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Mario Baffico

Mario Baffico, nato a La Maddalena il 5 febbraio 1907, realizza negli anni trenta dapprima alcuni cortometraggi, poi esordisce con la pellicola La danza delle lancette (1936; coregista Alberto Lattuada) cui seguono altri lavori. In un momento cruciale della storia italiana il regista offre un proprio valido contributo alla riflessione sugli eventi bellici in corso, firmando I trecento della Settima (aprile 1943; 80 min.), pellicola che sviluppa un soggetto e una sceneggiatura dell’autore, di Cesare Vico Ludovici e del commediografo Mario Corsi, utilizzando esclusivamente attori non professionisti (ossia ufficiali e soldati del 1° e del 2° reggimento alpini, reduci dal fronte greco-albanese). Ne sortisce un film austero e solenne, a tratti perfino misterioso, che si colloca in un ambito ideale che possiamo francamente definire antifascista e in un ambito estetico di profonda innovazione stilistica, che sa coniugare sobrietà, naturalismo e documentario secondo moduli i quali, nel solco dell’opera di De Robertis e del primissimo Rossellni, anticipano in versione versione compiuta, il cosiddetto neorealismo. La grandezza del film di Baffico consiste nel suo “assordante” silenzio intorno al significato del conflitto in corso e nel conseguente amaro scetticismo che permea per intero il funereo racconto nel quale non solo non compare alcun saluto fascista, ma anzi vengono impietosamente mostrate le numerose manchevolezze del sistema bellico italiano. Una compagnia di trecento uomini lascia il proprio paese, la propria realtà semplice e montana, fatta di bimbi bisognosi di cure e di anziane donne, e si reca sul fronte greco dove lotta strenuamente, giorno dopo giorno, per tenere le posizioni relative a un costone la cui cima è saldamente controllata dal nemico. Le perdite sono ingenti e inesorabili mentre l’occhio freddo e distaccato del regista (che evita i primi piani e privilegia i quadri d’insieme i quali riducono l’alpino a macchia nel paesaggio) sembra interrogarsi sul senso ultimo di questa aspra e sanguinosa contesa. Per un fazzoletto di pochi chilometri quadrati, sassoso e orrendo, si soffre la fame, si vive ammassati in trincea rievocando la quiete del paese natio, si viene feriti e si muore sotto i colpi di un nemico lontano e invisibile. Gli alpini – corpo unitario permeato da un meraviglioso afflato collettivo – fanno il proprio dovere e il loro ufficiale è il primo a preoccuparsi per non esporli a inutili pericoli; durante la lunga campagna di cui il film offre una quotidiana, spoglia cronaca, in nessun momento gli omini mettono in dubbio il proprio ruolo e la propria funzione e, proprio per questo incredibile, provocatorio silenzio, il film appare radicalmente ostile a quella guerra che va descrivendo, una guerra di cui sfugge completamente il senso ultimo. Baffico evita di entrare in questa materia spinosa (non può farlo in alcun modo; il suo deve comunque essere – considerando i tempi e i modi – un prodotto “patriottico”) eppure ogni gesto, ogni sofferenza, ogni morte vengono sottolineate negativamente, in una cornice filmica di profonda desolazione la cui motivazione ultima consiste proprio nell’evidente smarrimento degli autori nei confronti di una guerra – quella sul fronte greco, aperta dalla faciloneria criminale del regime – di cui si avverte l’inutilità e l’insensatezza. Mai una pellicola dell’epoca fascista è parsa tanto scettica e, a suo modo, pacifista; mai un senso di disagio e di profonda commiserazione per il destino di uomini mandati inutilmente allo sbaraglio, è emerso in modo tanto netto e coerente. L’atteggiamento di distanza critica viene comprovato poi