CronologiaMillesettecento

Correva l’anno 1737

Ai pastori stanziati nella regione da Vignola ad Arzachena, il viceré impone la coltivazione delle terre incolte che, fino a quel momento, erano state utilizzate esclusivamente per far pascolare le greggi. I pastori della valle del Liscia, stanchi di sottostare ai padroni di Tempio, ne approfittano per ribellarsi e per comprare o occupare i rebagnos.

marzo

Il marchese di Rivarolo intraprende – primo fra i viceré sabaudi – una visita generale del regno.

1 aprile

Pregone vice regio per l’unificazione dei pesi e delle misure in tutti gli Stati de re di Sardegna.

30 aprile

Importanti interventi del viceré riguardanti la Gallura contenuti nel pregone del 30 aprile. Ai pastori delle isole intermedie impone di pagare ogni anno il deghino, altrimenti saranno sloggiati. Si ha notizia, forse propagata in modo strumentale, che qualche pubblico ufficiale, mandato a esigere tributi, sia respinto dai pastori corsi poco meno che a fucilate. Alcune disposizioni prefigurano i futuri orientamenti della politica agraria sabauda. (Entrambi, uomini e terra, non hanno avuto spazio nella storiografia ufficiale: la loro è una storia sommessa, frutto della quotidianità della vita, fatta di un sapere profondo, che ha segnato questa zona con i suoi toponimi, e ancora mantiene il valore dell’ospitalità nella parola “Benvenuto”. I pochi che ancora oggi abitano gli stazzi e per l’estate portano il bestiame a valle, lungo il fiume, calcano orme secolari. Gli antichi, i loro avi, all’inizio lasciano poche tracce di sé: sono i galluresi descritti dal Fara, nel 1586, come pastori coraggiosi che percorrono con capre e pecore i salti solitari, alle dipendenze dei “signori del bestiame”, la nobiltà tempiese. Il loro rapporto con i potenti proprietari di terre e greggi è ambiguo. Da una parte sono vincolati da contratti come la “soccida”, che li costringe a spartire a metà i frutti del lavoro e riconsegnare alla scadenza per intero il gregge originario. Dall’altra si sentono liberi, in un dominio senza controllo sulle terre da pascolo, che finiscono per considerare proprie. Il feudatario è lontano, disinteressato alle vicende di una regione vastissima e quasi sempre spopolata, i padroni stanno a Tempio, distante più di dieci ore a cavallo. La loro trasformazione in pastori agricoltori comincia nella prima metà del 1700. L’autunno, quando si spostano per la filiazione del gregge, portano con sé donna e figli e nei lunghi mesi invernali dissodano, seminano, coltivano intorno alla capanna piccoli orti essenziali. Quando il governo piemontese interviene e vuole imporre la coltivazione dei terreni del Liscia liberandoli dal bestiame, è tardi. La terra è tanta, i nobili non sanno neanche quanta, nei loro testamenti i “rebagnos” (terreni con bestiame, più recinti e capanna del pastore) non sono quasi nominati. Ma i pastori che ci vivono per buona parte dell’anno la conoscono palmo a palmo. E la vogliono, è l’unico modo per affrancarsi dai contratti capestro, verbali ma terribili. I Ciboddo tengono testa a don Andrea Pes Ricio in una causa per “un rebagno in pianura di Lixa” (1755), Juan Majorca acquista due rebagnos (1763), i Bulcholu ne comprano tre lungo il Liscia (1775), altri ancora si insediano con la forza. La ribellione dei pastori diventa sempre più aperta e violenta: i “signori del bestiame” perdono terreno e controllo e compare la figura del pastore proprietario. Compaiono anche, tra pascoli e incolti, le prime terre aratorie. Gli abitanti dispersi nella valle si riconoscono nella cussorgia di Lixa come unità geografica, ma mantengono insofferenza e antagonismo nei confronti del potere costituito, gli spagnoli prima, i piemontesi poi. Incapace di esercitare un controllo, il viceré Della Marmora, preoccupato “per la salute delle anime” ma anche “per la società