligati li isolani a pagare cinque reali e mezzo per il biglietto di licenza veruno va a comprare bestiame …e se l’E.V. farà levare detto pagamento di licenza a questi popolatori posso assicurarla che veruno di questi farà contrabbandi. Ed ogni qualvolta che qualche isolano anderà in Sardegna per comprar bestiame od altro li obbligherò di presentarsi a me ed io li munirò di un biglietto di licenza per poter andare in Sardegna a fare accompra di una o due pezza di bestiame o altro spiegato in detto biglietto, fissandole il tempo del suo ritorno acciò non possano farne altro uso”.
Chiaramente traspare dalla lettera che i macellai maddalenini, che malvolentieri si sottoponevano al pagamento della tassa dell’introduzione del bestiame nell’isola, vi provvedevano in contrabbando o, come più spesso avveniva, utilizzando reiteratamente la stessa bolletta di importazione, di volta in volta opportunamente “aggiustata”. Ed il viceré che ben aveva compreso il suggerimento del Riccio, che in quei giorni stava usando tutta la sua opera di convinzione per indurre gli isolani a resistere all’eventuale attacco francese, con lettera del 19 ottobre 1792, gli comunicava che “…per animare la fedeltà e coraggio di codesti isolani potrà significare al sindaco e al Bailo che mediante una di lei licenza, nel modo proposto nel di lei foglio del 28 settembre, permetto di provvedersi nel regno di bestiame, purchè si trasporti costà e si tenga registro della licenza, per la quale dispenso la popolazione dal pagamento di cinque reali, e ciò sino a nuova disposizione”.
Le “nuove disposizioni” non arrivarono mai e gli isolani continuarono a godere dell’esenzione fino all’inizio del 1821. In quell’anno, con l’entrata in vigore del Regio Editto 18 maggio 1820 che promulgava il nuovo sistema doganale per tutto il Regno di Sardegna, ci si dimenticò dei privilegi goduti dai maddalenini che vennero pertanto assoggettati allo stesso regime di imposta degli altri territori sardi. Vane furono le proteste e le istanze ripetutamente avanzate dagli isolani nei decenni successivi.
Nella primavera del 1843, avuta notizia di una prossima visita in Sardegna del sovrano, il consiglio comunale indirizzò al Re una lunga petizione nella quale, dopo aver esposto le condizioni di miseria in cui si trovava l’isola, chiedeva il ristabilimento delle esenzioni concesse in passato. La missiva reca la data del 18 aprile 1843 ed è sottoscritta dal sindaco Filippo Martinetti, dai consiglieri Simone Ornano, Antonio Pittaluga, Pietro Alibertini, Giò Batta Millelire, Giò Scano e Domenico Piretti, nonchè dei probiviri Battista Polverini, Battista e Giuseppe Zonza, Matteo Culiolo, Giuseppe Cuneo, Marco Maria Alibertini, Tommaso Volpe, Francesco Susini, Leonardo Bargone e Tommaso Lavaggi.
Ed ecco quanto esponevano i maddalenini: “Il Consiglio Comunale dell’Isola Maddalena, prostrato ai piedi del Regio Trono, rappresenta umilmente che in seguito alla pubblicazione del R.Editto 20 maggio 1820, col quale fu messo in vigore il nuovo sistema doganale …i popolatori dell’anzidetta isola andarono gradatamente decadendo da quello stato di mediocre agiatezza in cui con la perseverante industria di soli cinquant’anni si erano per lo innanzi collocati. La qual cosa è succeduta non già in conseguenza del sistema tendente in ogni sua parte al miglioramento della complessiva condizione commerciale dei popoli Sardi, ma per effetto inevitabile delle particolari circostanze nelle quali trovasi costituito il Comune della Maddalena. Imperocchè, trovandosi il medesimo separato dall’Isola Madre, e stabilito in un’isola sterile e sassosa, non solamente manca dei prodotti naturali, colla cui estrazione possa bilanciare il peso dei generi industriali che vi si introducono dall’estero, ma è costretto perfino a procurarsi dalla Sardegna le cose più necessarie alla vita, come grano, olio, vino e combustibile, sottoponendosi in tal modo al doppio carico della passività sia rispetto al Continente che alla Sardegna”.