dalle continue critiche all’organizzazione generale della macchina bellica italiana: manca il grasso del lubrificare le armi, mancano i viveri e i piloti che finalmente li inviano, tramite lanci, sbagliano il bersaglio e li regalano al nemico (implicita qui la critica all’aeronautica ovvero al settore più fascista dell’esercito); insomma una guerra illogica e, per giunta, gestita con approssimazione. Raramente un film bellico, finanziato per propagandare l’eroismo dei soldati al fronte, ha offerto una quadro altrettanto mesto e disilluso: dei trecento, solo diciannove (è morto anche il comandante, evento luttuoso di evidente portata simbolica) riescono alla fine a conquistare il famoso costone e la pellicola termina mentre ci si chiede se sarà possibile tenerlo a lungo. Tutto è incerto e vagamente assurdo, quasi kafkiano al punto che non sembra fuori luogo notare alcune somiglianze tra la pellicola di Baffico e il ben più celebre Orizzonti di gloria di Kubrick (1957), film che descrive una situazione in gran parte simile (la vita in trincea, il nemico potente e invisibile che facilmente massacra gli antagonisti), seppure guidandola verso esiti di differente caratura melodrammatica. L’unico elemento certo – e positivamente valutato – consiste nella rassicurante presenza di un cappellano militare ovvero nel conforto della religione di quella Chiesa cattolica che da un paio di anni è divenuta l’unica ancora certa cui aggrapparsi (molteplici sono – come si è detto più volte – i film che registrano questo nuovo orizzonte ideale) sebbene le sobrie cerimonie liturgiche non possono non configgere ed apparire assurde (ricevere la comunione e poco dopo andare a uccidere) con l’insensata cornice bellica. Tanto più che dall’altra parte del costone ci sono ancora dei cristiani, seppur prevalentemente di rito ortodosso. Anche il commento musicale evita toni enfatici e si abbandona spesso a litanie stranamente sepolcrali, mentre la memorabile sequenza del mulo Tiratardi che affoga nel fango nonostante i disperati tentativi dell’alpino di salvarlo – uno dei rari episodi di forte drammaticità, segnato da una serie di struggenti primi piani dell’animale sofferente – assurge a segreta valenza simbolica, finendo per alludere alla situazione complessiva di un esercito e di una nazione trascinata verso un ineludibile destino di morte (ben evidente quando si è ormai giunti agli inizi del 1943) da una nomenclatura politica avventurista. E poco cambia se, in una sequenza successiva, Tiratardi “miracolosamente” ricompare (è dunque riuscito, da solo, a uscire da quelle “sabbie mobili”): l’Italia nel suo complesso, alle soglie del disastroso armistizio di settembre, non sarà in grado di attuare alcun miracolo. Inutile dire che questa ammirevole pellicola è stata completamente obliata dai successivi storici del cinema, preoccupati esclusivamente di esaltare quei prodotto filmici postbellici capaci – per il tramite di una desolazione generica e artefatta – di portare voti al fronte unitario delle sinistre. Il pregevole documento di Baffico andava assolutamente cancellato dalla memoria storica (Lizzani lo recensisce nel 1943 e già allora lo definisce “materiale inutile, di scarto”) sia perché mostrava un cinema critico e sinceramente problematico, senza essere però antinazionale (nelle differenti direzioni del filo-americanismo e del filo-comunismo), sia perché offriva un alto esempio di arte filmica ottenuta con i mezzi di un documentarismo (i volti comuni dei reduci, intensamente espressivi e slegati da qualunque logica “attoriale”) piegato a esigenze narrative, ossia offriva bella e conclusa la futura formula del “rivoluzionario” neorealismo.
Muore a Roma il 17 gennaio 1972.