civile che tanti danni riceve dalla barbarie di quelli abitanti” sceglie una via trasversale, la costruzione di chiesette campestri sul territorio. Quella di San Pasquale Baylon, insieme a quelle di Oviddè, Arzachena e Aglientu è seguita con attenzione e si realizza in due anni, tra il 1775 e il 1776. Datano da allora i registri parrocchiali di San Pasquale Portopuzzu, dove il beneficiario (il sacerdote cui è affidata la chiesa) annota morti, matrimoni e battesimi di un territorio talmente esteso da far capo oggi a tre comuni diversi, Palau, Santa Teresa e Tempio. Coloro che sfuggirono a qualunque regolamentazione, almeno da morti vengono censiti: il pastore muore per lo più nel suo “tugurio”, la capanna coperta di frasche che gli serve da abitazione, e come lui muoiono donne, bambini e neonati, che condividono il rigore di una vita precaria. Gli scarni registri parrocchiali, unici deputati all’osservazione di questa realtà, costruiscono il quadro sociale. Spesso si muore giovani, anche a venti, trenta anni, i bambini a due, tre anni, i neonati di un giorno o di una settimana. Per gli uomini ci sono le morti violente, per le donne le morti di parto, per tutti allignano nelle capanne l’insidia delle epidemie, che in pochi giorni si portano via metà della famiglia e la disperazione delle annate di carestia. Anche il fiume ha una duplice valenza: con le inondazioni porta limo prezioso che fertilizza la piana, ma in prossimità della foce ristagna in ampie paludi, nidi di insopprimibile malaria. Non si può sfuggire, se non allontanandosi nei mesi estivi, quando il pericolo si fa minaccioso. Persino il beneficiario se ne va, e per decenni (la prima sepoltura in agosto è del 1843) da giugno a settembre non vengono registrati morti. La vita difficile e precaria dei primi coloni appare oggi evidente, ma nei documenti ufficiali del tempo i “pastori di Lixa” vengono definiti ricchi, si autorizzano “questue di danaro, frutti o altro genere di cose” per sostentare la chiesa. Il loro privilegio è rappresentato dalla terra, di cui si contendono il controllo e il dominio. L’importanza della proprietà è così urgente che anche il “Libro de Defuntos” la sottolinea: c’è chi muore nel tugurio del nobile tempiese, e chi muore “in proprio loco campestri”, “in proprio habitaculo campestri”, qualcuno anche “in domo sua”. Consolidare o ampliare la proprietà è l’unico modo per raggiungere una buona posizione economica, e per farlo non si esita a fronteggiare i rivali anche con la violenza. La privatizzazione delle terre è lo scenario silenzioso in cui continuano a comparire le morti violente. I primi toponimi appaiono già nel 1802, Bona e Lu Licciu, nel 1803 Coluccia, nel 1815 Pittora, nel 1817 e nel 1818 Barrabisa e Vittavu. Sono gli stazzi della piana più vicini alla foce, punto di incontro con i corsi per le attività di contrabbando. Il latino rigorosamente d’obbligo nella registrazione li definisce “domus campester”, “ovile”, più raramente “tugurium”, sottolineandone di volta in volta le caratteristiche di terra con recinti, bestiame e abitazione, per quanto modesta. Direttamente o indirettamente i registri raccontano parte della storia dei liscesi, le prime famiglie insediate, Ciboddo, Bulcholu, Hieronymus e Majorca, gli stretti legami di parentela che richiedono frequenti dispense per i matrimoni tra cugini, l’esistenza di diversi “spurii” (illegittimi) cui vengono dati nomi di fiori o di piante, la presenza di parecchie donne proprietarie del fondo. Il termine “tugurio” sparisce nel 1830, la capanna ha lasciato definitivamente il posto alla casa d’abitazione in muratura, allo stazzo. Il fondo annesso grazie alla sua estensione e alla fertilità regalata dal fiume, garantisce ormai risorse più che sufficienti. Prova ne sia il Registro dei Tributi di Tempio del 1839. Su 44 soggetti di imposta in Cussorgia