La lunga petizione faceva quindi la cronistoria dei passati privilegi di cui avevano goduto i maddalenini, che erano stati loro concessi non solo per lenire la condizione insulare, ma soprattutto in riconoscimento dei loro meriti in virtù dei quali “…per le reiterate prove di fedeltà date al Sovrano dai Maddalenini, il Re Vittorio Amedeo III, di gloriosa ricordanza, dichiarava immune da ogni e qualsiasi dazio doganale il nascente Comune della Maddalena, e questo beneficio confermava poi a perpetuità il di lui successore Vittorio Emanuele. Il rappresentante del Consiglio, allorchè nel gennaio del 1821 fu pubblicato il Regio Editto del 1820, rapportò al Governo la particolarità di questa situazione, e richiamando alla memoria li Reali Decreti testè mentovati, implorò che la Franchigia gli fosse rinnovata. Ma sebbene le sue supplicazioni siano state benignamente accolte, e il viceré Marchese d’Jenne, con dispaccio dell’11 agosto 1821, gli aveva fatto concepire la più lieta speranza, non si conseguì però in appresso l’effetto della fatta domanda”.
Riassunti questi falliti tentativi, esaltando i meriti dei maddalenini ed esponendo in maniera lacrimevole l’incomberte indigenza della popolazione, il sindaco Martinetti così proseguiva: “La povertà conseguitane nei popolatori è più facile immaginarla che descriverla. Un comune composto da due mila e più abitanti, privo di terra e circondato dal mare, senza prodotto del proprio suolo, vive ordinariamente d’industria. Se tale industria è impedita nella sua stessa radice, se il suo commercio interno ed esterno non ha di che alimentarsi con vantaggio, se le stesse risorse derivanti dalla sua posizione marittima le sono interdette, la sua esistenza è minacciata di prossima rovina, perchè costituita su basi troppo incerte e troppo precarie. Tale è appunto lo stato infelice dell’Isola della Maddalena ed è spettacolo veramente doloroso vedere un comune, il quale non conta ancora un secolo di esistenza, che occupa una posizione cotanto opportuna nel Mediterraneo, che ha prodotto tanti uomini generosi i quali anticamente pugnando contro i Barbareschi e nel cadere dello scorso secolo contro i Gallo-Corsi diedero tante prove di valore e sparsero tanto sangue in difesa della Corona e che anche al presente somministra tanti suoi figli al servizio della Marina Militare, ridotto a stato di assoluta indigenza nel quale dovrebbe di certo soccombere se il poco numerario che circola nel paese pel mantenimento delle Regie Truppe, degli impiegati e invalidi di Marina, e lo scarso prodotto della pesca non lo sorreggesse fra tante angustie”.
E prima di sottoporre al sovrano la precisa richiesta della Zona Franca, seguendo gli schemi tipici delle ossequiose sviolinature dell’epoca, la supplica concludeva:
“Mosso dall’evidenza di siffatte ragioni osa il rassegnante Consiglio implorare in soccorso a tante miserie la benigna attenzione di V.M. ben sapendo che giammai la M.V. ha mancato di pietà, e di sollecitudine verso li suoi popoli, e che anzi, con luminoso esempio mostrando all’Europa intera come le stia grandemente a cuore la felicità di tutto il suo Regno, e come voglia renderne le condizioni sempre più fortunate, supplica pertanto umilmente V.S.R.M. acciò, preso in benigna considerazione l’esposto, si degni di accordare al Comune dell’Isola Maddalena la seguente grazia: La franchigia dei dazi doganali per tutti li generi che si introdurrano nell’Isola, così dall’Estero, come dall’Isola Madre di Sardegna”.
L’accorata supplica, spedita alla corte di Torino, fu anche consegnata in copia personalmente a Carlo Alberto in visita nell’isola (prima tappa del suo viaggio ufficiale in Sardegna), nella mattinata del 4 maggio 1843. Le manifestazioni per la venuta del Re, che due anni prima era stato La Maddalena per partecipare a una battuta di caccia, dovevano essere improntate alla massima austerità; bisognava far vedere al sovrano che i maddalenini erano veramente poveri ed il sindaco Martinetti, nella sua lettera aveva premesso:
“…nessuna occasione più propizia poteva il Cielo concedergli per umiliare a nome del Comune che rappresenta le sue preghiere, fuorchè questa faustissima, in cui la M.V. si è degnata di graziare della sua presenza li sempre fedeli e sempre grati abitatori della Maddalena, li quali non possono per la povertà loro testimoniare alla M.V. con solenni e dispendiosi manifestazioni la loro esultanza per cotanto felice avvenimento, si appresentano però concordi in un solo spontaneo voto per offrirle i loro cuori nei quali in nome della M.V. sta e rimarrà eternamente scolpito”.
