I pastori temerari. Il caso Rubiano
Il giudizio di temerari che il viceré dava dei pastori maddalenini e caprerini non appariva immeritato. Gli isolani, infatti, avevano una vita non proprio bucolico-pastorale e quieta. Proprio i ritmi e le modalità del governo delle bestie a pascolo brado e le ridotte attività agricole e orticole, l’apporto dei ragazzi in questi lavori, lasciava tempo libero agli adulti per attività anche non lecite. Abbiamo di loro una rappresentazione di uomini armati con armi da fuoco e da taglio. Non potendo più attingere agli atti giudiziari della curia bonifacina e di quella tempiese andati dispersi, si devono utilizzare i riferimenti ad episodi e circostanze presenti nella documentazione reperibile. Proprio nella massa documentaria relativa alla disputa giuridica circa la sovranità sulle isole, si ritrovano informazioni sommarie e non organiche. Da essa si rilevano delitti contro la persona, con uccisioni di pastori dimoranti nelle isole e omicidi da essi attuati. Più numerose sono le notizie di furti, soprattutto di bestiame. Nell’ ambito delle relazioni interne, invece, le cose dovevano essere molto regolate. Non si ha, infatti, notizie di lotte e faide intestine, e la regolazione dell’organizzazione dello sfruttamento delle terre e dell’allevamento che conosciamo depone per un tessuto sociale coeso e solidale.
Si è, invece, conservata la documentazione del cosiddetto “caso Rubiano”, che viene introdotto dal lungo documento sopra riportato. Questo “caso” è stato sinora trattato da altri autori esclusivamente per i suoi risvolti giuridici nella diatriba di diritto internazionale sul dominio sulle isole. Qui invece la vicenda interessa per le informazioni che si ricavano dai relativi materiali archivistici inediti, sul ruolo che in essa hanno avuto i pastori isolani, e sul loro stile di vita e i modelli comportamentali di riferimento. Il caso si articola in due momenti diversi e lontani tra di essi poco più di 2 anni. La prima, nel novembre del 1749, fu l’arresto in Bonifacio del capitano Andrea Rubiano, comandante della galeotta sarda guarda-coste e la sua evasione. La seconda fu la sua uccisione in Gallura il giorno 2 febbraio 1752. Rubiano era un bonifacino al servizio del re sardo, ma non doveva essere un fuoriuscito, giacché si recava spesso a Bonifacio. Aveva il soprannome poco eroico di “fichi molli”, e mentre nei documenti del 1749 relativi all’arresto veniva indicato domiciliato a Carloforte e maritato a una tabarchina, in quelli del 1752 veniva invece detto domiciliato ad Alghero. Comandava la galeotta “armata in corso” che in quegli anni, con lo sciabecco comandato prima da Giovanni Porcile e poi da Gio’ Batta Rossi, faceva la ronda anti contrabbando e anti barbareschi nelle Bocche.
In occasione di una sosta a Bonifacio il 13 novembre del 1749, a conclusione della campagna estiva che aveva visto anche gli episodi raccontati dal documento su riportato, fu tratto in arresto con una cattura rocambolesca. Nei documenti sardi questa vicenda viene raccontata da due testimoni entrambi marinai della galeotta, il sardo Antonio Crobo e il bonifacino Giacomo Maria Fattacci. Inizialmente Rubiano riuscì ad essere sottratto agli sbirri, che lo avevano già preso, dall’intervento del suo equipaggio. Ma il giovane tenente della galeotta sarda, Giovanni Battista Porcile che si trovava a terra, venne per ritorsione arrestato e tenuto come ostaggio. La galeotta che tentava di prendere il largo fu fermata dalla notizia dell’arresto e quindi fu bloccata in porto. Ebbe perfino sequestrati gli attrezzi della navigazione, per impedirne l’allontanamento dal porto, fin quando un folto drappello di militari francesi e genovesi non portò via Rubiano in catene. Secondo i testimoni di parte sarda, l’arresto era dovuto al fatto che i bonifacini volevano mantenerlo lontano dal comando della galeotta per la sua perizia nella lotta al contrabbando, per la conoscenza perfetta dei luoghi e delle persone che gli provenivano dall’essere bonifacino. L’accusa voleva invece che la sua colpa fosse quella di avere arrestato ingiustamente due corsi ritenuti contrabbandieri.
L’epilogo del caso di ebbe in una bruttissima giornata di inizio febbraio del 1752, quando Rubiano fu costretto a portare in secco la sua galeotta nella spiaggia della rada di Mezzo Schifo a causa di un temporale. Il racconto dei testimoni fu rilevato dal podestà di Terranova, don Giovanni Ferdinando Serra Dedoni, assistito dal notaio Francesco Satta, che produssero i relativi atti giudiziari. Secondo loro, lasciati tre uomini a guardia dell’imbarcazione, il capitano e il resto dell’equipaggio, una dozzina di marinai, trovarono rifugio per la notte presso il ribagno, nella cussorgia di Surrau, di Giovanni Maria Cuchari, un pastore originario di Calangianus. Il mattino successivo il gruppo si mise in marcia per il ritorno alla spiaggia, accompagnato dal pastore che ad un certo punto del tragitto rientrò all’ovile. Appena in vista del litorale, nella località che successivamente lo stesso Cuchari indicò come Punta Alta di Mezzo Schifo, probabilmente riconducibile all’odierno Monte Altura, dalla boscaglia e dalle rocce sbucarono 4 uomini armati.