di Lixa, 15 hanno “possidenza superiore a lire mille” e appartengono a sei clan: Ciboddo, Maiorca, Bulciolu, Azzena, Frasconi, Sanna. Gli stessi nomi compaiono nel Sommarione dei beni rurali del Cessato Catasto (Comune di Tempio, seconda metà dell’800), insieme a Cuccu, Carta, Piumeddu, Mannone, Cabras e Misorro. Da tempo si sono spartiti i terreni della valle, indipendentemente dagli interventi del governo piemontese (editto delle chiudende e abolizione del feudalesimo). Le proprietà sono vaste: i Maiorca possiedono 386 ettari a Bona e 253 a Lu Palazzu, i Ciboddo hanno tutti i terreni sulla riva destra del fiume dalla foce fino a Capannaccia, ai Misorro, un tempo i più ricchi proprietari tempiesi, è rimasta solo Coluccia. Conducono il fondo direttamente, con l’aiuto di mezzadri e “gjualgj”, lavoranti esperti in ceralicoltura. Il terreno ghiandifero è ancora molto, è quello dove si fa legna e pascolano i maiali. Magari non è recintato, ma i “porci forestieri” che vi si introducono pagano al proprietario della terra “il piede”, un tributo pari al 25% della bestia (ancora oggi si dice “il piede” per indicare il quarto dell’animale). Durissimi nel difendere la loro proprietà, i liscesi rivelano ai visitatori esterni un senso dell’ospitalità stupefacente. La disponibilità nei confronti di chi arriva allo stazzo si dimostra anche nei confronti dei dimmandoni mendicanti girovaghi che ricevono vitto e alloggio in cambio di piccoli lavori o semplicemente delle notizie che portano dagli altri stazzi. Qualcuno si ferma: “Zio Antoni passava sempre di qua, quando è stato male e non ha più potuto girare, se lo sono portato a casa, e è morto qui”. Anche i maestri itineranti insegnano a leggere e a scrivere in cambio dell’ospitalità. Allo stazzo arrivano anche i venditori ambulanti a cavallo, a volte col carretto. Le donne e i bambini si fanno intorno, curiosi della poca mercanzia: stoffa, filo, aghi, setacci, pentole. Tutti quelli che percorrono la cussorgia, come i Liscesi, passano il fiume dove ci sono li trajetti (i guadi): quello di Santu Juanni in Crispoli, di Candela, di La Sciola, di Barrabisa. Quando arriva il ponte di Liscia, nel 1876, non sembra vero, ma bisogna aspettare il 1911 per avere la strada che unisce Ponte Liscia a Porto Pozzo. Con la strada per Tempio e quella per Palau, collega la valle con il mondo esterno che cambia. Crescono i paesi vicini di San Pasquale e Palau, Tempio diventa città guida della Gallura mentre la civiltà degli stazzi nel Liscia mantiene immutate le sue caratteristiche. Di padre in figlio si eredita la terra e il patrimonio culturale ad essa legato: anche se le proprietà si frazionano, il mondo arcaico dello stazzo rimane vitale e attraversa indenne la prima metà del XX secolo. Tumultuose diventano invece le trasformazioni degli ultimi quarant’anni, quando il fenomeno turistico che si impone su tutta la Gallura ne stravolge i connotati, cambiando strutture architettoniche, codici, consumi, nomi, insinuandosi progressivamente verso l’interno. Il modello economico e culturale cambia, l’agricoltura e l’allevamento cedono il posto alle attività turistiche, stazzi e campagna vivono lo stesso progressivo abbandono. Degli stazzi del Liscia alcuni sono ormai una struttura vuota, ingombra delle tegole del tetto diroccato, altri sono salvaguardati dai proprietari che vi abitano in modo discontinuo, solo pochi continuano a essere dimora delle ultime famiglie di contadini-pastori, che conservano nella tipologia abitativa, nelle residue attività agricole e nella organizzazione del fondo le radici storiche e culturali della valle. – da Li Liscesi a cura di Marta Maiorca e Gabriella Bossolo. Lo stesso pregone ordina di assegnare i terreni di Longonsardo perché siano coltivati, identificando precisamente le aree destinate al seminerio: la norma non viene applicata.

