Non votate Garibaldi
Giuseppe Garibaldi, l’uomo che vinse tante battaglie, sia in terra che in mare, amato dalle donne, acclamato dalle folle, stimato dagli amici e temuto dai nemici, non ebbe certamente altrettanto successo nella vita politica italiana alla quale, sia prima che dopo il compimento dell’unità nazionale volle dare il suo apporto rimanendo presente nella camera dei deputati, sia pure con scarsa frequentazione, quasi ininterrottamente fino al termine dei suoi giorni. Del politico non aveva certamente la stoffa e non ne vestì neppure gli abiti: il Garibaldi che nell’epoca delle tube e dei colletti inamidati si presentava in parlamento in camicia rossa e poncho, spesso esordendo con discorsi irruenti, non era evidentemente ben accolto né dai colleghi né tanto meno dal Governo.
Eletto per la prima volta deputato nel 1848 nel collegio di Cicagna nel Chiavarese, dopo aver scartato il collegio di Arona nel quale venne poi eletto Alessandro Manzoni, si era poi di volta in volta candidato, malgrado l’opposizione di Cavour, in quasi tutte le elezioni successive, proponendosi in più circoscrizioni elettorali col chiaro intento di trainare uomini a lui vicini e di optare poi per un solo collegio. Più volte nel corso del mandato parlamentare dovette dimettersi quando, vestita la divisa di soldato, partiva per i campi di battaglia.
La crisi di governo maturata alla fine del 1866, cui fece seguito lo scioglimento della Camera, lo vide ancora una volta in lizza in più collegi, tra cui quello sardo di Tempio-Ozieri, cioè del collegio della Gallura, terra della quale, per le amicizie di cui era circondato e per avere eletto la sua definitiva dimora nell’isola di Caprera, si sentiva ormai cittadino. I comizi elettorati erano fissati per il 10 marzo 1867 e Garibaldi, trasferitosi a Firenze, ospite in casa dei coniugi Mario, diede inizio alla sua campagna indicando alle folle osannanti i candidati per cui votare.
Ma dai primi discorsi, la sua, anzichè una campagna elettorale, si rivelò ben presto una campagna per la liberazione di Roma: “Roma è la nostra capitale – dice – e noi vi andremo come si va nella propria casa! Andarci col valore delle armi sarebbe impresa troppo facile, e non siamo usi che ad imprese più ardue; per conseguenza noi avremo Roma per forza di legittimo diritto chiedendolo al nostro Governo“.
Gli stessi discorsi tenne a Conegliano, a Belluno, a Feltre, a Udine, a Treviso e a Verona, lanciando dardi infuocati contro il clero e auspicando che il nuovo governo potesse alfine trovare la forza di andare a Roma senza violenza: “Voi volete Roma – dice ai suoi elettori – e Roma fu sempre il mio sogno dorato. Se avessi cinquanta vite le darei per Roma, capitale del mondo, capitale nostra. Ivi io vi combattei, ivi andremo, senza bisogno di spargere altro sangue. Siamo abbastanza forti per non usar violenza”. E il disegno era chiaro: arrivare a Roma con una soluzione politica.
Ancora una volta Garibaldi era l’uomo da combattere e non poche furono le sottili trame ordite dalle forze politiche governative alle spalle dell’Eroe perché la sua campagna elettorale fallisse ed egli stesso non venisse eletto. E di una delle tante azioni destabilizzanti a suo danno ed in favore di personaggi del passato governo ci fornisce prova documentale una lettera del Gabinetto Particolare del Sottoprefetto di Tempio del 25 febbraio 1867, spedita dunque a pochi giorni dalle consultazioni elettorali che come abbiamo visto dovevano aver luogo il 10 marzo. La missiva, diretta ad una non meglio individuata autorità (manca l’indirizzo), ma certamente persona molto influente e con molti dipendenti, così esordisce: “Onorevolissimo Signore, Persona assai altolocata viene a raccomandare al mio suffragio, nonché a quello degli ottimi cittadini, l’elezione a deputato del Sig. Cav. Domenico Berti ex Ministro ben cognito alla S.V. Pregevolissima, ed altra volta eletto dai Galluresi a rappresentarli in Parlamento. Io non ignoro – prosegue la lettera – trovarsi in campo in questo Collegio la candidatura dell’Illustre Generale Garibaldi persona degna della stima della Nazione, ma sul riflesso che sarebbe tempo perduto il promuoverne l’elezione, mentre Egli verrà infallantemente eletto in altri Collegi del Continente e della Sicilia, e che non potendo ottar per tutti si ha la probabilità che otterrà per il Collegio che ha rappresentato nella passata legislatura, ardisco rivolgermi alla lodata S.V. per conseguire l’elezione del raccomandato Cav.Berti, assicurandola esserne il medesimo degno sotto ogni rapporto”.
