CronologiaMillesettecento

Correva l’anno 1736

Théodore de Neuhoff, re di Corsica, sotto il nome di Théodore I, decide di cacciare genovesi e affida Ange-Louis Luccioni con l’incarico di prendere Bonifacio. Ma questo vende ai genovesi i piani segreti di attacco del luogo. Viene condannato a morte dal re e fucilato.

17 febbraio

Il viceré appoggia il progetto di una società francese per lo sfruttamento delle miniere sarde.

12 maggio

Il viceré marchese di Rivarolo pubblica la legge colla quale si indicano minutamente tutte le forme da seguirsi nella compilazione dei processi criminali.

Correva l'anno 1736
Bozzetto di costume maddalenino

5 luglio

La prima notizia sul numero degli abitanti dell’arcipelago, Si ricava dalla relazione del Commendatore della Chiusa, inviata al Viceré marchese di Rivarolo in data 5 luglio 1736 : “trovandosi ancorati nel passaggio di Caruggi, si inviarono ufficiali e scrivani a riconoscere l’Isole della Caprara, Maddalena e Sparti e fu dà medesimi riferito essere le due prime abitate da Corsi Bonifacini in numero di sessanta maschi e femmine, compresi li figliuoli che da molto tempo si trovano nelle medesime alla custodia dei bestiami … Si è pure riconosciuto essere nella suddetta isola di Sparti alcune capre ivi lasciate da quattordici persone Corsi, che vi si portano due volte l’anno da Bonifacio … ove hanno le loro abitazioni … Si è pure riconosciuta un’altra isola detta di S. Maria … al presente inabitata stante la scarsezza dell’acqua“. Da queste più antiche notizie ufficiali si ricava che l’arcipelago, sebbene più vicino alla Sardegna, rientrava nell’ambito dell’economia della Corsica, e che le isole maggiori erano abitate per la utilizzazione delle risorse locali. Omette, la fonte, l’indicazione della periodicità dell’insediamento, di cui si ha sicura notizia da altri documenti. Sessanta persone, sebbene disperse nelle due isole di Caprera e de La Maddalena, costituiscono già un buon gruppo; più le quattordici di Spargi, si ha in determinati mesi una popolazione presente di 74 ab. nella prima metà del secolo XVIII. Cagliari. Lettera di incarico del Viceré, marchese di Rivarolo, al Commendator Della Chiusa di fare la ricognizione nelle isole. “ Si trovano in quelle marine tre piccole isole adiacenti alla Sardegna, denominate la Caparra, Maddalena e Sparti che sono dell’indubitato dominio di S. M. S’ha però notizia che da alcuni anni sono abitate da pastori Corsi, senza che da questi si paghi alcuna ricognizione o diritto di pascolo, meno che ne abbino dimandata la licenza. Abbiamo pertanto stimato per ora d’incaricarla solamente di prender cognizione se tuttavia vi abitino detti pastori Corsi, et in qual numero si trovino, e che quantità d’armenti vi abbino, per farcene al suo ritorno una distinta relazione.” Relazione fatta dal commendator Della Chiusa, comandante delle regie galere, intorno allo stato in cui ritrovò le isole aggiacenti alla Corsica. (A.S.T. Sard. Polit. cat. I, mazzo 3, n. 66) “ Trovandosi ancorati nel passaggio dei Caroggi, s’inviarono ufficiale e scrivano a riconoscere l’isole della Caprara, Maddalena e Sparti, e fu da’ medesimi riferito essere le due prime abitate da corsi bonifacini in numero di sessanta maschi e femmine compresi gli figliuoli, che da molto tempo si trovano nelle medeme alla custodia de’ bestiami consistenti in montoni, pecore, capre e bovine in numero di 1500 in 1600 delle piccole et 60 bovine, facendo detti corsi la loro dimora in barache di muri a secco coperte di rami, distante dal mare circa quattro miglia per tema de’ corsari barbari, e la loro sussistenza si è del poco formento di cattiva qualità che raccolgono in dette isole , e dei latticini che producono i loro bestiami. Si è pure li conosciuto essere nella suddetta isola di Sparti alcune capre ivi lasciate da quattordici persone corse che vi si portano due volte l’anno da Bonifacio per seminare circa 130 in 140 copi formento, ed in tempo della raccolta di essi che trasportano indi in Bonifacio ove hanno le loro abitazioni. La quantità di formaggio che si ricava dalli suddetti bestiami potrà ascendere a cantara cento circa che trasportano anche a Bonifacio o vendono a bastimenti che passano in dette isole, et secondo il detto de’ medesimi corsi ivi abitati che sono in parte venuti a bordo delle galere si è inteso appartenere li predetti bestiami alli fratelli Doria mercanti in Bonifacio, cedendo alli medesimi custodi la metà del frutto che si ricava da bestiami. Si è pure li conosciuta un’altra isola detta S.ta Maria, in cui dicesi abitavano anni sono due pastori corsi con alcuni bestiami, trovandosi la medesima al presente inabitata stante la scarsezza dell’acqua; traghettano in essa però li abitanti delle predette isole di Caprara et La Maddalena con una picciol quantità de’ loro bestiami” Ragionamento sovra le isole della Maddalena, Caprera e Sparti aggiacenti alla Sardegna (A.S.C. SdS, serie II, vol. 1290) “Molti anni avanti