20 luglio

L’Isola di San Pietro viene colonizzata dai “Tabarchini” che si localizzano sulla costa occidentale, frontalmente alla costa della Sardegna (Isola Madre), da questa divisa da un braccio di Mare indicato fin da antichità remote quale “Fretum Accipitrum Insula”, ad oggi chiamato ancora e sempre “Friu”. Coincidono le volontà del Re Carlo Emanuele III (u Re Carlin) e dei Tabarchini pur per motivi di quasi “obbligo” per entrambi diversi:
– Il Re di Sardegna ché necessitava il popolamento di coste e mari da parte di comunità controllate e controllabili sì da non lasciare spazi a legni e persone dedite alla pirateria.
– I Tabarchini che vivevano ormai in spazi limitati su uno scoglio troppo prossimo alle coste Berbere di Crumiria, spesso minacciato e dalle popolazioni locali e da “Francesi” – Minacce sempre più reali ed evidenti, per o a condizioni dovute d’altra natura.
I primi “Coloni” , quasi di certo pescatori Tabarchini maschi, giungono in ispezione e scelta dei luoghi meglio adatti nel mese di Luglio dell’anno 1737; compiono più viaggi, quasi a spola, tra l’Isola di San Pietro e Tabarca per dare una più approfondita e dettagliata descrizione d’ogni tratto dell’Isola che sarà Carloforte (già sulle carte, ancora segrete, così veniva indicata) I capi famiglia accettano entusiasti la possibilità che viene loro offerta dal governo Sabaudo e danno quasi subito risposta positiva per un loro, pur non completo trasferimento nella nuova terra, nella loro nuova terra, certo deserta dove tutto può avvenire in senso positivo e negativo ma dove, più che mai, il loro futuro, il loro destino è nelle loro mani.
Questa volta, grazie ad un sistema complesso, per anche evolutivo, sentono in loro stessi lo scorrere di una nuova linfa, di nuova energia; in ognuno s’alza alle tempie la forza ch’era soffocata, sotterranea che proviene dalla medesima fonte che riempie e darà tensione e desiderio di vita. Solo a qualche settimana a seguire dunque, il 20 luglio del 1737 è firmata la “Convenzione di Infeudazione” tra il Marchese della Guardia Don Bernardino Antonio Genoves y Cerveillon (dal 1728 Cavaliere dell’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro) e Agostino Tagliafico in rappresentanza del Popolo Tabarchino.
I 17 Capitoli delle Convenzioni riconoscevano ai Genovei diritti sull’Isola Del Santo Pietro con titolo Ducale e:

  • Diritto di formare nuove peschiere e tonnare
  • Diritto della pesca del corallo secondo le garanzie di legge
  • Diritto d’imposizione di Gabella Dazio e Dogana

Facevano obbligo di:
Introduzione dei nuovi abitanti provenienti dall’ Isola di Tabarca e ad essi relativi sussidi per i successivi anni 2 .
Al Regio Patrimonio l’assunzione di difesa in Giudizio della Nuova Colonia nonché la direzione progettuale per la costruzione delle opere di difesa.
La popolazione doveva provvedere alla costruzione fisica d’ogni opera comune e delle proprie case d’abitazione, previste con lato interno non inferiore alla misura di “Aratro Uno” (metri 4,80).
Sarebbe stupido pensare che Carloforte, ergo, l’idea di far nascere una città che avrà da prendere il nome di Carloforte, nasca secondo lo svolgersi dell’azioni su dette e non secondo piani preordinati, in precedenza precostituiti. Lo studio dell’attuazione di un così non semplice progetto nasce su istruzione a Torino, ufficialmente a far data dal Giugno del 1736 attraverso una lettera destinata al Marchese di Rivarolo, Carlo Amadeo San Martino, Viceré della Sardegna in Cagliari (1735 – 1739), nella quale sono disposte le volontà del Re, del Governo Sabaudo per il ripopolamento di tutte le terre disabitate. Se per altre realtà erano pensati spostamenti di abitazione indigena, per l’isola di San Pietro era prevista una vera colonizzazione.

31 luglio

Regolamento per le milizie emanato dal Rivarolo: pene severissime sono previste per i reati commessi dalle truppe.

17 ottobre

Don Bernardino Genovès Cervellon, marchese della Guardia e barone di Portoscuso, firma il contratto d’infeudazione che gli frutterà il ducato di San Pietro e Carloforte.

dicembre

Il mercante appaltatore del diritto esclusivo sulla coltivazione e commercializzazione del tabacco in Sardegna denuncia la facilità con la quale i bastimenti (soprattutto francesi) riversano i loro tabacchi nella piazza cagliaritana. Il viceré Rivarolo chiede al console di Francia di intervenire per mettere fine a «questa sorta di contrabbando», o si vedrà costretto a chiedere a Torino l’autorizzazione a perquisire le navi in arrivo nei suoi porti. La principale difficoltà del governo è quella di conciliare il controllo delle coste sarde con lo sviluppo dei commerci, i quali – a detta dei diversi consoli del tempo – sarebbero stati pressoché inesistenti.