I fucili spianati fecero fuoco però solo sul capitano Rubiano, che cadde al suolo ammazzato da”tres bolassos” (tre colpi “a balla”), mentre il quarto colpo fu esploso in aria in segno di giubilo, ma fors’anche come segnale di conclusione della operazione. Gli altri marinai, temendo per la propria vita fuggirono di gran carriera in più parti, mentre gli sparatori si preoccupavano di urlare loro di non temere. In particolare chiamavano a gran voce un certo Guarino, dicendogli che sia lui che tutti i suoi compagni non avevano niente da temere. Dagli atti si sa che Guarino era il soprannome del marinaio Giovanni Battista Chipolino, un tabarchino di 23 anni, giunto quindi all’isola di S. Pietro nel 1738 all’età di 9/10 anni, con la famiglia registrata come Cipollina. “No temas Guarino que ya hemos encontrado a quien buscavamos, que es Andrea Rubiani”, gli disse un certo Domenico che uscì allo scoperto, insieme agli altri tre sparatori: Matteo, Giovanni e Giovanni Battista. Tutti e quattro furono precisamente individuati dai testimoni: “viven en la misma isla de la Cabrera y todos y quatros los conosciemos por ser ya alto el sol y por havierlos vistos varias veses y hablados”. Successivamente comparvero altri 25 corsi tra cui i testimoni riconobbero il bonifacino Pasqualino Mazzardi, e tutti questi insieme si ritirarono sullo schifo con cui erano arrivati da Capo d’Orso. Prima di andarsene, però, uno dei quattro caprerini, più precisamente quello individuato come Giovanni, fornì allo stesso Chipolino, alias Guarino, il suo movente per l’uccisione del capitano Rubiano. La indicazione del nome Giovanni nelle testimonianze è univoco, non altrettanto la scrittura del cognome attribuitogli. Anche lo scrivano della curia di Terranova, che trascriveva gli interrogatori, dovette metterci del suo, per cui il cognome può essere inteso più verosimilmente come Muceddu o Mureddu. Senza rigettare l’ipotesi che potesse trattarsi di un nomignolo piuttosto che del cognome noto, giacché nelle isole non si conosceva in quel periodo un patronimico simile. Egli affermò che Rubiano “havia pagado el hecizo que havia heco a la hija”, cioè a dire per aver sedotto sua figlia.
Un documento successivo attribuibile al comandante Porcile, e prodotto per le autorità cagliaritane oltre il procedimento giudiziario, fornisce qualche particolare in più, riferendo che la donna offesa era stata la caprerina Anna Maria Culiolo. Dai registri di battesimo bonifacini sappiamo che era nata nel gennaio del 1731 da Matteo fu Pietro e da Angela. Dal documento Porcile sappiamo ancora che il Rubiano, tradendo il giuramento di matrimonio fattole, avrebbe sposato invece una tabarchina. La giovane caprerina, sempre secondo Porcile: “si dice che del dolore ne morì”, e poiché tra i quattro caprerini uccisori del comandante Rubiano è stato riconosciuto un Matteo, secondo il rituale è senz’altro toccato al padre Matteo Culiolo vendicare l’offesa subita dalla figlia. L’uccisione di Rubiano veniva quindi apertamente rivendicata come una “vendetta corsa”, un vero e proprio delitto d’onore. Il rituale previde anche un segno di ulteriore disprezzo del cadavere, che fu spogliato di alcuni pezzi di valore e simbolici: una fascia, la berretta, un anello che portava al dito e un orecchino (“pindinu”) che aveva in un orecchio.
Il gruppo allargato dei corsi fu, inoltre, protagonista sospettato della spoliazione anche della galeotta. Non c’era la certezza che fossero stati loro a depredare l’imbarcazione militare sarda tirata in secco, di una spingarda, una picca, uno schioppo e di tutta la polvere da sparo di una cartucciera, in barba ai tre marinai lasciati di guardia che si addormentarono esausti senza rendersi conto del furto che si perpetrava a loro danno. Non dovevano, però, essere in molti ad aggirarsi nei paraggi in occasione di quel fortunale, oltre chi era in caccia del capitano Rubiano per la soddisfazione che voleva prendersi nei suoi confronti. Il fatto comunque dimostra che i corsi isolani erano sempre pronti a cogliere l’occasione di depredare oltre che di raccogliere i relitti di veri e propri naufragi, avvallando l’iniziativa del patrone provenzale Giacomo Gioja di cui s’è detto.
Salvatore Sanna – Co.Ri.S.Ma