il 1728 sonosi introdotti li Corsi in tre isolette denominate la Maddalena, Caprara e Sparti situate nel golfo tra l’isola di Corsica e di Sardegna per ivi pascolare ol loro bestiame, essendo elleno disabitate, stante il pascolo sufficiente che per il bestiame hanno li Sardi nel Regno. Perlocchè, ed affine di andar incontro ad ogni pretenzione che coll’andar del tempo potessero suscitare li corsi sopra dette isole, stimò il Viceré di quel tempo Marchese di Cortanze far intimare agli abitatori di queste isole di pagar alle ville più vicine il diritto del pascolo, non avendo altro titolo que’ pastori corsi di abitarvi se non il mero ed unico possesso, giusta quello che dal Viceré ricercati informarono li Conservatori della sanità di Tempio, come ne da’ notizia il Viceré per sua lettera de’ 23 agosto 1728, scritta a S.M. nella Memoria intitolata concernente le isole della Maddalena. Collaudò S.M. con sua lettera de’ 4 ottobre 1728 in detta Memoria pure descritta tal sentimento, e gliene commise l’esecuzione, ed il Viceré con altra de’ 2 giugno 1729 notificò alla M. S. di aver così eseguito nel tempo del passaggio delle Galere in Sardegna, come nella prima sua suddetta de 23 agosto 1728 si era riservato; lo che fu dal Reale Sovrano approvato li 24 giugno suddetto. Addì 23 seguente luglio però scrisse a S. M. il Viceré con sua lettera, che non aveva ancora impiegate le Galere pel riscotimento dell’obbedienza de’ corsi abitatori di quelle isole, stante che attualmente l’impiegava nel pigliar certe notizie attese le risposte del Reggitore di Tempio, che gli davano luogo a dubitare del possesso Reale di dette isole, avvegnacchè riputate sempre si siano spettanti alla Sardegna e come tali siansi annoverate negli Editti fatti ne’ tempi sospetti di peste, sopra di che riservatasi però lui Viceré di dare maggiori notizie a S. M. Dalle informazioni trasmesse al Viceré dai Conservatori della Villa di Tempio D. Martino Riccio e D. Isidoro Guglielmo sotto li 7 luglio 1728, risulta molti essere gli anni che sono li corsi bonifacini co’ loro bestiami nel possesso delle Isole suddette, senz’altro titolo che quello del possesso, che a veruno affittano li pascoli, ed essere distanti queste isole dalla Corsica otto miglia e tutto al più due dal Regno di Sardegna. Dall’Editto poi del Barone di S. Remy allora Viceré dei 28 gennaio 1721, al capo 2 ricavasi essere stati dichiarati per luoghi infetti le costiere della Provenza e Linguadoca assiememente a tutte le isole ad esse adiacenti, come pure tutte le costiere marittime di mezzogiorno, ponente, levante e tramontana, eluse le piazze, porti e rade del Regno di Sardegna, che eccettuate diverse isole, fra le quali le tre di cui si agisce, la Dio mercè erano prive d’infezione. Scrisse inoltre il viceré con altra sua delli 8 agosto 1729 a S.M. che nonostante le possibili diligenze da lui fatte non aveva potuto rinvenire documenti che appagar potessero il di lui animo nella prova che le tre isole fossero adiacenti al regno, potendone dar l’unica prova solamente fra altri l’accennato Editto e il farsene menzione, però solo quella della Maddalena come adiacente alla Sardegna, dal Padre Aleo cappuccino nella di lui manoscritta Istoria e delle altre da qualche altro antico scrittore riferito dal Reggente Vico quantunque questo, nominando ad una ad una le isole adiacenti alla Sardegna, passi tutte tre queste sotto silenzio, laonde parimenti dice l’A.F.P. Cani nella di lui informativa dei 3 agosto 1729. Si osserva su questo punto che per Privilegio del Re di Spagna delli 10 novembre 1711 fu concessa al di lui Console residente in Corsica a titolo di rimunerazione de’ suoi serviggi ed indennizazione della concessione delle isole tra la Sardegna e la Corsica, qual non aveva avuto il suo effetto, la pesca de’ coralli sul mare di Sardegna. Il motivo per cui non abbia potuto detto Console godere della concessione di dette isole, dal suddetto Privilegio non risulta, né tampoco dalla sopramenzionata informativa dell’A.F.P. Cani, in cui sovra questo Privilegio pur si discorre, ma bensì di questo se ne fa menzione nella preaccennata Memoria, cioè provenire dalle minacce stategli fatte dalla Repubblica di Genova come di lui suddito, che gli vietarono di prender il possesso. Fu da S.M. in questo stato di cose preso il parere del barone di S. Remy, stato viceré di quel Regno, quale diede per sicuro essere dette isole adiacenti alla Sardegna, che li genovesi non le pretendono come dipendenti dalla Corsica ma bensì siccome sono elleno deserte e disabitate e vicine al Capo di Bonifacio, il che li pone in istato di ritirar li bestiami ad ogni minima scoperta de’ corsari, ed avendo altresì gran quantità di battelli vanno di continuo a pascolar nelle medesime (e questa può essere facilmente la cagione per cui li genovesi siansi opposti al Console Carboni e col minacciarlo non abbinagli permesso di prendere il possesso) il che non fanno ne’ puonno fare li sardi attesa