Il pane del re, materiale e spirituale
Des Hayes pensava di dover combattere anche contro il fenomeno dell’abbandono delle isole da parte degli abitatori preesistenti allo sbarco delle truppe sarde. Qualcuno, infatti, aveva detto a Brondel che buona parte degli isolani aveva lasciato l’isola prima dello sbarco delle truppe non volendo, evidentemente, accettare la sovranità sarda. Il viceré rammaricato e preoccupato del fatto sollecitò il vassallo comandante del pinco: “per quelli che ancora vi fossero restati ella procurerà di avere tutta la prudenza ed usare tutte le belle maniere per allettargli a non partirsene assicurandoli della protezione di S.M. e del governo”. Des Hayes intervenne anche su La Rocchetta, dandogli delle indicazioni per l’inverno che avanzava e sul sostegno da fornire agli isolani che avevano scelto di stare nelle isole. Per quelli che volessero recarsi a Bonifacio nessuna resistenza, ordinava il viceré, ma si doveva fornire loro il passaporto, segno di autorizzazione dell’autorità legittima, e invitarli a ritornare, ma senza particolare pressione. Il comandante del distaccamento rassicurò il viceré con un dispaccio del 24 ottobre, in cui forniva anche delle altre utili informazioni sull’atteggiamento degli isolani. “E’ ben vero – scriveva La Rocchetta – che è stato assicurato al signor Brondel che un certo numero degli abitanti di qui avevano abbandonato le isole prima del nostro arrivo, ma tuttavia posso assicurare che non è così. Ho già il ruolo delle famiglie sia della Maddalena che di Caprera, e non manca che un solo bonifacino che si è sposato, il quale è assente da tre mesi e che sarebbe già rientrato se io non lo avessi impedito fino alla conclusione della quarantena. Di più, non c’è segnale che qualche isolano se ne vada. Essi seminano i loro terreni, le loro donne e figlioli lavorano con i nostri soldati ai trasporti dei materiali che sbarchiamo, guadagnano qualche reale, ciò che fa’ loro molto piacere per il fatto che sono estremamente poveri”.
L’orzo, le mercedi e il pane
La vera lotta fu quindi alla povertà e per la sussistenza degli isolani, che rappresentarono subito le loro difficoltà a La Rocchetta, e che Brondel e De Nobili già conoscevano. Il maggiore così le raccontò al viceré: “Ieri prima di mezzogiorno una delegazione degli abitanti è venuta a dirmi che avendo una parte dei loro effetti in Corsica, vorrebbero sapere se si permetterà loro fra una quindicina di giorni andare a ritirarli. Altri dicono che non osano andare in Bonifacio nel timore di esservi arrestati e che avendo avuto un pessimo raccolto non hanno di che sussistere per l’inverno. Ho detto loro che V.E. forse permetterà di andare a far provviste in Sardegna ed essi hanno risposto che questo permesso non è loro utile, in quanto non conoscendo nessuno in Sardegna non hanno motivo di credere che qualcuno faccia loro credito al posto dei mercanti di Bonifacio che hanno fatto ogni inverno dei crediti”. La bugia di non conoscere nessuno era in Sardegna non dovrebbe aver convinto il maggiore La Rocchetta, però, era consapevole che nessuno dei pastori della Gallura avrebbe potuto soccorrerli a prezzi diversi di quelli dei bonifacini, e che gli isolani cercavano proprio la protezione del governo. Successivamente, infatti, il comandante fu in grado di esporre una proposta meglio definita in una lunga nota riassumibile in questi termini. Sia alla Maddalena che a Caprera c’è un numero di famiglie indigenti che hanno bisogno di un soccorso per sopravvivere. Queste povere persone avevano prima d’ora la risorsa dei mercanti bonifacini che facevano loro delle anticipazioni, prevedendo la restituzione al tempo del raccolto. Questa porta è ora per loro chiusa. Giacché i bonifacini non osano più dare loro niente, essi non possono passare l’inverno se i buoni uffici di V.E. non arrivano in loro soccorso. Chiedono dell’orzo a credito per non indebitarsi troppo, offrendo di pagarlo alla raccolta. Un certo Pietro Millelire, che si può ritenere qui come il capo della tribù, che ha dello spirito e mi pare un onest’uomo, mi ha detto che se V.E. si degna di inviare per la Maddalena 130 starelli d’orzo, misura di Tempio, e 60 per Caprera, tutto ciò sarà ragionevolmente un buon soccorso. Si offre lui stesso per la distribuzione di quest’orzo, incaricandosi anche di ritirare a suo tempo dai diversi soggetti il montante del rimborso. La richiesta venne accolta, e Des Hayes nello stesso dispaccio relativo ai gatti ordinò al governatore di Castelsardo anche l’invio dell’orzo. Spettò al nuovo comandante del distaccamento delle isole capitano Pestalozzi, successore di La Rocchetta e già suo secondo nella spedizione, di informare i pastori dell’accoglimento della richiesta d’orzo e sovrintendere alla operazioni di distribuzione che ne fece Pietro Millelire.
