Pescatori provenienti da Torre del Greco
D’apice Giuseppe, nato nel 1828.
De Roberto Enrico
De Roberto Alfonso, nato nel 1833, unico superstite del naufragio del S. Giuseppe nel 1910.
De Roberto Gaetano di Alfonso.
De Rosa Antonio, morì a 17 marinaio.
Langella Venanzio
Pietrolungo Giovanni, marinaio, morì a 19 anni.
Polese Giuseppe, nato nel 1829.
L’egemonia dei torresi nel Mediterraneo Occidentale e Meridionale ebbe inizio nel secolo XVI. La spinta ulteriore verso questi mari fu data dalle continue eruzioni sei-settecentesche che invogliarono i torresi a ricercare le loro ricchezze non su una terra infida ma verso le acque, seppur tempestose, praticando la pesca del corallo e dei pesci, quest’ultima praticata soprattutto quando la prima non era possibile in certi mesi (da novembre a marzo).
Scrive il reverendo Di Donna che l’industria del pesce dovette essere superiore a quella del corallo, sebbene quest’ultima già ad inizio ‘700 era ritenuta secolare, e i marinai torresi la praticavano quando era permesso cioè tra ottobre e maggio.
Nel 1727 Torre era la cittadina costiera che presentava nel Regno di Napoli più uomini di mare rispetto a tutte gli altri paesi costieri del distretto di Salerno e Napoli, superiore pure ai Gaetani. Percentuali così alte di marinai, ma comunque inferiori ai nostri, si registravano solo a Trani e Molfetta (chiamati genericamente baresi) che praticavano però solo la pesca del pesce. I pescatori siciliani invece svolgevano una pesca giornaliera a poca distanza dalla costa.
Lo scrittore francese Pezant e alcune enciclopedie straniere del ‘700-‘800 ricordavano Torre come località per la pesca del corallo e del pesce (mitili, tonni, sardine) oltre ai vini e ai frutti deliziosi.
Nel 1736 la pesca dei pesci era così intensa che partirono alla volta dei mari calabresi alzando le vele come uno sciame circa 3.000 torresi, quindi praticamente quasi tutti gli uomini giovani della Torre.
La pesca del corallo si incrementò e assorbì quella del pesce, scrive ancora il Di Donna, per risollevare i torresi dalla miseria in cui erano caduti durante le eruzioni del ‘700. E ogni anno 300 feluche con equipaggio minimo di 7 uomini veleggiavano lungo il Mediterraneo Occidentale dalle coste della Sardegna a quelle più infide del Nord Africa. Galita, Biserta, Tabarca erano i loro luoghi di pesca del celenterato. Nell’isolotto di Galita addirittura i nostri pescatori allestirono un piccolo ospedale con medico e una cappellina curata da un prete torrese che officiava la messa per i marinai. Non mancava il commercio lecito, e a volte illecito, di mercanzie (mante, berretti frigi, vini, ortaggi e frutta) come attestano documenti del ‘500. A ciò si aggiungeva un indotto costituito da produzione di gallette, nasse, reti, barche di vario tipo. Si calcola che circa 8.000 persone fossero coinvolte nei vari settori della produzione corallina e del pescato.
I pescatori si accingevano a lasciar la patria sfidando pericoli di ogni specie e molti con un costoso contributo di sangue morirono per le furie del mare (gli ex voto dei superstiti ne sono una testimonianza), per la pirateria, per gli affondamenti delle imbarcazioni durante le due guerre. Le spoglie mortali a volte trovate lungo le spiagge venivano seppellite per religiosa pietà in cimiteri stranieri.
Non di rado, le vedove si risposavano seguendo l’antica tradizione del “levirato”, riunendosi in matrimonio con un parente stretto ancora celibe del marinaio defunto. Si aggiungevano le difficoltà della pesca nei vari mari italiani dovute al fatto che l’Italia allora era divisa in vari stati che imponevano le loro norme e i loro diritti.
Dalla metà del ‘500 fino alla fine del ‘700 i torresi erano i pochi marinai del Regno di Napoli che coraggiosamente si avventuravano in lunghi viaggi nel mediterraneo. Solo forse molfettani e tranesi furono capaci di tanto. Erano i nomadi del mare. Nella sua evoluzione storica la pesca avvenne inizialmente nei mari territoriali della comarca, poi del regno (mari cilentani e salernitani) per spingersi in quelli extraregnum. Iniziandone così la supremazia marinaresca. I torresi utilizzavano le Menaidi per la pesca delle alici, sciavichelle per la ricerca di palaie e i gozzi per la ricerca di pesce pregiato. I marinai delle feluche obbedivano al suono della tufa che il capitano usava per impartire gli ordini. L’università percepiva un discreto guadagno (jus piscandi) dalla pesca che si praticava nei suoi mari, la sua vendita e la sua salagione e la tassa locale sulle bocche grassolle. Fortunatamente lo jus sul corallo non riuscì ad attecchire, nonostante i tentativi di alcuni tenutari.