la lunga distanza di paese disabitato e deserto che vi è da Terranova a Longosardo, la mancanza delle torri per la guardia cagionata dall’intemperie dell’aria, e de’ battelli per tragittare. In seguito a questo sentimento e ponderata la maggior vicinanza alla Sardegna che alla Corsica, la comprensione fattane negli editti. La menzione che ne fanno gli autori, scrisse S.M. al Viceré Marchese di Cortanze per sua lettera degli 11 ottobre 1729 doversi riputare usurpativo il possesso ed ordinogli di mandare alli Giudici, a cui poteva spettare l’uso di dette isole di far intendere alli pastori corsi di non introdurvi più li loro bestiami al pascolo senza la loro licenza qual però veruna volta si dovesse negare e senza pagamento. E inoltre di valersi dell’opportunità delle galere per cacciarli ogni volta quando fossero renitenti a chiedere detta licenza, facendovi fare atti possessori affine di esercitarvi la sovranità ed escludere quella che ne potesse pretendere la Repubblica di Genova. Fece il Viceré col mezzo del Regidore di Tempio pervenire l’ordinata intimazione ai corsi pastori e del fatto ne trasmise tre relazioni che in detta Memoria si ritrovano però tra di loro in qualche cosa varianti. Si riferisce nella prima che avendo detto Regidore di Tempio inviato in febbraio allora scorso il di lui Luogotenente ad intimare a detti pastori l’offerta licenza fugli risposto che essi ciò far potevano senza la partecipazione de’ loro padroni abitanti nella Corsica. Nella seconda che volendosi nuovamente trasferire il Luogotenente suddetto in dette isole per intendere precisamente se detti pastori volevano chieder la licenza eragli stato negato l’imbarco da due bastimenti, uno corso e l’altro napoletano, che gli riferirono essere stato a tutti li patroni di barche vietato dal Governatore di Bonifacio di trasportare a dette isole verun sardo e principalmente Ministri di Giustizia, anzi che era stato ordinato a detti pastori di prender armi e far fuoco sopra li sardi per il che erano stati provvisti di polvere e palle, ed essere stato costretto d’inviare un pastore sardo ad intimargli che se non chiedevano la licenza si sarebbe scritto al Viceré. Nella terza che avendo il pastore sardo riferito che li pastori corsi avevano aderito di chiamar la licenza si aveva a portar il Luogotenente in dette isole per dargliela, il che si differiva stante il pericolo de’ mori che infestavano quelle spiagge. Formarono in questo tempo li marchesi di S. Tommaso e del Borgo, appunto dopo la trasmissione dal Regno di quest’ultima relazione, una Memoria in conformità della quale si è poi scritto al Viceré li 22 giugno 1730 dalla Segreteria di Stato. Raggirassi questa nel suggerire lumi e documenti da prendersi dal Regno per sondare l’adiacenza di queste isole alla Sardegna, quali spettano all’origine dell’introduzione in esse de’ corsi , se questa sia seguita nel tempo del dominio della Spagna, se abbiano pagato qualche diritto, chiamata la licenza o dato raccorsi, se abbiano fissa abitazione oppure vadino solo al tempo de’ pascoli, se i re di Spagna, l’Imperatore o la Repubblica di Genova abbiano eserciti atti di sovranità, siccome gli Editti che si fanno nei tempi sospetti di peste ricavano per l’ordinario il maggior fondamento dalla comune pubblica sicurezza degli intervenuti così se avanti gli Editti fatti in tempo di peste si sia seguita qualche intelligenza colla Corsica, se questi in dette isole pubblicati si siano, e se per sostener l’osservanza vi siano state poste guardie e da chi tempo per tempo. Fu parimente suggerito di prender copia della concessione fatta dall’Imperatore di dette isole al suo Console, e se il Privilegio della pesca de’ coralli abbia avuto il suo effetto oppure incontrata opposizione. Si riflette in essa non essere sufficiente motivo a provare la sovranità il risultato dagli storici per trattarsi di un solo manoscritto del P. Ales e di una mera citazione del Reggente Vico; tanto più per essere questo storico sardo e quindi sospetto e per non far menzione di queste all’occasione che ad una nomina le isole della Sardegna. E stimassi finalmente spediente che a luogo d’inviare il Luogotenente del Regidore di Tempio a dar le licenze, affine di non esporre verun ufficiale di S. M. , s’inviasse persona privata come sarebbe il pastore sardo già una volta spedito con due o tre altre persone della stessa sfera le quali potessero al loro ritorno far le dovute deposizioni sovra il succeduto. Mentre si andavano qui in Torino facendo le suddette disposizioni, notificò il Viceré a S. M. sua lettera de’ 7 luglio 1730 che avendo l’ufficiale di Tempio fatta sotto li 19 di giugno l’intimazione alli pastori corsi di prender licenza fugli da questi risposto che dovendo fra pochi giorni aver compita la raccolta de’ grani dovevano ritirarsi a Bonifacio ed abbandonare le isole e che li padroni de’ bestiami darebbero provvidenza per essi per qual cagione non andavano a prender la licenza; dal