E dopo questo chiaro messaggio di fonte ”governativa”, la lettera così conclude: “E nella fiducia d’ottenere in questa circostanza il di Lei potente appoggio passo a protestarmi con distinto ossequio in attesa di un suo riscontro”.
I maneggi contro Garibaldi appaiono ben chiari: analoghe lettere saranno state certamente inviate a tutti i maggiorenti galluresi e siamo certi che scavando negli archivi non sarà difficile accertare che quasi tutte le autorità locali della Sicilia e del Continente, forse con la stessa sovrabbondanza di “g” nella parola “Collegio”, abbiano ricevuto analoghe lettere nelle quali, dopo aver proposto la candidatura di un personaggio gradito al governo, era certamente detto che appariva inutile votare per Garibaldi perchè egli sarebbe stato “infallantemente” eletto dai Galluresi.
E le cose non andarono bene per l’Eroe; il risultato delle elezioni fu infatti deludente per la sinistra. Garibaldi risultò eletto nei soli collegi di Ozieri e di Lendinara, ma non venne eletto nessuno dei candidati da lui indicati, nemmeno Giambattista Cuneo, suo vecchio amico dell’Uruguay. Solo a Messina risultò eletto Giuseppe Mazzini che era stato candidato con la speranza di poterlo far rientrare dall’esilio; ma la sua elezione, per le condanne a morte del 1833 e del 1858, malgrado una petizione che aveva raccolto più di 40.000 firme, fu annullata dalla maggioranza moderata della Camera. L’indignazione degli italiani, tuttavia, fu tanta che il Governo dovette tornare sui suoi passi e convalidare l’elezione. Ma stavolta fu Mazzini, ritenendosi leso nella sua dignità, a rifiutare il seggio.
Il Re, subito dopo le elezioni, conferì l’incarico di formare il governo al suo favorito Rattazzi e questi, come scrive Mino Milani “…annuncia di voler soprattutto pensare all’assetto delle finanze e all’ordinamento dell’amministrazione; riguardo al problema di Roma ha qualche accenno piuttosto vago. Attendiamo, sembra dire Rattazzi, qualcosa accadrà”.
Garibaldi opterà in quell’occasione per il collegio sardo nel quale non era compresa la sua Caprera che, molto stranamente, si trovava invece nell’ambito circoscrizionale del I collegio di Genova. Il 10 aprile scriverà a Giorgio Asproni: “Optai per Ozieri, come vi telegrafai, e sono contento perchè amo la Sardegna con affetto di figlio e vorrei con l’anima poterla servire”. Nei suoi scritti parlerà poi sempre di “…queste generose popolazioni della Gallura”, “…dei miei elettori della Gallura”, e di se stesso come “Deputato della Gallura”.
Ma anche questa tornata politica dell’Eroe si risolse nel nulla. Ogni suo intervento fu palesemente osteggiato ed egli, disilluso e conscio dell’inutilità della sua presenza in Parlamento a favore delle popolazioni sarde, nell’estate del 1868 lasciò la Camera per protesta rivolgendo a chi lo aveva votato il seguente messaggio: “Ai miei elettori, Io ho presentato al Presidente della Camera la mia dimissione da deputato della Gallura, ed il motivo è quello di non potervi essere utile. Ostacoli fisici e più la coscienza di nulla potere ottenere a pro di questa generosa e derelitta popolazione mi hanno tenuto lontano dal Parlamento, e sono addolorato di non avervi potuto giovare nell’immense vostre necessità, ed afflizioni. Comunque però, io sono superbo di appartenervi, ed ove l’occasione si presenti in cui io possa essere utile alla mia terra di adozione, volenteroso vi darò la vita. Sono con affetto e gratitudine. Vostro G. Garibaldi”.
Le sue dimissioni furono accettate il 24 novembre, ma i galluresi non si diedero per vinti; nelle elezioni suppletive del 13 dicembre, dopo un serrato ballottaggio con Demetrio Castelli, Garibaldi, reduce dalla prigionia del Varignano, venne rieletto. Profondamente colpito e commosso della rinnovata fiducia che i sardi ponevano in lui, indirizzò ai suoi elettori una lunghissima lettera che val la pena di riportare per intero in quanto in essa, oltre ai soliti strali ed alle solite invettive contro il Governo e contro il papato, sono riassunti gli avvenimenti della sua relegazione a Caprera, della fuga dall’isola, del tentativo di entrare a Roma, del sacrificio di Enrico Cairoli e dell’infausta giornata di Mentana.