Le isole tirreniche (Sardegna e Corsica) già nel secolo decimo quinto erano visitate dai nostri pescatori. Non di rado marinai ischitani, capresi e della costiera amalfitana, specie praianesi, oltre a corsi e gaetani si imbarcavano a servizio degli armatori torresi, quando si scoprivano ricchi banchi coralliferi e la manodopera locale era insufficiente. Venivano assunti con le tecniche del caporalato e alcuni di questi forestieri si ammogliavano con ragazze torresi.
Nel seicento, trovandosi nei mari levantini per la pesca del corallo, molti torresi in diverse rappresaglie furono catturati dai saraceni o dai francesi alleati degli infedeli. La schiavitù è documentata fino al 1780. Il pericolo era alto. Già alla fine del ‘500 la Congrega dei Bianchi provvedeva al riscatto dei catturati e le trattative avvenivano per opera di intermediari ebrei o maltesi. Infatti prima i marinai torresi nel 1615 e poi, sulla falsariga dei nostri, quelli capresi costituirono una congregazione di Carità o Monte della chiesa di S. Maria di Costantinopoli con inclusa la potente corporazione “ceto dei fellucari e pescatori”(1).
È tradizione comune ai due paesi che l’immagine di questa madonna guerriera fosse stata ritrovata nella stiva di una nave pirata assalita e distrutta da un vascello di corallari di Torre del Greco a largo della Sardegna in un’epoca imprecisa collocabile fra il ‘400 ed il ‘500. Essa sarebbe stata venerata dai turchi di Costantinopoli fin dai tempi dell’imperatore Costantino ed era stata elevata dai pescatori torresi a loro protettrice assieme a S. Pietro, S. Andrea, S. Abbondio e S. Timoteo. Per quest’ultimo martire la congregazione del Pio Monte aveva realizzato un ricco reliquario. E inoltre era consuetudine a Torre come a Trapani la devozione religiosa dei marinai per Maria Stella Maris, raffigurata dalla Vergine del Vaglio, che si evidenziava con generosa pietà verso la chiesa a Lei intitolata mediante la donazione di sfarzosi e ricchi gioielli e monili. Infatti parte del manufatto di corallo veniva destinato alla Madonna di Costantinopoli.
Una processione eucaristica nella zona del Vaglio avveniva alla partenza e al ritorno delle coralline, con la benedizione della Madonna guerriera per la quale si pregava, sperando anche in una buona vendita del corallo.
Carlo III di Borbone provvide a contrastare la pirateria assumendo corsari torresi e liparoti (Maldacena, Accardo detto Cardone, Del Dolce, Balzano) che avevano la patente di corsari. Scorrazzavano dalla Toscana, alla Sardegna fino a Malta (Muscetto) e sulle coste del Nord Africa a difesa dei pescatori di corallo. Il servizio mercenario era il loro mestiere. A volte questi avventurieri diventavano pirati in altri periodi dell’anno, assaltando le navi.
La rotta del Mediterraneo occidentale delle feluche coralline che esploravano nuovi territori in cerca del celenterato permetteva, quando non si pescava il corallo, di tracciare una mappa marina delle zone più pescose di pesce per gli stessi torresi pescatori ma pure per altre comunità marinaie come i resinari, puteolani, procidani. Non mancavano intermediari forestieri ben pagati che davano l’informativa di banchi coralliferi.
Gli uomini del mare di diverse nazionalità comunicavano fra loro in lingua franca.
Molti torresi migrarono nel 1707 ad Ischia e alcuni cognomi isolani ne attestano l’origine (Falanga e Mennella), così come nelle riviera laziale (Gaeta e Civitavecchia) dove già risiedevano famiglie nostrane, come ci racconta I. Sorrentino.
Nell’isola verde ai tempi di Ferdinando i torresi presiedevano a due grandi tonnare pescando tonni in quelle acque in quanto è riportato: “sono i più atti”.
Per le numerose eruzioni che afflissero Torre nel pe-riodo dei lumi e l’800, le isole del Golfo e la zona flegrea furono terre d’immigrazione per alcune famiglie torresi. Con l’eruzione del 1773 e poi del 1794 re Ferdinando volle popolare le isole Ponziane (Ponza e Ventotene) con la nostra gente, offrendo loro case gratuite e terreni da coltivare in enfiteusi a Ponza, da Lucia Rosa a Punta Incenso, oltre a sussidi pecuniari. Altri se ne aggiunsero nell’ottocento.