che arguisce il Viceré potessero essere stati istruiti li pastori a rispondere e dopo questo non si ha più notizia se siasi evacuata la Memoria de’ suddetti Marchesi o se siansi fatte ulteriori disposizioni in sino al presente, in cui all’occasione che portossi il Commendatore Della Chiusa a far il giro della Sardegna con due galere di S. M. in qualità di comandante di esse, fu nell’istruzione incaricato di prender cognizione se in dette isole vi abitino ancora li pastori corsi, in qual numero si ritrovino e qual quantità di armenti vi abbiano. E riferì il predetto Commendatore esser le isole della Maddalena e Caparra abitate da lungo tempo da 60 corsi bonifaciani tra maschi, femmine e figliuoli, che custodiscono bestiami consistenti in montoni, pecore, capre e bovine in numeri di 1500 in 1600 delle piccole e 60 bovine, e fanno la loro dimora in baracche di muri a secco ed essersi ritrovate nell’isola di Sparti alcune capre lasciate da 14 persone che due volte all’anno colà si portano da Bonifacio per seminarvi 130 i 140 coppi formento qual raccolto traghettano in Bonifacio, poter ascendere la quantità del formaggio a cantara cento circa che trasportano a Bonifacio o vendono a bastimenti passaggieri, essersi inteso appartenere li suddetti bestiami alli fratelli Doria mercanti in Bonifacio, quali cedono a pastori custodi la metà del frutto che da’ bestiami si ricava; e finalmente essersi riconosciuta altra isola denominata S. Maria, in cui essersi detto che abitavano due pastori corsi con alcuni bestiami e trovasi al presente inabitata stante la scarsezza dell’acqua, traghettarvi però in essa gli abitanti dell’isola di Caprara e Maddalena con piccola quantità del loro bestiame. In questo stato di cose restando ancora ad evacuarsi alcuni de’ capi di quelle notizie che si addimandarono nella memoria formata da’ Marchesi di S. Tomaso e del Borgo e per avere le quali se ne scrisse come sovra lettera regia al Viceré del 22 giugno 1730 non si può per ora formare un giudizio più accertato del dominio e proprietà dell’isole delle quali si tratta a favore della Sardegna di quello che fecero li mentovati ministri. Quindi saressimo di sentimento che si dovesse nuovamente far premura appresso quel Viceré per la intiera esatta evacuazione di tal memoria. Intanto poi quantunque abbia luogo da credere che con tutto agio all’occasione che le galere di S. M. si trattengono in quelle marine si potrebbero in esse isole fare atti possessori e dimostrativi dell’esercizio di giurisdizione e sovranità con obbligar li pastori colà abitanti a riconoscere per sovrano di quelle isole il Re di Sardegna ed in conseguenza di tal ricognizione prender la licenza di pascolar in esse i loro bestiami da un subdelegato della Real Intendenza colla sottomissione di pagar per essi il solito deghino, cosa che sin’ora non si sa che siasi praticata dalla Repubblica di Genova mentre il tenervi al pascolo bestiami grossi e minuti il seminarvi e poscia raccoglier granaglie non sono che atti di un possesso privato ed in nome particolare de’ mercanti fratelli Doria abitanti in Bonifacio, come riferisce il Commendatore della Chiusa nella sua relazione. Tuttavia si riflette primieramente che un simile atto potrebbe venir tacciato di forzoso e turbativo del libero possesso in cui si trovano codesti pastori da molti anni a questa parte di goder di que’ pascoli senza la menoma contraddizione ne ricognizione veruna di sovranità e contribuzione del deguino, potendo eziandio allegare a loro favore l’essersi colà introdotti come in siti abbandonati e derelitti, e quindi averne potuto acquistare non che il possesso ma anche il dominio. Ed inoltre trovandosi quelle isolette discoste per il tratto di due miglia circa di mare dai lidi e spiagge della Sardegna le quali in tal posto sono interamente disabitate né vi sono ville in quelle vicinanze se non in distanza di molte miglia, non si vede come potrebbero sostenersi e continuarsi qualunque sorta di atti possessori che venissero per parte del Governo fatti e con quali mezzi compellirsi i pastori al pagamento del deguino promesso, nel qual caso non sostenendosi né continuandosi tali atti possessori riuscirebbero in disdoro al Governo e fors’anche di pregiudizio alla ragione di dominio che si ha giusto fondamento di creder competer alla Sardegna. Sicché prima di devenire a qualsivoglia atto che portasse novità oltre il far premura come si è di sopra accennato per l’evacuazione intiera de’ quesiti proposti nella Memoria de’ Marchesi di S. Tommaso e del Borgo stimassimo pur anche dovesse il Viceré suggerire gli atti possessori d’esercizio di giurisdizione e sovranità che credesse a proposito doversi fare ed in qual maniera sostenerli dopo fatti e continuarli in avvenire, mentre per le notizie sin qui avute della già ponderata mancanza di uomini e bastimenti tutto a lungo delle spiagge che fanno fronte alle isole non si può immaginarsene i mezzi. (Riccardi – ? – Beraud)