“Ai miei elettori della Gallura, Se vi fu una circostanza in cui mi trovai perplesso, in nessuna lo fui certamente come in questa, della mia rielezione a Deputato della Gallura; trovandomi posto fra l’affetto che nutro per questa care e simpatiche popolazioni, ch’io vorrei servire colla vita, e la ripugnanza di avvicinare un Governo, che si potrebbe chiamare ”negazione di Dio”, come un sommo Britanno chiamò il Governo di Napoli prima del 60, Vecchi repubblicani di principi e di fatti, io e gli amici accettammo in buona fede la Monarchia e da essa altro non si chiedeva che migliorare la condizione di questo povero popolo e mantenerne la dignità in faccia ai prepotenti e del suo vampiro di dieci secoli. E ciò che si ottenne da questo Governo la lascio giudicare da voi.
Tollerante per natura, io ripugno di pronunciar parole acerbe verso chicchessia; e certo per il primo avrei propugnato la riverenza ad un Governo per il bene, qualunque denominazione esso avesse; ma è forse per il bene, il Governo che regge oggi l’Italia?
I miei amici in Parlamento, tra cui l’illustre Cairoli, hanno supplito gentilmente alla mia mancanza, e si sono adoperati per gli interessi di questa nobile provincia; ma che volete che si ottenga da un Governo, non atto ad altro, che far l’esattore di tasse, il dilapidatore dell’erario pubblico, ed infine l’agente di tiranno straniero? E in onore del vero, il contegno di questo Governo negli ultimi avvenimenti dell’Agro Romano, è stato una serie di tradimenti. Vogliate fra tanti, udirne uno solo.
Profittando della mia relegazione a Caprera dopo Sinalunga, ove tanto si fece per tenermi prigioniero, i governanti vollero darsi l’aria di liberatori, e fecero sapere che bastavano pochi tiri di fucile a Roma, perchè essi volassero sul Campidoglio. Ecco l’inganno in cui caddero gli infelici Romani e gli immortali settanta guidati dall’eroico Enrico Cairoli.
Io che conoscevo la fallacia di quei signori dubitai d’un loro generoso proposito; e, tremando per la sorte di quei prodi, mandai ordini al Cairoli di ripiegare su di noi verso la frontiera; ma era già tardi; questa mia prima disposizione sul territorio Romano, non giunse al Cairoli, o giunse dopo la catastrofe.
Io, dopo la mia fuga da Caprera, che non avrei potuto eseguire senza l’aiuto de’ miei eccellenti amici della Maddalena e della Gallura, trovai iniziato il movimento, ed impegnati i miei amici ed i miei figli; sollecitai alla frontiera per avere l’onore di partecipare alla più bella, alla più splendida, alla più generosa delle imprese umane, il rovescio del Governo di Satana. Il 22 ottobre passai la frontiera, il 22 fui col Corpo di Menotti; il 24 assaltammo Monterotondo; il 26 avevamo rintanato l’esercito papale nel recinto di Roma, che per paura faceva saltare i ponti dietro di sè; e noi eravamo sotto le mura della vecchia metropoli del mondo, ricovero di quanto la famiglia umana ha di più schifoso, la maggiore delle glorie italiane; ed infine la capitale nostra, senza di cui l’Italia non è Italia; ma parola da far sogghignare di compassione.
Il 3 novembre quel pugno di giovani, che un Governo che mi vergogno di chiamare italiano, non solo abbandonava, ma vendeva; non solo non assisteva, ma rubava, de’ suoi fucili, delle sue munizioni, del suo pane… E quel pugno di giovani rubati e traditi, eran quelli che avean arricchito gli arsenali dello Stato, con più materiale che non ne possedava prima. E se vi dicono che nel 60 quei giovani non furono sconsigliati, come nel 1867, ma aiutati, rispondete loro che mentono, e lo proverò io quando vogliono.
Le stesse volpi colle stesse gherminelle, tentennando nel 1860 come nel 1867; ma nessuno aiuto, meno quando non si abbisognava, e per ordine di Bonaparte o per compiacergli; marciando nel 60, per combatterci, con un esercito di 4000 uomini, esponendo il paese ad una guerra fratricida (Vedete la nota diplomatica di Farini al Bonaparte); quel pugno di giovani, che non si permetteva ai valorosi di raggiungere, ma bensì al rifiuto delle vilissime polizie, per demoralizzarli e farli disertare.
