Un problema nazionale
L’11 luglio 1952, ai due ‘fedelissimi’ di monsignor Salvatore Capula, Donato Pedroni e Cesiro Impagliazzo, al loro ritorno da Roma – con buone notizie, ma soltanto a metà – non sfuggì l’articolo che un illustre inviato di guerra, sindaco de La Maddalena per soli 15 giorni e fresco dimissionario, aveva pubblicato in prima pagina, con titolo ‘sparato’, sul giornale con il quale collaborava dopo essere tornato a vivere nella città natale. Renzo Larco, infatti, scrisse su ‘La Nuova Sardegna’, quotidiano che, all’epoca, non seguiva una linea editoriale vicina alla visione politica dei partiti di sinistra, un pezzo lungo e ben strutturato di denuncia dei licenziamenti avvenuti qualche settimana prima. Le conclusioni alle quali giunse l’ancora consigliere comunale di maggioranza, furono nette e drastiche: il licenziamento delle maestranze dell’Arsenale era un problema che avrebbe dovuto investire direttamente il governo nazionale, perché, se la Francia non avesse preteso l’applicazione rigida delle clausole “limitatrici e iugulatrici” del trattato di pace e l’Italia non avesse accettato supinamente le condizioni imposte, la base militare de La Maddalena non si sarebbe indebolita e non si sarebbe presentata mai la necessità di liquidare i dipendenti civili, seppure agitatori [1].
“A somiglianza di quanto è stato di recente fatto nei cantieri militari marittimi di Venezia, La Spezia, Taranto, anche dal cantiere militare marittimo di La Maddalena sono stati licenziati degli operai – si leggeva nell’attacco dell’articolo di Larco – Il provvedimento, sommamente increscioso per coloro che da esso sono stati colpiti, acquista un carattere di risentita gravità anche per il paese, in quanto accentua ulteriormente il disagio economico in cui versa la popolazione di La Maddalena, in conseguenza dell’applicazione delle clausole del Trattato di pace” [2].
Secondo l’ex primo cittadino, in conseguenza dei provvedimenti vessatori, imposti dalla Francia, l’arcipelago delle Bocche di Bonifacio era rimasto come un’immensa scena vuota e l’isola principale era stata di colpo anemizzata. La popolazione che, prima e durante la guerra aveva raggiunto le sedicimila anime, dopo il ridimensionamento drastico delle pertinenze militari, a malapena sfiorava le diecimila unità.
“In cinque anni la popolazione di questo centro – scrisse ancora Larco – è diminuita di un buon terzo (e si tenga conto, a meglio valutare la pericolosità di un tal fenomeno di impoverimento demografico, che il nucleo cittadino di La Maddalena si è sempre sovradistinto per un alto indice di natalità). E’ evidente che La Maddalena, ridotta come è oggi ridotta, necessità di attentissime cure che facilitino e assicurino la sua rinascita. Ma con quali cure, mezzi e programmi si potrà assicurare questa ripresa economica e sociale dell’isola?”.
La domanda, retorica, sottintendeva la risposta. I maddalenini, abbandonati dallo stato, visto che l’isola sembrava non essere più funzionale alle esigenze della difesa nazionale, avrebbero dovuto arrangiarsi da soli, costruirsi, mattone dopo mattone, il loro futuro, cercare in ogni modo e con ogni mezzo di provocare un mutamento radicale alla stagnante situazione di crisi.
Ma non ne sarebbero stati capaci.
L’iniziativa, assunta dall’amministrazione comunale, di inviare a Roma una commissione cittadina, per far riassorbire nell’organico del cantiere navale militare il piccolo contingente di lavoratori licenziati e per bloccare ulteriori congedi forzati, avrebbe condotto solo a sperare di ottenere, nelle migliore delle soluzioni, il “non peggioramento” della situazione di fatto [3].