19 luglio

La pressione sui pastori isolani, avviata col pasticcio della contemporaneità degli atti di polizia sanitaria sardi e genovesi per la peste di Zante, si esaurì nel giugno 1730, con l’ultimo tentativo del luogotenente tempiese di impegnarli a prendere la licenza e l’ennesimo rinvio furbesco da parte loro. Le famiglie isolane rientrarono per i mesi estivi nei loro alberghi del distretto di Bonifacio o ai margini di quella cittadella, portando con sé la piccola eccedenza delle loro povere produzioni. Portarono anche a battezzare i loro nati: Maria Angela, nata a metà novembre del 1729 da genitori di Quenza, e Maria Caterina, nata il febbraio dello stesso 1730 da genitori di Sorbollà. Andavano a riprendere le relazioni con le loro famiglie d’origine, sempre più allargate con il passare delle generazioni, a rimotivare i loro sentimenti di appartenenza, a partecipare alle lavorazioni stagionali, in particolare la vendemmia, ed eventualmente anche a riproporre diritti patrimoniali e/o di possesso su beni lasciati in Corsica. Per qualche anno quei pastori non ebbero problemi con i funzionari del governo sardo, finché nella prima estate del 1736 non videro staccarsi dalla galera battente bandiera sarda ancorata in rada una scialuppa che si diresse alla Maddalena. Ne sbarcò un ufficiale e lo scrivano di bordo, inviati per “riconoscere le isole della Cabrera, Maddalena e Sparti”. La galera era comandata dal commendatore Della Chiusa, che a sua volta aveva ricevuto ordini diretti dal viceré, marchese di Rivarolo: “habbiamo stimato per ora d’incaricarla solamente di prender cognizione se tuttavia vi abitino detti pastori Corsi, et in qual numero si trovino, e che quantità d’armenti vi abbino, per farcene al suo ritorno una distinta relazione”. La ricognizione eseguita dalla inerme delegazione non dovette turbare più di tanto i pastori isolani che, avvertiti dagli interventi ultimativi degli anni precedenti, si potevano addirittura attendere quell’azione di forza minacciata da parte sarda proprio con le armi della galera. Alcuni documenti successivi hanno riferito di colpi di arma da fuoco esplosi contro la galera sarda da parte dei pastori isolani, altri lo hanno giustamente smentito, in quanto la stessa relazione di Della Chiusa non ne faceva menzione. I pastori capirono subito che le pretese sarde di esercizio di dominio sulle isole erano state ridotte a rango di ulteriore ricerca sui titoli di dominio e di conoscenza dello stato di fatto, e accolsero quindi i funzionari militari facendosi contare e dando le informazioni richieste.
La ricognizione era inserita nel noto attivismo dell’azione di governo del viceré Rivarolo che, trovata questa pratica inevasa da qualche anno, la riattivò inviando a Torino la relazione di Della Chiusa. Nel dispaccio di trasmissione, datato 19 luglio 1736, fece notare alla corte che il lungo possesso delle isole da parte dei corsi avrebbe potuto pregiudicare gli interessi del sovrano, per cui chiese di conoscere gli ordini del re al proposito. Dovette, quindi, mettere a freno la sua indole decisionista e, rendendosi conto che l’affare poteva essere spinoso per le relazioni con la Serenissima, concluse precisando che: “Je n’innoverai rien sur cette matiere avant que d’avoire recu les ordres precis”. Invece di ordini precisi, a Cagliari giunsero i ragionamenti di un “congresso”, ovvero di un gruppo di lavoro, istituito per esprimere un “Parere sulle avvertenze da aversi nel prendere possesso delle isole Intermedie e de’ mezzi da adoperarsi per non lasciar pregiudicare i diritti di sovranità su di esse dal possesso presone da’ pastori corsi”.

agosto

Il viceré tiene un congresso per decidere quali atti possessori fare per affermare il possesso delle isole dell’arcipelago. Quindi dà istruzioni al comandante Della Chiusa di sostare nei Carruggi, in occasione di un giro che deve fare sulle coste della Sardegna con due regie galere, per farvi una ricognizione. Della Chiusa effettua una sorta di censimento degli abitanti e del bestiame che essi custodiscono: “60 maschi e femmine compresi i figli, 1500 fra montoni pecore e capre, 60 bovini […] Dimorano in baracche di muri a secco coperte dai rami, distanti dal mare 4 miglia per timore dei pirati barbareschi. Vendono formaggio ai bastimenti, il bestiame è proprietà dei Doria di Bonifacio […].

16 agosto

Carlo Emanuele III aderisce ai preliminari di pace.

19 agosto

Il documento, datato 16 agosto 1736, ripercorreva le vicende del periodo 1728/30 e riportava la relazione del comandante Della Chiusa, concludendo che: “in questo stato di cose non si può per ora formare un giudizio più accertato del dominio e proprietà dell’isole delle quali si tratta a favore della Sardegna”. Gli estensori del parere non andarono oltre il consiglio al re di far proseguire le ricerche al viceré ed eventualmente: “all’occasione che le galere di S. M. si trattengono in quelle marine si potrebbero in esse isole fare atti possessori e dimostrativi dell’esercizio di giurisdizione e sovranità con obbligar li pastori colà abitanti a riconoscere per sovrano di quelle isole il Re di Sardegna ed in conseguenza di tal ricognizione prender la licenza di pascolar in esse i loro bestiami da un subdelegato della Real Intendenza colla sottomissione di pagar per essi il solito deghino”. Ma un simile atto di forza per essere utile e risolutivo nel tempo avrebbe dovuto, secondo gli stessi proponenti, essere sostenuto da un’azione continua di atti possessori che le condizioni di spopolamento delle coste galluresi e la mancanza di villaggi vicini non rendevano possibili. La situazione sconsigliava, quindi, l’azione di forza, perché la mancanza di un presidio militare stabile avrebbe reso vana la pratica del principio di sovranità, con un contraccolpo negativo alla autorità del governo sardo, “ed anche di pregiudizio alla ragione di dominio che si ha giusto fondamento di creder competer alla Sardegna”.
Tutto tacque per trent’anni in cui però la vita nelle isole, i traffici nelle Bocche e le relazioni tra le due sponde erano normalmente intensi. Il caso Rubiano ci ha raccontato della conoscenza reciproca e della frequentazione tra marinai del piccolo armamento navale militare sardo in servizio nei Carruggi e i pastori delle isole, e tra questi e i pastori dei rebagni delle “cussorgie” di Surrau, del Liscia e di Arzachena. Il gruppo dei caprerini che aveva rivendicato l’uccisione del comandante Rubiano, una volta soddisfatto il credito d’onore nei confronti dell’offensore, si intrattenne con il resto dell’equipaggio e lo invitò a mantenere i buoni rapporti di sempre e ad andare a ospiti a Caprera. D’altronde le occasioni di contatto dovevano essere frequenti, secondo le cronache dei diari di bordo dello sciabecco sardo e delle sue galeotte armate in corso contro gli sfrosi e per la salvaguardia della sanità.

