Il matrimonio alla Sardesca
Con l’entrata in vigore della legge 19 maggio 1975 n.151 sulla riforma del diritto di famiglia è stato introdotto nel nostro ordinamento giuridico il principio secondo il quale, in mancanza di diversa convenzione, il regime legale dell’unione coniugale è costituito dalla comunione dei beni.
Con il nuovo diritto di famiglia, dunque, contrariamente a quanto era previsto dalle norme del codice civile precedentemente vigente, vengono a far parte della comunione familiare gli acquisti compiuti dai coniugi, insieme o separatamente, in costanza di matrimonio, i frutti dei beni propri di ciascun coniuge e delle aziende gestite da entrambi e costituite dopo il matrimonio ed i proventi delle loro attività separate.
Questo moderno istituto giuridico, ritenuto finora “estraneo ai costumi italiani”, non era tuttavia del tutto “estraneo” in alcune province e in particolare in Sardegna, ove la comunione dei beni fra coniugi, consolidata fin dal medioevo, aveva vissuto una storia più che secolare.
Senonchè il regime di comunione dei beni praticato in Sardegna, comunemente detto “a sa sardisca” (alla sardesca) o “coivìu a mes’a pare” (a metà), è stato sempre oggetto, come dice il Marongiu, “di vive e non sopite discussioni …tra coloro i quali hanno sostenuto la prevalenza, nel mondo isolano, della comunione generale e gli altri, sostenitori, invece, della priorità o poziorità di quella limitata ai soli beni acquistati in costanza di matrimonio”.
Sul punto, tutte le varie fonti, costituite dalle schede dei Condaghi (specificatamente quelli di S.Pietro di Silki, di S.Michele di Salvanor e di Bonarcado), ma più dettagliatamente i numerosissimi testamenti, capitoli matrimoniali e formulari notarili, forniscono elementi spesso contrastanti ed i diversi studiosi che si sono ampiamente interessati dell’argomento, in particolare Francesco Shupfer, Francesco Brandileone, Federico Ciccaglione, Francesco Ercole, Enrico Besta, Ennio Cortese, il già citato Antonio Marongiu e tanti altri, hanno a lungo dibattuto la questione.
Fra gli autori del passato, propendendo per la tesi dell’universalità il Solmi, nella sua “Storia del diritto italiano”, afferma che “…nei paesi rimasti più a lungo bizantini, come la Sicilia, la Sardegna e l’Istria …si svolge, nella consuetudine, il sistema della comunione universale dei beni, per cui tutti i beni e crediti dei coniugi anteriori e posteriori al matrimonio, si raccolgono in una massa comune sorgente con le nozze …e su questa massa i coniugi e i figli affermano il diritto ad una quota ideale, un terzo, che venendo al monento delle divisione, poteva diventare reale e che costituiva così la garanzia recioproca dei coniugi in caso di vedovanza”.
Per contro il Mameli de Mannelli, nel 1905, così definisce il matrimonio “a modo sardiscu”:
“Il matrimonio alla sardesca si è quello nel quale non è intervenuta dote, né altri fatti, e che produce l’effetto di rendere comuni secondo l’antica consuetudine di Sardegna, i lucri tutti che si fanno durante il matrimonio dal marito, e dalla moglie, compresi i frutti de’ beni, che l’uno, o l’altro consorte avesse da prima, o che gli provenissero in progresso per eredità, donazione, o altre simili cause, ma esclusa dalla comunione la proprietà di detti beni già posseduti o pervenuti dopo per le cause suddette: quindi morendo il marito testato o intestato, si separano a favore della moglie la metà di detti lucri, ed acquisti fatti co’ i medesimi, i quali le appartengono in pieno dominio; e viceversa in morte della moglie”.
Lo stesso autore continua potendo in rilievo che: “La Carta de Logu non ha introdotto il matrimonio alla sardesca, ch’era in uso molto prima della compilazione di essa, ma rende irrefragabile testimonianza dell’antichità di tal consuetudine”.