Erano isole già conosciute tanto è vero che nel 1546 a Ponza 500 feluche coralline solcavano quei mari insieme ai pescatori baresi. Nell’isola assolata e ventosa di Ventotene né gli ischitani né i torresi, fatta salva solo per una piccola parte di tenaci corallari, conservarono la loro vocazione marinaresca, per la difficoltà degli approdi. Per cui i novelli ventotenesi divennero quasi tutti contadini, dissodando pezzi di terra e coltivando lenticchie, cicerchie, fichi o cacciando durante il passo le quaglie. Altri purtroppo furono sfruttati dai “coralloti” torresi per la pesca.
Ponza era più ricca di approdi che non l’isola del vento. La località Le Forna fu colonizzata per volere di Ferdinando IV di Borbone dai pescatori torresi che iniziarono la pesca delle aragoste e del corallo le cui acque erano ricche. Agli ischitani provenienti in gran parte dal borgo rurale di Campagnano fu affidata la coltivazione della terra. Fu costruita una strada che collegava il villaggio rurale di Le Forna con il porto. Una volta insediatisi nell’isola ripresero la loro tradizionale attività in quelle acque cioè la pesca del corallo in quanto i torresi erano più idonei alla vita marinaresca.
Questi primi ponzesi di origine torrese non persero contatti con i torresi continentali. I torresi avevano trasmesso alle nuove generazioni di ponzesi nel loro sangue la loro temerarietà; infatti molti abbandonarono la pesca del corallo più faticosa per quella delle aragoste, adattando le loro imbarcazioni nei cantieri torresi al nuovo tipo di pesca.
La chiesa dell’Assunta a Le Forna costruita sopra Cala d’Inferno, quasi a voler dominare le forze demoniache del mare, fu voluta nel 1781 dai corallari e aragostani fornesi, primi discendenti di quei coloni che vi giunsero, forse in ricordo della “nostra Assunta”. Nella chiesa si venera S. Silverio pescatore. Mentre la festa del patrono ponziano nel capoluogo si celebra il 20 di giugno, il S. Silverio fornese avviene nell’ultima domenica di febbraio, in quanto per tradizione i pescatori di Le Forna dovevano salutarlo prima di partire per la lunga e pericolosa campagna di pesca.
Il colore rosso dell’aragosta e del corallo, che domina durante la festa, rimanda ad un chiaro simbolismo cromatico. Le Forna era un angolo di Torre nell’isola. I rapporti di consanguineità fra ponzesi e torresi erano così radicati che gli isolani venivano a Torre dai maestri d’ascia e carpentieri ad imparare il mestiere. riconoscendone la supremazia, mentre i ventotenesi venivano a vendere a Torre fichi d’india, lenticchie e cicerchie.
Nel ‘700 dall’isola di Ponza si estraeva caolino e bentonite che venivano lavorati a Torre. Nella orribile e meravigliosa cala dell’Inferno costituita da 350 gradini scavati dai galeotti per raggiungere le dimore della nascente comunità di coloni torresi stabilitasi sulla roccia a forma di cuore per un fenomeno di magmatismo intrusivo. Queste rocce affacciano sulla spiaggia del Core. Alcune di queste dimore erano case-grotta imbiancate a calce, oggi ricercate da vip che frequentano l’isola.
Le tartane d’appoggio alle coralline facevano tappa a Ponza e qui per salutare conoscenti e parenti e per far provviste di acqua e cibo, tra il quale pesce essiccato, specie le musdee; da lì gli armatori torresi avrebbero raggiunto con le loro paranze e feluche la Sardegna, il Golfo di Gaeta e il Tirreno settentrionale.
I “Monti” per i marinai e pescatori nel 1600 non furono diffusi come le confraternite. Cesare Marchetti riporta per le fondazioni queste date: Torre (1615), Procida (1617), Napoli (1639), Capri (1678), Atrani (1685). Avevano Io scopo di dare sollievo agli uomini di mare malati o disabili, doti alle figlie, riscatti per i catturati dai turchi. Davano un quarto della paga ai padroni a cui versavano la quota.
Alla fine del ’700 arrivarono a Civitavecchia da Torre del Greco quasi 100 paranze, con almeno cinque uomini a bordo, che avevano già visitato i mari di Cuma e Mondragone. Altre barche portavano poi, ogni notte, il loro pescato a Napoli. La pesca dei pesci era praticata nei mari pontifici (Lazio, Toscana. Romagna) e il granduca di Toscana, per l’amicizia con i Borbone, l’accordava per un lungo periodo. I marinai torresi erano richiesti per la loro bravura a formare equipaggi di pescherecci dello stato pontificio dopo il rilascio del passaporto borbonico, perché Torre con la tradizionale attività di pesca del corallo e del pesce, era ritenuta ai primi posti per la valentia dei suoi uomini di mare. Tuttavia, alcuni marinai ne approfittavano per disertare l’esercito borbonico, vivendo in capanne lungo le spiagge del litorale laziale, come riportato da Gregorovius.