10 settembre

Il destino di Tabarca è simile a quello toccato alle altre isole del Mediterraneo, anche in considerazione del forte valore strategico-militare che esse hanno assunto col tempo. Sebbene marginali e periferiche, le isole lungo le quali si traccia e si scioglie il confine tra la sponda settentrionale e quella meridionale del Mediterraneo diventano il campo di battaglia tra le potenze mediterranee. Quando scoppia la guerra dei Sei Anni (1756-1763) tra Francia e Gran Bretagna, Tabarca e di nuovo in vendita. Nel 1756 il bey di Tunisi e in difficoltà finanziarie, e desidera fare cassa. I francesi tornano al tavolo delle trattative interrotte negli anni Quaranta: per loro e piu che mai importante acquisire un avamposto chiave per il controllo dei traffici inglesi, dei loro contatti con Livorno e delle loro incursioni sulle coste nordafricane.
Nello stesso anno i francesi prendono d’assalto e occupano l’isola di Minorca. Gli inglesi, che vi sono sbarcati nel 1708 (e che la possiedono formalmente in seguito al trattato di Utrecht del 1713), sono costretti a sloggiare. I francesi si assicurano cosi un approdo strategicamente importante nel contesto mediterraneo e mettono le mani su uno di quei luoghi che – alla pari delle altre isole Baleari – da sempre costituisce uno snodo di confronto tra cristianità e Islam.
Inoltre, Maone, capitale minorchina, e uno dei luoghi della diaspora greca. Sono migliaia gli esuli greci dispersi nel Mediterraneo: da Venezia a Odessa, da Trieste a Napoli e a Marsiglia, passando per Genova e di qui in Corsica, per arrivare alla stessa Maone. Qui, gli esuli ellenici hanno potuto crescere e prosperare grazie alla politica coloniale inglese, la quale ha garantito loro protezione, piena libertà religiosa e la facoltà di stanziarsi nelle coste, da dove hanno potuto mantenere attive le proprie reti commerciali mediterranee e il collegamento con gli altri greci della diaspora.
La cacciata degli inglesi getta nello scompiglio la comunità ellenica. Numerose famiglie greche lasciano l’isola per rifugiarsi in Sardegna, accogliendo l’invito e gli incentivi fiscali offerti dal re sardo ai coloni forestieri in cerca di nuovi luoghi nei quali stanziarsi.
Maone e Tabarca non sono le uniche isole a prestare coloni alla Sardegna nella prima meta del Settecento. Fin dagli anni Trenta, una numerosa comunità di greci residenti in Corsica tratta segretamente le condizioni del suo trasloco nell’isola controllata dai Savoia. Da quando i greco-corsi hanno deciso di sostenere militarmente la Repubblica di Genova, impegnata nella repressione delle rivolta corsa, la Corsica non e più luogo più sicuro. I villaggi greci sono stati assaltati e distrutti, dopo essere stati spogliati di ogni bene. Nel 1731 i greci riparano ad Ajaccio; vorrebbero lasciare immediatamente l’isola alla volta della Sardegna, ma la Repubblica di Genova rinforza la vigilanza “e minaccio pene molto dure contro coloro che avessero tentato la fuga”.
Dal canto suo, il governo sardo, sebbene desideroso di coloni forestieri per il ripopolamento della Sardegna, si mostra molto prudente nei confronti di quelli provenienti dalla vicina Corsica. Preferirebbe chiudere la costa gallurese, strettamente legata alla Corsica, e ridimensionare gli spazi sociali di contaminazione nei quali circolano idee sediziose e disegni potenzialmente ostili all’ordine costituito.
Ma ridurre lo spazio di mentalità forgiatosi per secoli nel Mediterraneo entro gli schemi razionali dello Stato e compito difficilissimo, perfino a Cagliari e nelle altre città sulle quali la presa dello Stato sembra più forte. Il 10 ottobre 1736, il console Paget scrive al ministro degli esteri francese per comunicargli che le autorità sarde hanno intercettato un pacco proveniente dalla Corsica e destinato al console inglese a Cagliari. Il mittente e Teodoro I, re di Corsica tra il marzo e il novembre del 173635. Il plico contiene diverse lettere: una per il bey di Tunisi (al quale Teodoro chiede l’invio di artiglieria e munizioni, facendogli offerta di amicizia), una per Livorno e una per il console inglese a Cagliari.
Quest’ultima e stata redatta in italiano il 10 settembre 1736 a Sartene. Teodoro si rivolge al console britannico in virtù della “corrispondenza stretta che tengo con la corte britannica”, chiedendogli di far recapitare le lettere allegate al conte Lawrence, “assicurandola che riconoscerò questo servizio, e sarò in ogni occorrenza pronto a promuovere il suo bene e prosperità; assi lei disponga con ogni franchezza di me, che resto ansioso a farli piacere”. Ma ciò che più preme al rivoluzionario tedesco e ottenere “una nave inglese o francese a poter mandarmi in Porto Vecchio con munizioni di guerra, come schioppi, moschetti, polvere et palle di ferro” che Teodoro pagherà “a vista in contanti, come anche il nolo della nave”.
Quando la lettera viene intercettata i pensieri del viceré sardo Rivarolo sono già rivolti alla frontiera sardo-corsa. Da settimane infatti alcuni banditi sardi rifugiatisi a Bonifacio compiono scorrerie ai danni dei litorali orientali di Orosei e di Terranova (l’attuale Olbia), dove fanno incetta di bestiame e grano. I banditi-pirati viaggiano a bordo di un bastimento battente bandiera francese e fanno ogni volta rientro in Corsica. Una situazione inaccettabile per lo Stato sabaudo, il quale sospetta che le scorrerie – che partono da Bonifacio – siano condotte con la complice indifferenza di Genova, potenza con la quale i rapporti sono da tempo piuttosto tesi per questioni di confine.