Per conto suo La Rocchetta, secondo le istruzioni ricevute, aveva iniziato ad utilizzare le imbarcazioni dei maddalenini e loro stessi, pagando il nolo per quelle e le mercedi per questi. Gli isolani misero da subito a disposizione del maggiore comandante le tre imbarcazioni che avevano “in comune”, formarono 5 squadre pronte a muovere a chiamata e nominarono tra di loro una sorta di coordinatore. Furono spesso impiegati nel trasporto di materiali e uomini, e per un certo tipo di comando La Rocchetta riferì che: “li ho già inviati tre volte con il vivandiere a cercare del vino in Sardegna, essi hanno marciato di buona grazia e sono stati ragionevolmente ben pagati”. Particolarmente apprezzata fu, infine, la possibilità di acquistare il pane sfornato dal forno del distaccamento a prezzo particolarmente conveniente che oggi chiameremmo “prezzo politico”. Sul peso del dato economico sulle scelte di campo dei pastori isolani abbiamo un testo illuminante di La Rocchetta al viceré di fine ottobre, cioè quando ancora il comandante non aveva un giudizio ben formato sull’indole dei maddalenini e ciò nonostante poteva affermare con determinazione che: “E’ talmente certo che questi paesani qui non intendono per nulla perdere il pane che i più saggi tra di loro mi hanno detto che il cancelliere di Bonifacio e altre persone avevano loro insinuato di opporsi alla nostra entrata, ma che erano troppo saggi per volersi sacrificare e incorrere nella disgrazia di un sovrano”. Ancora a cose fatte quei pastori mantenevano il doppio gioco, per accreditarsi presso i nuovi padroni per accattivarsene le simpatie.
Il pascolo spirituale
Pur non avendone documentazione formale, è scontato che mons. Carlo Carta, vescovo di Ampurias e Civita, avesse fornito don Michele Demontis dell’autorizzazione a svolgere le “funzioni di parroco” anche per i pastori, così come gli richiedeva il viceré “a nome di S.M.”. Nella stessa patente di nomina del cappellano si legge testualmente: “Venendo Noi di destinare un distaccamento nelle Isole tramezzanti la Sardegna e la Corsica dette i Carruggi, essendo necessario di provvederlo d’un Cappellano perché presti tanto al medesimo che a quelle piccole Popolazioni tutta quell’assistenza, onde abbisognassero”. Come da istruzioni, La Rocchetta nei giorni festivi faceva dare il segnale col tamburo, in mancanza di campana, e il cappellano celebrava la messa e amministrava i sacramenti sia alla truppa che agli isolani. Più in generale era compito del maggiore La Rocchetta “procurare che quei miseri vengano da lui insensibilmente istruiti ne’ Misteri della nostra Fede, ed altri doveri del cristiano, tale essendo la precisa intenzione di S. M.”
La questione dell’assistenza religiosa ai pastori corsi delle isole era stata sempre presente all’attenzione di tutti nel lungo periodo di preparazione, e tutti ritenevano che il superamento della dipendenza dalla parrocchia di S. Maria Maggiore di Bonifacio degli isolani e delle loro famiglie era una soluzione obbligata per dar corso ad una nuova vita istituzionale e comunitaria nelle isole. La presenza di un cappellano del distaccamento che fungeva anche da parroco per i civili non era comunque destinato a durare. Des Hayes, per ciò, sollecitava il vescovo a trovare un sacerdote diocesano da impegnare nelle isole, e disponeva di non far gravare le spese per il mantenimento del parroco sui poveri pastori, esonerandoli dalle decime. La soluzione stava nel ribaltare la situazione iniziale: invece di essere il cappellano militare di nomina vicereale a fungere da parroco su delega del vescovo, doveva essere il parroco nominato dal vescovo a fungere da cappellano del distaccamento su delega vicereale. Il mantenimento del sacerdote inviato da mons. Carta sarebbe stato così a carico della cassa regia. Avrebbe, infatti, percepito lo stipendio mensile di 25 lire di Piemonte e una razione giornaliera di pane quale cappellano delle truppe. La situazione precipitò perché don Demontis fu assalito dalle febbri malariche, con la diagnosi fatta con le parole del tempo: “travagliato da una febbre putrida maligna detta d’intemperie. Avendoli pure lasciato una debolezza di vista”. Il cappellano, quindi, fece istanza di essere rispedito a Cagliari, e Des Hayes insisteva con mons. Carta perché individuasse un successore di don Demontis. “Procuri scegliere al più presto – scrisse il 12 novembre – un prete di sufficiente abilità, intelligente della lingua italiana il quale sia provvisionalmente capace di servire di cappellano al predetto distaccamento e di parroco a quegli individui” e che avesse “delle opportune qualità e inoltre una presenza rispettabile”.