La frequentazione della costa laziale diede origine ad una piccola colonia di pescatori nella Terracina Bassa alla fine del ‘700, i cui abitanti, provenienti da Torre e dintorni, venivano chiamati i marinari o i “basciammare”. Occuparono alcune casette del porto.
Così pure per volere di Innocenzo XII nacque un nuovo porto ad Anzio. Sperava venisse abitato dai vicini nettunesi, ma visto che questi erano poco dediti alla pesca, il papa ricorse a nuovi immigrati che provenivano in gran parte da Torre chiamati poi portodanzesi. Ad Anzio il mare era ricco di pesce ed aragoste. I pescatori passavano qui vari mesi dell’anno dormendo sulle loro barche.
F. Gregorovius definì i marinai napoletani come i primi pescatori al mondo, forse intendendo dire i torresi perché in “Passeggiate per l’Italia” del 1856 di seguito scrive che “se ne incontrano anche nelle isole spagnole e sulle coste d’Africa dove pescano il corallo: e così le loro barche variopinte solcano in ogni direzione questo mare”. Agli occhi di Gregorovius la spiaggia di Anzio con pescatori di Torre del Greco. Pozzuoli e Baia è una scena pulsante di vita e al suo sguardo risaltano la vivacità dei loro gesti, la loro mimica, il loro dialetto, i loro costumi e tutto ciò appare sempre più bello ogni volta che lo scrittore la rivede. Egli non si stanca mai di osservarli sebbene sia consapevole che la scena è romantica ma solo per l’osservatore non per l’oggetto osservato. La vita di questi uomini di mare, aggiunge, è dura, faticosa sulle loro “barche illuminate che ora si vedono, ora scompaiono sulle onde del mare”. Gregorovius descrisse con minuziosa particolarità i pesci portati a riva: bellissimi rombi, grossi palombi, variopinte murene, sogliole dalle pinne pungenti, triglie luccicanti, sardine, e merluzzi in gran quantità e poi due squali lunghi 10 piedi, circa 3 metri, presi all’amo, dalla carne dura ma edibile, il vestiario dei pescatori, mezzi nudi, con i calzoni corti di tela, in maniche di camicia, con su il berretto rosso in testa. Continuò il Nostro con la descrizione dell’indole del tipico pescatore campano ad Anzio: è snello, vivace, ciarliero ed è sempre pronto allo scherzo, al motto, al canto e al ballo, non triste come il pescatore baltico (dalla Real fabbrica di Capodimonte, in un piatto decorato del ‘700, si vede un pescatore torrese con il vestiario da riposo e con il berretto frigio mentre fuma da una lunga pipa da tabacco e chiacchiera amorevolmente con una donna). Ma i torresi, come altri pescatori di pesce della provincia di Napoli, familiarizzarono non solo con le coste laziali ma anche con quelle toscane, spinti dai corallari torresi. Livorno fu dimora di numerosi concittadini perché centro commerciale per il corallo e nuova residenza per altri dopo il fallimento che fece seguito la scoperta dei banchi di Sciacca fra il 1875 e il 1880. Lì si stabilirono, non facendone più ritorno.
Nella città labronica arrivavano intere famiglie di pescatori di pesce da Torre, Procida e Pozzuoli, incoraggiati non solo dai divieti nei mesi estivi e dalla pescosità di quei mari ma anche dall’assenza di una marineria locale consolidata.
Si radicarono così nell’ambiente che certe pietanze marinaresche ritenute livornesi, come il caciucco, pare siano state colà portate da questi pescatori. In Toscana i pescatori torresi di corallo e pesce frequentavano le coste di Viareggio, Piombino, Porto S. Stefano. S. Ercole, Cecina, Orbetello, Monte Argentario. Essi durante il lungo e faticoso viaggio, a volte rimanendo sulle barche in mare tutta la notte, mangiavano pesce all’acqua pazza (secondo la tradizione pare che tale cibo sia stato ideato dai ponzesi) utilizzando l’acqua di mare, il cazzo anniato, pesce essiccato, legumi.
La superba maestria dell’arte della pesca in mare aperto permise a questa gente di vivere del proprio lavoro nelle nuove zone di residenza, tramandando i segreti del loro mestiere ai pescatori locali. A spingere i torresi per nuovi mari era l’audace spirito della gioventù (già a 12 anni si imbarcava) e a volte la povertà, che spesso era a seguito delle eruzioni.
La Toscana marittima e isolana fu colonizzata, oltre che dai torresi e viciniori, anche da ponzesi e puteolani.