La reazione sarda e immediata. Il viceré convoca il console francese e lo informa che il governo avrebbe punito severamente i capitani e i patroni francesi che avessero in qualsiasi forma agevolato il banditismo e il contrabbando sul suolo sardo. La stretta sui bastimenti francesi segue di poco l’ordinanza (del 28 luglio) con la quale il re ha ribadito il divieto (impartito per la prima volta nell’agosto del 1731) a tutti i capitani e patroni di imbarcazioni francesi di dare in noleggio i propri bastimenti, per qualsiasi servizio che possa sostenere i rivoltosi corsi e far transitare nei porti sardi di cannoni, armi e altre munizioni da guerra destinate ai corsi.
Ma la Sardegna del Settecento e luogo che sfugge costantemente alla presa. Le ordinanze incidono in misura limitata in regioni come la Gallura, dove la ricolonizzazione di vaste aree spopolate e sostenuta da un’evasione fiscale molto alta, e dove la resistenza alle pressioni dello Stato può assumere forme tali da far tremare i polsi anche ai funzionari sabaudi più determinati.
Il 21 ottobre 1736, il console francese a Cagliari Paget chiede al suo ministro di premere sulla Repubblica di Genova, perché faccia arrestare i banditi e li consegni al viceré sardo, che non sopporta l’idea di trovarsi impotente davanti a questi miserables. Solo l’arresto dei banditi farebbe desistere i sardi dal proposito di arrestare il francese proprietario dell’imbarcazione presa a nolo dai contrabbandieri.
Provvedimento ritenuto eccessivo dal console di Francia a Cagliari, il quale si dice convinto dell’innocenza del suo connazionale, “che mostra ingenuità e di non avere avuto intelligenza con i banditi” i quali “indegnamente […] hanno trattato sia il capitano che i marinai della nave […] con ingiurie tra le più atroci e minacce e maltrattamenti”. Argomenti che non fanno presa sul viceré Rivarolo, ansioso di suturare la frontiera tra Sardegna e Corsica e punire duramente chiunque la oltrepassi senza autorizzazione.
La necessita di assicurarsi il pieno controllo della frontiera sardo-corsa si fa più impellente nel 1742 quando, in seguito allo scoppio della Guerra di Successione austriaca, Sardegna e Genova si dichiarano guerra. Nel 1745 Carlo Emanuele III – col consenso inglese e austriaco – accetta l’invito dei corsi a farsi patrocinatore della loro causa. Nell’ottobre spedisce in Corsica Domenico Rivarola alla guida di un contingente sardo. Nel novembre, con l’appoggio della flotta inglese, i sardi prendono d’assalto Bastia e la espugnano. Nuovi scontri nei pressi di Bastia – nel frattempo tornata ai genovesi, grazie al sostegno francese – si ripetono nel 1748 quando 1500 soldati austro-sardi la cingono ancora d’assedio.
L’avventura sarda in Corsica finisce con la pace di Aquisgrana che riconsegna formalmente l’isola a Genova. I sardi non torneranno più sul suolo corso, ma proseguiranno nella loro azione di costruzione della frontiera tra le due isole. Cosi, il 14 ottobre del 1767, approfittando della debolezza genovese, Carlo Emanuele ordina la presa di possesso delle “isole intermedie”, l’arcipelago che punteggia il tratto di mare tra Sardegna e Corsica.
In questo contesto, i greci di Corsica rinnovano la richiesta a Carlo Emanuele di potersi stanziare in Sardegna. Prima di accettare il re pone una serie di condizioni sulle quali non e ammessa alcuna trattativa: tra queste il divieto di concedere le aree costiere del Nord Sardegna (richieste dai greci). Come potrebbe lo Stato affidare porti e scali strategici a genti che sono state al soldo della repubblica di Genova e che per giunta intrattengono rapporti documentati col variegato mondo del banditismo sardo-corso? Sarebbe come portarsi in casa una quinta colonna del nemico, vanificando gli sforzi compiuti per definire in maniera permanente la frontiera tra Sardegna e genovesato.
Intanto in Corsica, un anno dopo la presa di possesso sarda delle isole intermedie, la Francia spegne la resistenza degli autoctoni. L’annessione della Corsica alla Francia ridisegna gli equilibri del Mediterraneo e sembra ridimensionare l’influenza della Gran Bretagna che, al termine della Guerra dei Sei anni, si ritrova più isolata dal punto di vista diplomatico. Gli inglesi pagano per essersi limitati ad un sostegno “cauto e insufficiente” alla causa corsa e per non avere compreso quanto fosse importante evitare che la Corsica finisse nelle mani dei nemici francesi.
Quando Pasquale Paoli esce di scena, sconfitto, il partito patriottico corso si sbriciola e i suoi leader prendono rapidamente la via dell’esilio. Gli esuli corsi condividono cosi il destino che solo pochi anni prima era toccato ai loro conterranei e nemici greci. Tenendo ancora una volta fede alla sua vocazione storica, la Corsica “sciama in tutte le direzioni”, cosi che anche nel Settecento “non c’è fatto mediterraneo in cui non si trovi mescolato un corso”.