Difatti, il Codice di Eleonora, al primo capitolo, a proposito della confisca dei beni nei confronti del Giudice condannato per alto tradimento stabilisce “…ed issos benis suos tottu deppiant esser appropiados assa Corti nostra, dummodu chi sa donna coyada assa sardisca, over a dodas non perdat sa parti sua” e nel secondo capitolo, relativamente al reato di attentato alla sicurezza e all’onore del Giudicato, prescrive “…ch’in casu su dittu traidori havirit mugeri, ed esserit coyada assu modu Sardiscu, sa ditta mugeri appat sa parti sua senza mancamentu alcunu”. Possiamo dunque constatare come la Carta de Logu si limiti a prendere atto dell’esistenza del matrimonio alla sardesca, senz’altro consolidato retaggio bizantino, confermandone appieno la validità giuridica.
Per ultimo l’argomento è stato trattato in due studi di Eleonora Mura apparsi sui numeri 2 (1976) e 5 (1979) del bollettino dell’Archivio Storico Sardo di Sassari, nei quali l’autrice, dopo aver esaminato le diverse tesi che da un lato attribuiscono alla comunione dei beni familiari in Sardegna il carattere dell’universalità dell’altro quello della comunione legale o tacita dei soli lucri e acquisti, conclude di non essere “…in grado di poter aderire all’una o all’altra teoria anche se si potrebbe propendere per quella della comunione dei lucri e acquisti” e ciò in quanto “…alcuni documenti presi in esame frenano questa nostra adesione anche in considerazione del fatto che i testi legislativi sardi non aiutano assolutamente per la risoluzione del problema”.
In effetti va posto in rilievo che il matrimonio “assa sardisca”, contratto in comunione tacita di lucri e acquisti, era diffuso fra le classi meno abbienti che iniziavano la vita matrimoniale senza alcun apporto di beni o patrimonio pregresso, mentre il matrimonio “assa pisanisca” o quello dotale (“a dodas”), era in genere contratto dalle classi più elevate. Il secondo assumeva quasi sempre forma contrattuale scritta per cui le fonti a cui attingere sono innumerevoli, mentre il primo, quasi sempre “tacito”, offre pochissimi riscontri documentali. L’origine di quest’ultimo è indubbiamente connessa alla peculiarità dell’economia pastorale sarda nella quale la partecipazione della donna nella formazione del reddito familiare non è occasionale o stagionale come nell’economia esclusivamente agricola, ma è invece costante e quotidiana. La donna era certamente consapevole della valenza paritaria con quella dell’uomo nella costituzione del patrimonio familiare e non mancava di far valere i suoi diritti. In genere era poi la moglie che reggeva l’economia familiare in quanto il momento della commercializzazione dei prodotti coincideva quasi sempre con il periodo di assenza del marito e dei figli maschi impegnati nella transumanza.
Ai dubbi della Mura, che traggono certamente origine dalle carenze documentali sul matrimonio “alla sardesca”, sul numero 7 (1981) del bollettino dell’Archivio Storico Sardo di Sassari, replicava il prof. Antonio Marongiu che, all’affermazione della giovana studiosa secondo la quale “…la vivace e dibattuta polemica …avrà termine il giorno in cui si rinvenga un documento che possa dire l’ultima parola”, offriva notizia di un testamento dell’agosto 1831 rogato ad Ozieri dal notaio Antonio Sulas a seguito del quale Giuseppa Cocco, moglie del testatore Michele Schintu, in sede di inventario, dopo aver premesso che “…fu maritata all’uso sardesco tanto nelli acquisti che nei miglioramenti fatti pendente il matrimonio”, rivendicava, oltre alla sua metà, anche gli altri diritti “…che li spettano come vedova giusto il disposto della legge, nei quali non intende punto né poco pregiudiziarsi, anzi se li riserva salvi ed illesi in quella miglior maniera, che ha luogo in dritto”.