“Si offrono sempre due metodi a chi tenti di rimediare a una situazione critica – si leggeva ancora nell’articolo dell’anziano giornalista maddalenino – appoggiarsi a basi realistiche positive; o indirizzarsi verso cure allettevoli per una loro più intima seduzione romantica. E si incominciò col dire da taluno: perché non si punta sulla creazione di un ‘porto franco’ a La Maddalena? Sennonché, evidentemente non aveva una chiara idea sulla funzione del ‘porto franco’ chi questa semplicistica soluzione volle ventilare. E altri ha aggiunto: perché non si reclama quella trasformazione che è rappresentata ancora oggi dal residuo cantiere militare marittimo di La Maddalena, in modo da renderlo un efficiente complesso atto a riparare i carri ferroviari e le locomotive delle linee sarde, che tuttora devono essere trasportati, con dispendio di tempo e di denaro, in continente? Ma anche per questo non si è forse a sufficienza riflettuto che per riparare locomotive e carri ferroviari occorrono stabilimenti altamente specializzati; e che, certo, tutto é possibile creare e tutto si può trasformare; eppure bisogna sempre fare i conti con le leggi della convenienza e dello stretto rendimento. Altre soluzioni di ripiego e di sussidiaria integrazione dell’economia isolana sono state abbozzate. Sia lecito, tuttavia, a chi scrive, avanzare riserve sull’efficacia concreta, reale, di tutte le soluzioni fin qui delineate. E sia lecito, altresì, a chi scrive prospettare e invocare una soluzione che assicuri una rinascita di La Maddalena perché la si vuole poggiare sulla rivalutazione delle naturali e ancora insostituibili risorse preminenti di questo ganglio strategico tirrenico mediterraneo. Non si dimentichi, innanzitutto, che le fortune di questa isola sono nate sul mare sotto il segno della Marina militare. Come La Spezia, fino al 1861, era stata una modesta cittadina costiera della estrema appendice orientale della Riviera ligure, così La Maddalena, ancora fino al 1880 restò un paesetto romito di pescatori e di oscuri commercianti(…)” [4].
In poche parole, i maddalenini non sarebbero stati liberi di disegnare le linee guida del loro sviluppo, non avrebbero potuto farlo non solo perché erano privi dei mezzi necessari e incapaci di affrancarsi da secolari tutele, ma anche, e soprattutto, perché l’importanza di questa micro-specificità insulare, ai fini della difesa, aveva generato una schiatta di figli placidi e indifferenti, disposti a mangiare soltanto dal piatto che loro porgeva il governo.
Una mentalità che era la mentalità tipica di coloro che maturavano la consapevolezza di essere stati baciati dalla fortuna. E non perché abitavano una terra dall’inestimabile pregio ambientale e paesaggistico. Ma perché il modello di sviluppo della loro economia era stato imposto da un’entità sovraordinata. Lo Stato aveva deciso, sempre, al posto dei maddalenini. Non avrebbe potuto, in un momento delicato, com’era quello che viveva la città nei primi anni cinquanta, sottrarsi alle sue fondamentali responsabilità.
Il Pane del Governo di Salvatore Abate e Francesco Nardini – Paolo Sorba Editore – La Maddalena
NOTE:
[1] R. LARCO, La Maddalena e il Patto Atlantico, in ‘La Nuova Sardegna’, AA. 52 del 11 luglio 1952.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
- Prologo di “Il pane del Governo”
- 1946. Le prime elezioni, ovvero ‘la maggioranza di una minoranza’
- 1946. La democrazia si presenta
- 1947. Gli anni della guerra fredda
- 1948. Le elezioni del 18 aprile
- 1949. L’Italia nella NATO e il Piano Marshall
- Alla vigilia delle elezioni del 26 maggio 1952
- Una maggioranza laica e di sinistra
- Le dimissioni di Renzo Larco
- Colpire le sinistre
- 24 Giugno 1952: dopo i tre suoni di sirena
- 12 luglio 1952 – L’intervento dell’on. Luigi Polano alla Camera dei Deputati
- Le reazioni in città e la difesa dell’Arsenale
- 16 luglio 1952. Al ritorno da Roma
- La libertà di dire la verità
- Un problema nazionale
- La vita amministrativa
- La fine della primavera isolana
- Le elezioni dell’8 marzo 1953. ‘Antò scopa di ferru’
- La diaspora del 1953
- L’amministrazione Carbini
- La ‘destra’ al governo (1953/1956)
- 1956 L’anno del consenso
- 1956 L’ultima offensiva
- Venti anni d’attesa
- Epilogo