10 ottobre

Il console Paget scrive al ministro degli esteri francese per comunicargli che le autorità sarde hanno intercettato un pacco proveniente dalla Corsica e destinato al console inglese a Cagliari. Il mittente è Teodoro I, re di Corsica tra il marzo e il novembre del 1736. Il plico contiene diverse lettere: una per il bey di Tunisi (al quale Teodoro chiede l’invio di artiglieria e munizioni, facendogli offerta di amicizia), una per Livorno e una per il console inglese a Cagliari. Livorno e una per il console inglese a Cagliari. Quest’ultima è stata redatta in italiano il 10 settembre 1736 a Sartene. Teodoro si rivolge al console britannico in virtù della «corrispondenza stretta che tengo con la corte britannica», chiedendogli di far recapitare le lettere allegate al conte Lawrence, «assicurandola che riconoscerò questo servizio, e sarò in ogni occorrenza pronto a promuovere il suo bene e prosperità; assì lei disponga con ogni franchezza di me, che resto ansioso a farli piacere». Ma ciò che più preme al rivoluzionario tedesco è ottenere «una nave inglese o francese a poter mandarmi in Porto Vecchio con munizioni di guerra, come schioppi, moschetti, polvere et palle di ferro» che Teodoro pagherà «a vista in contanti, come anche il nolo della nave». Quando la lettera viene intercettata i pensieri del viceré sardo Rivarolo sono già rivolti alla frontiera sardo-corsa. Da settimane infatti alcuni banditi sardi rifugiatisi a Bonifacio compiono scorrerie ai danni dei litorali orientali di Orosei e di Terranova (l’attuale Olbia), dove fanno incetta di bestiame e grano. I banditi-pirati viaggiano a bordo di un bastimento battente bandiera francese e fanno ogni volta rientro in Corsica. Una situazione inaccettabile per lo Stato sabaudo, il quale sospetta che le scorrerie – che partono da Bonifacio – siano condotte con la complice indifferenza di Genova, potenza con la quale i rapporti sono da tempo piuttosto tesi per questioni di confine. La reazione sarda è immediata. Il viceré convoca il console francese e lo informa che il governo avrebbe punito severamente i capitani e i patroni francesi che avessero in qualsiasi forma agevolato il banditismo e il contrabbando sul suolo sardo. La stretta sui bastimenti francesi segue di poco l’ordinanza (del 28 luglio) con la quale il re ha ribadito il divieto (impartito per la prima volta nell’agosto del 1731) a tutti i capitani e patroni di imbarcazioni francesi di dare in noleggio i propri bastimenti, per qualsiasi servizio che possa sostenere i rivoltosi corsi e far transitare nei porti sardi di cannoni, armi e altre munizioni da guerra destinate ai corsi. Ma la Sardegna del Settecento è luogo che sfugge costantemente alla presa. Le ordinanze incidono in misura limitata in regioni come la Gallura, dove la ricolonizzazione di vaste aree spopolate è sostenuta da un’evasione fiscale molto alta, e dove la resistenza alle pressioni dello Stato può assumere forme tali da far tremare i polsi anche ai funzionari sabaudi più determinati. Il 21 ottobre 1736, il console francese a Cagliari Paget chiede al suo ministro di premere sulla Repubblica di Genova, perché faccia arrestare i banditi e li consegni al viceré sardo, che non sopporta l’idea di trovarsi impotente davanti a questi miserables. Solo l’arresto dei banditi farebbe desistere i sardi dal proposito di arrestare il francese proprietario dell’imbarcazione presa a nolo dai contrabbandieri. Provvedimento ritenuto eccessivo dal console di Francia a Cagliari, il quale si dice convinto dell’innocenza del suo connazionale, «che mostra ingenuità e di non avere avuto intelligenza con i banditi» i quali «indegnamente […] hanno trattato sia il capitano che i marinai della nave […] con ingiurie tra le più atroci e minacce e maltrattamenti». Argomenti che non fanno presa sul viceré Rivarolo, ansioso di suturare la frontiera tra Sardegna e Corsica e punire duramente chiunque la oltrepassi senza autorizzazione. La necessità di assicurarsi il pieno controllo della frontiera sardo-corsa si fa più impellente nel 1742 quando, in seguito allo scoppio della Guerra di Successione austriaca, Sardegna e Genova si dichiarano guerra. Nel 1745 Carlo Emanuele III – col consenso inglese e austriaco – accetta l’invito dei corsi a farsi patrocinatore della loro causa. Nell’ottobre spedisce in Corsica Domenico Rivarola alla guida di un contingente sardo. Nel novembre, con l’appoggio della flotta inglese, i sardi prendono d’assalto Bastia e la espugnano. Nuovi scontri nei pressi di Bastia – nel frattempo tornata ai genovesi, grazie al sostegno francese – si ripetono nel 1748 quando 1500 soldati austro-sardi la cingono ancora d’assedio. L’avventura sarda in Corsica finisce con la pace di Aquisgrana che riconsegna formalmente l’isola a Genova. I sardi non torneranno più sul suolo corso, ma proseguiranno nella loro azione di costruzione della frontiera tra le due isole. Così, il 14 ottobre del 1767, approfittando della debolezza genovese, Carlo Emanuele ordina la presa di possesso delle «isole intermedie».