Una colonia di corallari torresi è annotata da P. Loffredo a Cecina così come pure a Monte Argentario (Della Monica 1876). I pochi pescatori elbani incuriositi dall’abilità di questa nuova gente, venivano a Torre ad acquistare paranze o a Vada dove lavorarono maestri d’ascia torresi per insegnare agli indigeni tale arte. I pescatori torresi e non solo, iniziarono a frequentare maggiormente le coste toscane nel secolo XVIII quando le fortezze costiere (stato dei presidi) passarono al re di Napoli.
La maggior sicurezza contro le incursioni piratesche dovute alle fortificazioni favorirono l’immigrazione di pescatori di Procida, Torre e Pozzuoli che così da stagionali divennero stanziali. Inoltre l’espansione geografica delle gaetane con reti a strascico, che permettevano una pesca intensiva, fece emergere la presenza di grandi mercanti all’ingrosso, principali artefici delle costose campagne di pesca. Ciò favorì l’ingaggio di uomini di mare ed imbarcazioni di Torre del Greco, per la pesca nelle acque di Civitavecchia.
I pochi e poveri pescatori civitavecchiesi protestavano, in quanto i pescatori immigrati stravolgevano i fragili equilibri preesistenti. E’ documentato che un certo A. Guglielmotti, appaltatore di pesce a Roma, nel 1779 sottoscriveva un accordo con un gruppo di padroni torresi di paranzelle per pescare nelle acque laziali. Il pesce riposto in recipienti ricoperti di paglia e con pezzetti di ghiaccio veniva poi imballato per essere spedito nella notte con dei carri a Roma.
Le acque che bagnano Civitavecchia divennero cosi familiari che dopo l’eruzione del 1794 alcuni pescatori torresi si stabilirono li, assieme a puteolani e procidani, andando ad abitare al “ghetto”, un quartiere destinato agli ebrei, e fra loro comunicavano con una parlata detta poi “ghettarolo civitavecchiese” che si distingueva nettamente dal dialetto laziale.
La grande pesca si concentrava a Torre e Pozzuoli mentre avevano scarsa importanza la zona Amalfitana, Resina, Napoli e Castellammare.
I navigli di Torre arrivavano fino a 18 tonnellate, a Pozzuoli non oltre le 3t. Le paranze di Torre erano le più capaci e di maggior tonnellaggio e il numero delle nostre imbarcazioni superava tutte quelle dei casali di Napoli, Salerno e quelle di Gaeta.
Nel 1727 fra quelle per la pesca del corallo e del pesce se ne contavano più di mille con 4.000 marinai. Torre e Gaeta facevano da padroni nel Tirreno.
I Gaetani e Torresi avevano introdotto un tipo di pesca intensivo con l’uso di paranze e attrezzi da traino. I nostri al ritorno delle campagne coralline adattavano i loro trabbacoli per la pesca dei pesci, cosiddetti “franzesi”, cioè costieri, procurando grossi danni ai piccoli pescatori che utilizzavano mezzi più tradizionali, questi incominciarono a protestare presso il Re. Ad esempio nel 1775 i pescatori procidani, si lamentavano dei danni cagionati dai pescatori torresi per l’uso di certe imbarcazioni. Pertanto nel 1784 furono fissate norme per i tempi della pesca e gli strumenti da utilizzare con limitazione per quelle a strascico introdotte dai gaetani.
In seguito Murat, nel 1809 revocò tutti gli ordini proibitivi relativi alla pesca con lo scopo di favorire la concorrenza.
Tuttavia, chi la fa l’aspetti. I pescatori di Gaeta nel 1852, parlando a nome di altri, tornarono a lamentarsi presso il re dello stato in cui versava il mare e chiesero la proibizione della pesca con paranzelle torresi, procidane e baresi per tornare all’uso delle tartane. Ma gli stessi baresi e procidani che praticavano questo tipo di pesca si lagnavano dei danni continui che i pescatori della Torre del Greco cagionavano nel mare di Procida con le loro paranze con reti a strascico e chiesero la loro abolizione. Già allora si intuiva come certe imbarcazioni e il mancato rispetto dei limiti stagionali potessero essere dannosi per gli ecosistemi.
La “guerra” fra pescatori di diversi paesi, con continue e reciproche accuse, era continua.
Nel 1824, oltre alle numerosissime feluche di corallo, partirono da Torre una trentina circa fra paranzelli, feluche e gozzi per la pesca ittica e 12 paranzelle e 1 feluca per il traffico commerciale che vedeva anche in questo campo i torresi egemoni nelle acque tirreniche (ferragli, verderame, concimi, minerali, reti, graniglia, zolfo, pozzolana, zucchero, gallette, sale) nelle tratte fra Sicilia e Francia (Cette, Agda, Marsiglia, Tolosa) o Spagna (Valencia, Alicante).