Filmografia

La danza delle lancette , (1936), regia
Terra di nessuno , (1939), sceneggiatura e regia
Incanto di mezzanotte , (1940), soggetto e regia
Mare , (1940), sceneggiatura e regia
I trecento della settimana , (1943), soggetto, sceneggiatura e regia
Ogni giorno è domenica , (1944), sceneggiatura e regia (girato a Venezia)
Trent’anni di servizio , (1945), sceneggiatura e regia (girato a Venezia)
La sposa non vestiva di bianco , (1950), sceneggiatura e regia

Televisione

RAI
Gli argini, documentario sul Polesine, di Mario Baffico, testo di Gaetano Baldacci, trasmesso il 3 gennaio 1955.
Poltronissima, Testi di Mario Baffico, Ettore Scola e Riccardo Morbelli, con Isa Barzizza e Enrico Viarisio, programma di 6 puntate dal 3 ottobre 1957 al 14 novembre 1957.

Bibliografia

Dizionario Bolaffi del Cinema Italiano, i registi Torino 1979.

La breve esperienza di Mario Baffico

La Sardegna rimane sempre ai margini e la ‘‘magnifica invenzione’’ dei fratelli Melie`s preferisce altri lidi. Quando poi gli schermi sono pieni di immagini che offrono un corrispondente visivo della nascente dittatura, e via via che cresce il ‘‘consenso’’ sulla politica del duce, con le passeggiate imperiali in Abissinia e la spedizione in difesa della civiltà cristiana minacciata dai comunisti atei in terra di Spagna, si arriva agli estremi della ‘‘cronaca eroica’’ densa di effetti propagandistici, proprio allora un giovane regista sardo,Mario Baffico, organizzatore di cineclub,cresciuto all’ombra frondista dei GUF, esordisce con Terra di nessuno, da un racconto di Luigi Pirandello sceneggiato da Corrado Alvaro, di cui il ‘‘New York Times’’ esalta il «background realistico». Il neo regista, dalle pagine di una rivista diretta dal suo maestro Alessandro Blasetti, improvvisa e rafforza un leit-motiv contro un certo cinema nazionale trapiantato in Ungheria, una volta vista Oggi sposi, insulsa commediola d’evasione: «L’Italia che si vede nel film non è l’Italia. E’ necessario abbandonare ogni falso esotismo e orientarsi essenzialmente su personaggi tipici italiani, andare tra la nostra gente ricca di carattere e di schietti sentimenti». Proprio Baffico, prendendo a pretesto con Mare (1939) i ‘‘racconti dal vero’’ dell’arcipelago maddalenino, dove è nato e ha trascorso l’adolescenza, descrive l’avventura di tre marinai, reduci dall’America con un buon gruzzolo, che decidono di comprarsi una barca a motore e di dedicarsi alla pesca, superando sorde ostilità e aperti boicottaggi. «Quando ci e` dato di vedere un film come questo – commenta ‘‘Bianco e nero’’, diretto da Luigi Chiarini – in cui si descrive un aspetto della vita del nostro popolo, pensiamo sempre che proprio la`, in quell’inesauribile fonte di soggetti, che occorre cercare le trame per il nostro cinema». Il vecchio Enrico Guazzoni, regista in voga nell’Italietta tardo giolittiana e fin da allora assai sensibile alla magniloquente sirena dannunziana (Cabiria), segue il consiglio e va a girare Oro nero (1940) con una troupe italo-tedesco-spagnola (Juan De Landa, Carla Candiani, Frederick Benfer) nelle miniere di Carbonia, inaugurate dal duce qualche anno prima. Diego Calcagno, su ‘‘Film’’, stavolta si cimenta in una dura stroncatura: «Oro nero e` un film oscuro come la materia che tratta. Lo spirito e l’atmosfera di un ambiente come quello delle miniere sarde avrebbe dovuto avere manifestazioni molto meno esteriori. Il panorama di Carbonia brilla all’orizzonte nella storia molto tenue di un ragazzo e di una ragazza che si amano. L’idillio svagato e un po’ fantastico continua, ora nell’ombra delle stillanti pareti, ora nelle strade del fervido centro isolano. Il racconto e` semplice ma difficile, e Guazzoni non ha certo eguagliato altre fortunate prove». In una società nascosta, gli uomini nascosti come possono vedere la storia di altri uomini nascosti nelle viscere delle miniere o nelle zone pastorali? Non c’è spazio per la Sardegna, e non c’é spazio per l’Italia che lavora e soffre mentre si allunga la ‘‘guerra lampo’’. Mentre qualche spiraglio si apre, con Ossessione di Visconti, Sissignora di Poggioli, Quattro passi fra le nuvole di Blasetti, I bambini ci guardano di De Sica, una ‘‘promessa’’ come Baffico si accinge a bruciare il suo talento nel macabro incendio della repubblichina di Salo`.