Infine, quel pugno di giovani, destituiti delle cose più necessarie al milite, pugnava a Mentana per mezza giornata contro due eserciti, e rimaneva per un pezzo padrone del campo di battaglia.
Amici miei affettuosi ! Ho pensato che non sareste indifferenti alla mia gestione, più rivoluzionaria che parlamentare, e bramo vi persuadiate, che le membra non ponno esser sane, con il cuore ammalato; onde, io ho la coscienza di aver seguito la causa della Gallura sulla sponda del Tevere, per cui vive infermo il cuore della patria Italiana. Circa all’inviolabilità dell’individuo, attribuito al deputato, voi sapete come si rispetta in Italia; e non è dunque tale incentivo che mi fa accettare il mandato con cui volete onorarmi, ma bensì l’amore che porto a questo simpatico popolo, che vuol contentarsi della mia pochezza, e che io servirò molto male, ma con tutta l’anima mia. Vostro per la vita. G. Garibaldi”.
E con queste ultime accorate parole l’Eroe esprime il suo ringraziamento al “simpatico popolo” dei galluresi che gli avevano manifestato come sempre il loro affetto eleggendolo ancora una volta quale loro rappresentante malgrado ad essi fosse giunta da parte del governo una sola e univoca parola d’ordine: “Non votate Garibaldi!”.
Garibaldi venne eletto in 8 legislature, la prima nel 1848, come deputato al parlamento piemontese, all’età di 41 anni, nel collegio di Cicagna (Genova), totalizzando 18 (diciotto) voti e questo dimostra l’estrema limitatezza del corpo elettorale (e quindi la scarsa democrazia del regime sabaudo). Durante la guerra contro l’Austria però non sedette mai nell’assemblea di Palazzo Carignano, alla quale venne comunque rieletto nel 1860, come rappresentante della ligure Nizza, dimettendosi quasi subito per protesta contro la svendita della stessa alla Francia. Venne immediatamente rieletto nel collegio di Milano, ed il 12 aprile 1860 tenne il suo primo discorso parlamentare, polemizzando subito duramente col Cavour per la cessione territoriale alla Francia della Savoia e dell’amata Nizza (Nice). Al primo Parlamento italiano, inaugurato a Torino il 18 aprile 1861, partecipò come rappresentante di Napoli e sedette all’estrema sinistra indossando la camicia rossa, onde sottolineare l’apporto dato alla causa italiana dalle forze rivoluzionarie che si identificavano con lui. Venne rieletto in tutte le legislature successive, ad eccezione di quella dei 1870, dato che la campagna elettorale era coincisa con la sua spedizione militare in Francia, nei Vosgi. Infatti, nella guerra franco-prussiana del 1870-1871, Garibaldi guidò truppe volontarie a sostegno dell’esercito della nuova Francia repubblicana. Ancora una volta per meriti di guerra Garibaldi fu eletto nel 1871 deputato alla nuova Assemblea Nazionale Francese nelle liste dei repubblicani radicali in ben 4 circoscrizioni: come deputato della Côte-d’Or, di Paris, di Algeri e, naturalmente, di Nice (Nizza). Questa quadruplice elezione fu, tuttavia, invalidata dall’ Assemblea: ufficialmente a causa delle sue posizioni contrarie alla annessione di Nizza alla Francia, ma anche per paura della sua popolarità di eroe troppo “battagliero”. Successivamente, nel 1872, venne eletto nuovamente al Parlamento italiano nella nuova capitale Roma, ma si dimise dall’incarico parlamentare nel maggio 1876 per i forti disaccordi e dissensi con colleghi e governanti. Quando diede le dimissioni da deputato, Garibaldi scrisse alla redazione del giornale romano “La Capitale”: “Non voglio essere tra i legislatori di un paese dove la liberta’ e’ calpestata e la legge non serve nella sua applicazione che a garantire la liberta’ dei gesuiti ed ai nemici dell’unita’ d’Italia.” – “Tutta’ltra Italia io sognavo nella mia vita, non questa, miserabile all’interno ed umiliata all’estero”.
Il poncho sudamericano del Generale Garibaldi che lo portò dal Sud America, ove soggiornò dal 1835 al 1848. Anche il poncho è entrato nella leggenda, proprio a identificare quel particolare periodo dell’avventurosa vita dell’Eroe dei due mondi. Compendio Garibaldino – Caprera