Alla luce di quest’ultimo documento, pronunciandosi definitivamente in favore della tesi della comunione dei lucri ed acquisti, il Marongiu così conclude: “L’atto dimostra, ci sembra, la continuità dell’usanza matrimoniale “sardesca” già riscontrata nei Condaghi fino all’epoca sabauda. Il documento va considerato, speriamo, momento ultimo e conclusivo della dibattuta questione della comunione dei beni tra coniugi in Sardegna”.
Noi siamo andati oltre rintracciando un testamento del 1835, redatto quindi quattro anni dopo di quello che il Marongiu considera “momento ultimo e conclusivo”, il quale conferma la tesi dell’insigne studioso sardo e fornisce chiari particolari sull’effettivo regime di comunione di lucri e acquisti vigente in Sardegna. Il testamento, che porta la data del 1° gennaio 1835, fu redatto dal notaio Leonardo Mundula di Tempio e successivamete registrato dal notaio Nicolò Terzitta Azara il 4 aprile al Reg. 8 dell’Insinuazione di Tempio, foglio 92, n.4, essendo il notaio Mundula deceduto il 22 gennaio senza aver portuto provvedere all’insinuazione.
In detto testamento la vedova Giovanna Mundula nata Piras, dopo aver premesso qual’era il regime matrimoniale col defunto marito, disponeva:
“Dichiaro, che al tempo che contrassi matrimonio col mio defunto marito Pietro Mundula, fu fatto il medesimo alla sardesca senza che io, né lui portassimo al medesimo alcuna somma né stabile in beni di fortuna: la Provvidenza però volle d’aver fatto nel medesimo acquisto di una casa di tre stanze dentro questo popolato e rione detto di Sant’Antonio, in prezzo di scudi cento settantacinque. La disgrazia però volle d’esser passato a miglior vita da anni quattro a questa parte il detto mio marito intestato con aver lasciato tre figli ed io gravida, cioè un maschio e colla postuma tre femmine, chiamato il maschio Antonio Pasquale e le femmine Maddalena, Maria Maddalena e Pietruccia Mundula Pintus, quali tutte e tre le femmine sono morte in età pupillare, e vive il maschio detto Antonio Pasquale, e non essendosi formato inventario dietro il decesso di detto comun Padre dei pochi beni lasciati, e fatti in comunione, per contare in ogni tempo, avendo viva e chiara la specie di essi li manifesto oggi per allora, come comuni, e divisibili tra marito e moglie, consistenti in detta casa di tre stanze, un cavallo venduto scudi sardi trentacinque, scudi trenta prezzo di giovenchi esistenti al decesso, scudi centocinquanta che portava negoziando il predetto mio marito, consistenti in pellami e roba concia, il numero di pecore diciassette, scudi cinquantadue in denaro contante e vari effetti e mobili di casa che farebbero in denaro l’ammontare di scudi novanta, senzachè vi fossero stati altri beni. Dichiaro che dall’epoca del decesso di questo mio marito a questa parte ha acquistato per mia industria e lavori altri beni a mio solo vantaggio. Dei suddetti e rimanenti miei beni, avuti e per avere, ed a me per qualunque dritto spettanti istituisco mio erede universale il prelodato mio figlio Antonio Pasquale Mundula Pintus di questo luogo di Tempio acciocchè, seguito il mio decesso, abbia a possederli con la benedizione di Dio, e mia, per esser questa la mia volontà”
Quest’ultimo testamento, nel quale vengono enunciati come comuni non solo i lucri e acquisti fatti in costanza di matrimonio, ma anche i redditi di attività separate, consente definitivamente di affermare che il principio della comunione dei beni fra coniugi, recente conquista delle donne che in passato erano certamente meno favorite nelle controversie ereditarie in caso di premorienza del marito, era invece largamente applicato nella Sardegna medioevale e successivamente in quella spagnola e sabauda, anche se vi furono dei decisi interventi dei pisani e dei Gesuiti che avevano interesse a farlo scomparire da quella pratica consuetudinaria che, pur senza specifica codificazione, lo aveva fatto assurgere in tutto il territorio isolano a piena validità giuridica.