Nel 1834 furono ristabilite norme più restrittive. Ma forse poco servirono in quanto nel 1877 i pescatori termitani (Termini Imerese) si trovarono a fare i conti nel proprio mare con le paranze torresi che si spingevano fino a Cefalù e anche oltre, nei mari nord africani.
Ma le vele delle barche torresi erano dirette anche verso ovest: la Sardegna e la Corsica. Ad esempio la pesca del pesce azzurro fu introdotta ad Alghero dai fratelli torresi Ghio nel 1811. Poi fecero seguito i procidani e altri che seguivano i corallari di Torre che aprivano la rotta.
L’ impulso dato alla pesca in Sardegna ripopolò certe zone costiere dell’isola (la Sardegna pur circondata dalle acque è poco marittima) da parte dei pescatori campani e liguri. Ciò fu evidenzia-to prima dal glottologo Max Wagner e poi dallo studioso Alberto Mori nel 1950. Egli notò che i cognomi della Sardegna costiera erano tipicamente campani e liguri e che i tre-quarti del totale dei pescatori era di origine continentale per lo più campani (tra i quali primeggiavano torresi e ponzesi) e liguri; la stessa tipologia delle imbarcazioni sarde rimandava ad elementi etnici nostrani (i gozzi). Pescatori campani e torresi furono quelli indigeni della Maddalena, Bosa, Stintino, Olbia (a Carloforte invece liguri). Ad Alghero, porto ospitale per le coralline torresi, si trovano cognomi di origine torrese: Palomba, Ciaravolo, Maresca, Di Rosa, Accardo.
I nostri furono richiamati da quelle splendide acque che ben conoscevano prima con la pesca del corallo (Asinara, Carloforte, Bosa), poi dalla pesca del pesce (specie il tonno e pesce azzurro) assieme ai ponzesi i quali cercavano invece le aragoste e l’erba corallina che pare fosse un vermifugo intestinale.
Diversi si stabilirono in Sardegna e Corsica poiché temevano angherie e limitazioni di movimento da parte del governo borbonico e lì si muovevano con maggiore libertà; altri sposandosi a donne franco-algerine optavano per la cittadinanza francese non sopportando il regime.
Alghero affonda le sue radici nella Catalogna. Gli abitanti di quelle zone furono di cultura e lingua catalana ma poi si aggiunsero liguri e campani con moltissimi pescatori di Torre che infusero la loro cultura. Essi ebbero infatti il permesso rilasciato da un’ordinanza della corona aragonese di riparare ad Alghero, costituendo la nascita di uno storico nucleo demografico ed economico che vedeva i sardi algheresi agricoltori e i torresi pescatori. Non a caso alla radice della nobiltà algherese contribuì la famiglia torrese De Candia (cognome di origine greco —pugliese presente a Torre dal ’500) che si stabili nella cittadina sarda nella seconda metà del secolo XVIII per la pesca del corallo. Nel 1779, Serafino Stefano De Candia per aver elargito meriti alla corona aragonese, ottenne il cavaleriato e la nobiltà. Egli controllava la flottiglia corallina operante sulle coste algheresi.
Un altro insigne torrese De Candia, fu monaco domenicano ed archivista del Santo Officio; come scrive Balzano fu “uomo cospicuo in dottrina”. Fra i torresi impiantati ad Alghero si ricorda Pasquale Palese che vi arrivò nel 1830 per la pesca del corallo e fu uno dei più apprezzati maestri d’ascia della Sardegna. Egli iniziò presto le costruzioni dei primi gozzi a vela latina su modello di quello nostrano modificati ed adattati successivamente alle esigenze isolane. La famiglia poi si trasferì a Porto Torres costruendo cantieri navali.
I maestri d’ascia torresi gareggiavano con quelli liguri e questi per la maestria dei nostri, furono costretti a trasferirsi in altre parti dell’isola. Ad Alghero si respirava aria di Torre.
Nella cittadina catalana, sul promontorio di Capo Caccia, in una grotta naturale a livello del mare vi era un mosaico raffigurante la Vergine che i corallini torresi nei primi anni del ’900 posero su di una parete della cavità. Fu chiamata la Nostra Senora del Frantuni o Madonna del Granc. Il giorno di S. Michele si teneva una processione ora dimenticata dall’incuria degli uomini. I torresi nel loro girovagare nei mari erano soliti collocare per ringraziamento di un mancato naufragio in un anfratto naturale un’icona della Madonna come quella più nota di Pizzo Calabro (’a Maddoneja). L’influsso della cultura campana su quella catalana-algherese si manifestò anche con l’arrivo nella città sarda della melodia napoletana che, importata dai pescatori di corallo (ceins), veniva ripetuta nel porto con assiduità e nostalgia. Pertanto la canzone algherese è un misto di musicalità catalana-torrese ed è stata composta sulla falsariga del canto napoletano.