Mons. Carta dovette trovarsi in difficoltà, nonostante la buona copertura economica, ad inviare un sacerdote in un ambiente tanto difficile, di frontiera. Inizialmente indicò un cappuccino di cui si ignora il nome e la provenienza, e solo dopo il periodo natalizio trovò la soluzione con l’invio del canonico Virgilio Mannu. Il viceré inizialmente nicchiò, argomentando che un canonico starebbe meglio nella sua chiesa, ma finì per accettare il dato: “se Ella ha giudicato non esservi miglior soggetto, non ho riparo che vi attenda in qualità di parroco e cappellano all’isola Maddalena”. Don Michele Demontis rientrò a Cagliari, dove riprese le funzioni di cappellano abbinato al fratello, anch’egli cappellano, assistendo la truppa del presidio e i forzati. Ebbe anche il compito di assistere i poveri della chiesa della Speranza nel quartiere di Castello, a cui distribuiva l’elemosina del governo su indicazione del segretario del viceré, oltre a curare l’istruzione catechistica. Il canonico Virgilio Mannu, secondo i dispacci tra Cagliari e Castelsardo, arrivò alla Maddalena in una data imprecisata nella prima quindicina di gennaio 1768, e avviò la sua breve azione pastorale, che si interruppe a fine febbraio dell’anno successivo. In occasione, infatti, di un suo rientro a Tempio la colleggiata canonicale cui partecipava sembra che gli abbia impedito di ritornare alle isole. Lo sostituì un cugino sacerdote suo omonimo.
Don Demontis, nella precarietà del suo stato di salute e anche perché probabilmente non se ne era attrezzato, non aveva tenuto nessun registro delle anime. I primi atti di battesimo e di morte registrati in questi primissimi mesi portano tutti la firma del canonico Mannu, che li aveva redatti nel latino ecclesiastico allora in uso. Per gli atti di matrimonio bisogna attendere il 1772, in un registro che oggi appare molto usurato e che probabilmente ha perso le prime pagine. Il primo decesso registrato fu quello di Domenico Gambaredda di 50 anni (o forse 56), morto il 13 dicembre 1767 e sepolto nella chiesa rurale di S. Michele in agro di Liscia. Il morto successivo fu, nell’agosto dell’anno successivo, Giuseppe Ornà. Considerando che la nota con cui il viceré formulò la riserva per l’indicazione di un canonico era datata 30 dicembre e quella con cui esprimeva comunque il gradimento allo stesso canonico era datata 27 gennaio 1768, se ne desume che il decesso era avvenuto in presenza del cappellano don Michele Demontis, che diede i sacramenti al moribondo e successivamente officiò il rito funebre. Il canonico Mannu ne aveva solo redatto il relativo atto a propria firma nel registro ufficiale, probabilmente su appunto dello stesso don Demontis. I primi nati furono due bimbe: Maria Avigna (Aviggià) di Pasquale e Maria Antonia Millelire, nata il 5 settembre, e Angela Maria Ornà di Giovanni Battista e Santa Ferraciolu, nata il 25 dicembre dello stesso 1767. Entrambe furono battezzate dal canonico Mannu il giorno 31 gennaio 1768, e furono, quindi, le due prime nate all’isola che vi furono anche battezzate. Il dado era tratto, ora era necessaria una chiesa, e furono i maddalenini stessi a richiederla. Lo fecero nell’incontro di commiato con La Rocchetta, chiedendogli di intervenire presso il viceré perché la facesse costruire alla Maddalena. Il maggiore raccontò di averli stimolati a costruirla da loro stessi, ma che gli replicarono di essere troppo poveri per poterlo fare e che però avrebbero raccolto le pietre e la terra grassa, trasportato l’acqua e fornito giornate gratuite di lavoro di manovalanza agli ordini del capo mastro, nel caso il viceré avesse previsto di pagare i muratori e il materiale per la copertura.
Salvatore Sanna – Co.Ri.S.Ma