Riteniamo però che nessuno, prima d’ora, abbia mai avuto l’occasione di verificare se tale antica tradizione sarda sia stata o meno applicata nell’isola di La Maddalena, la cui comunità, sorta dopo l’occupazione militare del 1767 da un primo nucleo di abitatori corsi con successivi apporti di una variopinta etnia proveniente da ogni parte del Mediterraneo, non aveva certamente radicati nella propria tradizione i principi giuridici consuetudinari da secoli consolidati presso le popolazioni dell’Isola madre. Non era perciò noto se nella nostra isola fosse praticata la comunione dei beni fra coniugi.
A soccorrerci in questa ricerca è valso l’esame di un testamento del 10 febbraio 1832 (redatto quindi sei mesi dopo di quello citato dal Marongiu) con il quale il patron Domenico Polverini del fu Pasquale, disponeva dei propri beni a favore dei figli Andrea, Giacomo, Giovanni, Pasquale, Mariangela e Battista, consegnando l’atto nelle mani del notaio Salvatore Sini che al momento della sua morte, avvenuta il 15 giugno 1834, ne curò la pubblicazione sull’istanza degli eredi.
Dal contenuto di questo testamento, che apprendiamo essere stato materialmente redatto dal vice parroco don Michele Mamia Addis, alla presenza del teste Simone Ornano, non sottoscritto dal testatore per essere il Polverini “illitterato”, emerge chiaramente che lo stesso, la cui moglie era premorta, enumerando i beni ed i valori lasciati in eredità ai propri figli, compie atti di disponibilità solo sulla metà di essi e precisa nell’atto stesso:
“Dichiaro, che al tempo che morì mia moglie, la fu Maria Polverini, e con cui era unito in matrimonio senza capitoli matrimoniali, ed alla Sardesca non si fece inventario, ed i beni acquistati costante matrimonio colla medesima sono gli stessi che attualmente io possiedo, e raccomando caldamente ai miei carissimi figli che sulla porzione loro spettante per parte materna procurino come di dovere di far dei suffragi per l’anima di detta moglie, e loro Madre essendo tenuti in coscienza di ciò eseguire, come io espressamente l’incarico”.
Il documento, che costituisce ulteriore e significativa conferma della tesi del Marongiu, prova che il Polverini non aveva alcun potere sulla metà dei beni acquistati con il coniuge durante la vita matrimoniale e che degli stessi non poteva disporre se non limitandosi alla semplice raccomandazione ai figli di far dei suffragi per l’anima della loro madre.
Siamo quindi in presenza di un matrimonio contratto “senza capitoli matrimoniali”, cioè senza alcuna pattuizione scritta e senza patrimonio pregresso di nessuno dei coniugi. Il patrimonio del Polverini, dunque, fu costituito interamente in costanza di matrimonio con Maria Ornano (nell’atto indicata con il cognome maritale) ed era pertanto interamente comune ai due coniugi.
E’ tuttavia singolare il fatto che il Polverini, dopo aver raccomandato ai figli di far dei suffragi per l’anima della loro madre con la parte dell’eredità materna, proseguendo nelle disposizioni testamentarie faccia poi per sé analoga raccomandazione con spese a carico della quota ereditaria paterna. Comunione di beni in vita, dunque, e messe a spese separate in morte.
Possiamo quindi affermare, offrendo così un ulteriore contributo alla dibattuta questione sul matrimonio “alla sardesca”, che anche a La Maddalena, città che all’epoca delle nozze del Polverini aveva pochi decenni di vita comunitaria, grazie all’apporto degli immigrati e delle sempre più frequenti unioni matrimoniali fra isolani e galluresi, era stata acquisita l’antica tradizione sarda del matrimonio in comunione di beni solo di recente entrato a far parte del nostro moderno ordinamento giuridico.