Anche con Olbia, Torre ebbe rapporti commerciali. I nostri importavano lì corde e pali per i vivai di mitili mentre a La Maddalena pescatori napoletani, torresi e liguri edificarono un piccolo nucleo abitativo. Le acque del mediterraneo occidentale furono anche solcate da ship (battelli) torresi che ben conoscevano quei mari, non sempre dediti a commerci leciti. Molti disertori liguri nella meta del ’700 presero la via del regno di Napoli o dei presidi della Toscana per entrare nei ranghi del regio esercito. Queste fughe erano favorite dai padroni torresi di bastimenti.
La documentazione riferita agli accordi fra ribelli e armatori di Torre, relativa ai traffici, al contrabbando o al trasporto di disertori, è ben attestata. Si fanno i nomi nella metà del ‘700 dei seguenti padroni torresi: Filippo Arcucci, Tommaso Pandolfi, Mario Sorrentino, Antonio Raiola.
Il marchese di Monte Vergine, Governatore di Porto Ercole, fu accusato di esercitare contrabbando di armi e reclute con i ribelli corsi e con la complicità del torrese Arcucci. I corsi in quel periodo manifestavano insofferenza verso i genovesi (non sapendo che sarebbero finiti in mani peggiori). Genova accusava i Borbone e i Sabaudi di fomentare tale ribellione. É documentato: “alcuni bastimenti di Torre del Greco si sono talmente maritati con i corsi sollevati, che uno di essi con equipaggio corso nelle acque della Toscana ha predato un legno napoletano”. Eppure i rapporti fra il regno borbonico e l’eroe Pasquale Paoli erano più che amichevoli avendo il “babbu da patria” studiato a Napoli presso il Genovesi e numerosi soldati e ufficiali corsi militavano nell’esercito borbonico, tanto da costituire il “Reggimento Corsica”. Malgrado ciò, fu spedita una galeotta che andò ad arrestare i predoni corso-torresi per farli pagare un castigo esemplare. I rapporti fra torresi e corsi erano buoni, infatti le coste corse dai ricchi banchi corallini furono sfruttate fin dai primordi da parte dei pescatori torresi.
Alcuni torresi immigrati nell’isola avevano dei “magazeni” a Bastia e Calvi (famiglia Alvino 1734, mercatanti e armatori di barche coralline) oltre che in Sardegna (Alghero). Da tali magazzini i capitani ritiravano le provviste di bordo necessarie per la pesca depositando il corallo pescato e rilasciando poi gli anticipi ricevuti: lettere di cambio pagabili sulla piazza di Livorno, principale centro di commercio, gestito da ebrei, dove il corallo pescato veniva poi venduto tramite piazzisti locali o napoletani.
Dalla Sardegna e dalla Corsica potevano spingersi fin sulle coste ed isole iberiche per la pesca del corallo, tanto è vero che, nel 1733, pescatori torresi furono sequestrati da soldati francesi ad Agda, in guerra con gli spagnoli.
Le coste spagnole erano già state frequentate nel ’500 per il commercio di mantelli (1580) perciò i nostri le conoscevano bene.
Il monopolio dei torresi nella pesca del corallo dipendeva dalla loro capacità organizzativa ma anche dalla loro abilità e tenacia.
Erano, rispetto a provenzali e catalani, più ardimentosi e rotti alla fatica per la pesca del corallo, alleviata da cantilene e antichi canti, come evidenziato dai filmati dell’Istituto Luce (cfr. nostro articolo a seguire).
La cantante folk siciliana Rosa Balestrieri ha studiato e rivisitato alcuni canti siculo-partenopei nati ai tempi di Sciacca, quando miriadi di barche torresi si portarono presso quelle secche. I mesi che precedevano la partenza delle feluche e della pesca erano dedicati alla riparazione delle barche e alle forniture.
Bruno, direttore generale della marina mercantile ad inizio ’900, descrive minuziosamente gli uomini di mare torresi in un libello di inizio ’900: “gente ardita rotta alla fatica, pronte all’ira, uomini abbronzati dal sole che nei lineamenti ricordano gli arabi di carattere e di tipo profondamente diversi dagli abitanti della greca Napoli e dagli oschi delle grasse terre della Campania”.
Il porto di Torre nei tempi andati sembrava un formicaio: “non c’è posto della Baia di Napoli che presenti una scena pulsante di vita come a Torre”, riporta una rivista commerciale in lingua inglese del 1847.
Nel settecento inizia l’odissea verso il mare africano (anche se intraprendenti pescatori di pesce già avevano visitato precedentemente quelle acque) cosi come il mar Jonio (Taranto, Gerace e Roccella). A Marina di Ardore sullo Jonio, si stabili una colonia torrese nel 1725 ed infatti un tempo presso quelle contrade si ascoltavano numerosi termini in vernacolo torrese, come ci racconta P. Balzano. Alcuni si spinsero in quegli anni verso l’Adriatico (Dalmazia o Schiavonea, Romagna e mari Veneti), altri ancora verso l’Egeo, Lampedusa, non solo per la pesca del corallo ma anche per quella faticosissima delle spugne con 54 trabaccoli.