L’arrivo del Re non era però cosa di tutti i giorni per cui, come riportano le cronache dell’epoca e come riferisce Pasquale Tola che ebbe l’incarico ufficiale di redigere una relazione sul viaggio del sovrano, solenni e fastose furono poi le manifestazioni in suo onore.
Renzo de Martino così ricostruisce l’avvenimento: “Sul ponte di approdo, allestito per l’occasione, era stato costruito su disegno del Commodoro sir Daniel Roberts, un arco trionfale a tre fornici. Sulla parte alta, al centro, era scritto in caratteri cubitali -Viva il RE- e, ai lati, il saluto dei cittadini: -Di gioia in segno, con devota mano – La Maddalena all’ottimo Sovrano – ad ogni evento per l’augusto Sire – pronti siam sempre a vincere o morire-. Tutta la città era parata a festa in un tripudio di stendardi, di drappi e di fiori. Sbarcando dalla nave “Tripoli”, il corteo reale fu ricevuto sotto l’arco trionfale dal comandante della piazzaforte Giacomo Brixio e dal sindaco Filippo Martinetti, quindi si recò subito in chiesa per assistere alla solenne cerimonia religiosa tra due fitte ali di folla acclamante. Prestavano gli onori militari i sessanta uomini della Guardia urbana e un distaccamento del Battaglione Real Navi, mentre il corteo era preceduto da dodici fanciulli che sventolavano ognuno una bandiera bianca”.
Fu in quell’occasione che nella piazza XXIII Febbraio venne innalzata una piccola piramide in granito colorato sul cui vertice fu collocata, a mo’ di monumento, successivamente rimosso, una delle palle inesplose lanciate da Napoleone durante il bombardamento del 1793.
La supplica al Re e le manifestazioni tributategli durante la sua sosta a La Maddalena, conclusesi con una serata di gala in casa Millelire, valsero solo a porre in ginocchio le povere casse comunali. Proprio in quei giorni, difatti, il Consiglio Comunitativo, convocato a Cagliari per dirimere l’annosa vicenda della spartizione delle terre comunali, non poté inviare neppure un rappresentante poiché la spesa di 668,72 lire fatta per organizzare i “festini per ricevere per quanto li fu possibile degnamente Sua Maestà”, aveva lasciato vuota la cassa comunale anche se erano state recuperate 113,98 lire ponendo all’asta legname, chiodi, stoffe e arredi avanzati dall’arco trionfale relizzato da Roberts.
L’aspirazione dei maddalenini di avere la Zona Franca non si è più realizzata e l’unica franchigia di cui gli isolani godono oggi e quella della tariffa residenti sui traghetti per Palau. Ma i fatti del passato dovrebbero indurci a trarre un insegnamento per il presente ed anche per il futuro. Come dice il sindaco Martinetti “…un Comune privo di terra, circondato dal mare, senza prodotti del suolo, vive ordinariamente d’industria e se tale industria è impedita nella sua stessa radice la sua esistenza è minacciata di prossima rovina”.
Il monito è facile da intuire; oggi quelle rocce sterili circondate dal mare, che allora nulla producevano, sono divenute la vera ricchezza produttiva dei maddalenini, L’industria del futuro, quando verrà meno “…il sostegno di quel numerario” che prima o poi, inesorabilmente, gli enti della Marina, destinati a radicali ridimensionamenti, finiranno di elargire, è il turismo: un turismo fatto di alberghi oggi tanto osteggiati, di “Parco” altrettanto osteggiato, di oculati approdi turistici che non si sono voluti quando gli altri li offrivano, e soprattuto di servizi che i maddalenini dovrebbero promuovere per se stessi e per gli ospiti per tutto l’arco dell’anno, in modo tale da offrire alternative che valgano a sostituire finalmente la figura poco redditizia del villeggiante, con quelle più proficue del turista e del visitatore. Solo così si potrà evitare l’incontrollata orgia balneare della vacanza estiva che come ammonisce la Racheli a conclusione del suo libro, si rivela “…uno scatenamento di energie che, se controllate civilmente, giovano a chi le riceve, altrimenti hanno la forza di disgregare progressivamente l’ambiente”.
E l’ambiente è il vero patrimonio degli isolani, un patrimonio che occorre preservare, ma non cloroformizzare per conservare, perché la conservazione fine a se stessa significa immobilismo e immobilismo significa regresso.