Durante i lunghi tragitti si orientavano con le costellazioni, costituendo delle vere e proprie mappe celesti ma non mancavano bussole, sestanti e parallele. Usavano inoltre per curarsi: china, aceto, spezie, balsami, erbe, rosolio, unguenti ed oppio, a volte più semplicemente saliva ed alghe.
Nel loro viaggiare attraverso i mari, pescatori di altre comunità impararono, intuirono o perfezionarono dai torresi tecniche di pesca. Nel loro peregrinare non mancarono scontri e boicottaggi con altri pescatori, specie i pugliesi che sostenevano di subire l’invasione dei loro territori pescosi e la distruzione delle loro nasse (1899).
Ci furono in qualche occasione diserzioni e ammutinamenti contro i padroni corallini, come quelli avvenuti nel 1900 nelle acque siciliane in seguito all’arrivo di notizie preoccupanti da Torre relative ad un sisma; i torresi volevano abbandonare le imbarcazioni per cui fu inviato l’esercito a sedare gli animi. Forse furono i prodromi della violenta eruzione che sarebbe avvenuta sei anni dopo.
La febbre del corallo costò sacrificio per l’enorme fatica, sangue (si ricordi l’eccidio di Annaba del 1816), disperazione e morte nei mari tempestosi (nel 1869 su trecento feluche solo cento ritornarono per una spaventosa tempesta che colpì il Mediterraneo sud occidentale). Ma il rosso corallo produceva ricchezza e possibilità di vivere dignitosamente.
Si racconta che l’edificio “corallone” a Tropea, un ammasso di case sopraelevate su di una roccia, fosse stato costruito durante la metà del ’700 dai tropeani che avendo pescato un gran ramo di corallo, venduto poi ai mercanti torresi, permise l’edificazione di queste case.
Antonio Genovesi, in Lezioni di Economia, ricordava che gli arditi e franchi marinai torresi permettevano al Regno un fatturato annuo di duecentomila scudi.
Lo spirito imprenditoriale dei torresi ebbe eco presso altri stati italiani. La fama del commercio esercitato dai torresi per la pesca del corallo destò l’interesse del doge Foscarini che volle tentare questo mestiere a Venezia invitando come maestro Francesco Loffredo, esperto armatore torrese, che veleggiava lungo le coste dell’Adriatico dalmata con alcune sue barche.
Il torrese dimorò forse per più anni nella città lagunare, governando otto barche e insegnando ai veneti la lavorazione del corallo.
Così pure il principe di Piombino, G. Battista Ludovisi, qualche secolo prima pensò di ottenere su progetto spagnolo grandi prodotti dalla pesca del corallo nella secca dell’isola di Giglio, con la collaborazione dei pescatori torresi. Fu costruito un villaggio a sue spese a marina di Cecina sperando così di attivare l’industria del corallo in quei luoghi. Ma la sua morte non permise che il proposito fosse portato a termine.
Nel settecento, con il riscatto, i torresi avevano acquisito anche il diritto di utilizzare le copiose acque del Dragone per uso industriale (molini e barche). E da quel momento si ebbe anche un incremento dell’attività terziaria legata al mare con lo sviluppo della cantieristica. Nel 1889 non a caso furono costruiti a Torre importanti brigantini come Minerva e Capraia.
Segantini, intagliatori, carpentieri e maestri d’ascia, acquisirono una tale abilità da essere riconosciuta dappertutto. Ad esempio, a Mola di Bari si trasferirono segantini nostrani ed alcuni pescatori molesi acquistarono motopescherecci torresi. Inoltre, nel quartiere della marina sorsero fabbriche di gallette, di cordami, vele e remi.
Un ruolo importante ebbero le donne che confezionavano le reti nelle strade e negli androni o erano impegnate a lavorare a domicilio il corallo sui caratteristici “bancarielli”. Inoltre, zingari esperti metallurgisti dalla periferia dell’altra Torre venivano qui a lavorare e rifornivano chiodi di diverse misure e foggia alla cantieristica. Nell’800 l’arte del corallo con la presenza di valenti incisori e scultori raggiungeva il massimo splendore.
La “civiltà corallina” iniziata alla fine del ’400, raggiunse l’apogeo fra il ’700 e l’800. E durata per circa cinquecento anni e si può ritenere estinta negli anni ’70 del secolo scorso.
Da: “La tòfa”, n° 282 del 14 ottobre 2018
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Parzialmente tratto da “Il mondo della pesca” – Co.Ri.S.Ma – Giovanna Sotgiu