CronologiaMilleottocento

Correva l’anno 1820

La riforma doganale del 1820 attribuì la qualifica di «caricatori» di derrate a Porto Torres, Alghero, Bosa, Oristano, Carloforte, Sant’Antioco, Cagliari, Muravera, Tortolì, Orosei, Siniscola, Terranova, La Maddalena, Longonsardo e Castelsardo. Solo Cagliari e Portotorres tuttavia godevano della prerogativa di «Principalità», che attribuiva loro la possibilità di effettuare operazioni di sbarco e custodia delle merci straniere. Alghero, Bosa, Oristano, Sant’Antioco, Tortolì, Orosei e Terranova invece potevano sdoganare articoli d’importazione ma dovevano metterli subito sul mercato. Negli altri porti poi le operazioni di sbarco erano vietate o concesse limitatamente al fabbisogno della popolazione.

L’Uruguay è un paese fortemente attrattivo per gli europei soprattutto nel periodo intorno al 1820-1840, in quel tumultuoso momento storico che precede e poi si
sovrappone agli anni della “Grande Guerra”. Il secondo saggio, L’emigrazione da La Maddalena all’America Latina durante il Regno di Sardegna e nei primi anni dell’Italia unita. Spunti per una ricerca, in un notevole sviluppo e intreccio di trame demografiche, politico-istituzionali e socio-economiche, àncora l’interessante storia di antropizzazione e trasformazione delle strutture sociali dell’arcipelago gallurese, e di La Maddalena in particolare, alle vicende politico-militari garibaldine in terra uruguagia; una storia, quella dell’emigrazione maddalenina all’estero, e in specifico quella diretta in America Latina, assolutamente poco conosciuta e studiata.
Attraverso l’uso di varie fonti bibliografiche, e di quella molto ricca dell’Archivio General de la Nación di Buenos Aires, l’autore evidenzia il costante ruolo della vicina
Corsica nel generare una popolazione “dal sangue di due nazioni”, così come quello delle attività portuali e di navigazione anche e soprattutto in funzione politico militare demografia ed economia conoscono, infatti, alterne fortune in ragione del ruolo di La Maddalena e del suo porto nello scacchiere geo-politico del Mediterraneo in quanto Base ammiraglia del Regno di Sardegna; ciò fino al 1815, allorquando la Base viene trasferita a Genova. L’autore sottolinea in modo convincente le peculiarità delle competenze marinare nei processi di migrazione dalla piccola isola verso l’America Latina: anni in cui ad emigrare erano soprattutto marinai e ufficiali di Marina con elevati profili professionali: la vocazione marinara della popolazione dell’arcipelago gallurese favorì e strutturò i contatti e i legami con Genova; una città politicamente vivace e in pieno fermento mazziniano, dal cui porto partivano le navi dirette verso l’America del Sud e – sempre più spesso – molti esuli mazziniani dopo le sconfitte dei moti rivoluzionari degli anni ’30. Ecco quindi che, tra gli anni ’20 e ’40 dell’Ottocento, accanto ad un flusso migratorio importante composto da “gente di mare”, si affianca un flusso, anche se più ridotto, di matrice politica, che vede tra i suoi protagonisti anche alcuni maddalenini legati alla figura di Giuseppe Garibaldi: tra i tanti, Antonio Susini Millelire che, dopo aver lottato con l’eroe dei due mondi in Brasile e a Montevideo, diventa nel 1848 (fino al 1852) il comandante della Legione Italiana.

Giuseppe Tosto è sindaco di La Maddalena.

All’assegnazione di una vidazzone in territorio di Marrazzino si oppongono i proprietari dei terreni interessati, che ricorrono alla Reale udienza citando il comune di Santa Teresa: questo, però, è impossibilitato a difendersi perché privo del Consiglio comunitativo.

Il marchese Ettore Veuillet d’Yenne assume la carica di viceré di Sardegna, che ricoprirà fino al 1822.

Nel 1820 in una lettera intercorsa tra il viceré di Sardegna Thaone Revel e l’allora Comandante del Porto di La Maddalena Domenico Millelire venivano richieste precise notizie sulla carriera degli ufficiali in servizio nei porti: “ …..dovendosi dal Ministero di Marina addivenire alla formazione della matricola per gli ufficiali dello Stato Maggiore de’ porti col mezzo dei ruoli, e mancando in essi ad alcuni impiegati di quella amministrazione le date delle loro nomine, e dei loro precedenti servigi.” Spiegava il viceré, nella richiesta inoltrata il 6 maggio 1820, che nel formare le matricole della restaurata Marina Sarda, stanziata a La Maddalena durante l’esilio dei reali piemontesi, molte carte si erano perse e che: “….si rende perciò necessaria la rimessa al detto Ministero di uno stato in cui vi siano descritti i di Lei Servigi Militari, e con esso le copie dei diversi ordini, Brevetti, e patenti, che avesse a tempo riportati. – Si compiacerà Ella pertanto inviarmi a tale effetto, al più presto che sarà possibile, il suddetto Stato e le copie delle Regie Provvisioni. – E qua incaricandola di procurarmi pure lo Stato dei servigi colle copie delle diverse provvisioni del fungente le veci di Tenente di Porto e del Ricevitore dei diritti di ancoraggio, prego il Signore la conservi per molti anni.
Il 20 maggio successivo Domenico Millelire inviò a Cagliari lo “Stato” richiesto elencando le nomine ed i brevetti da lui riportati nonché quelli del “fungente le veci di tenente di porto Cav. Cesare Zonza” e del “deputato di sanità e ricevitore principale dei diritti di ancoraggio Giò Maria Ornano”. – Nel suo “Stato delli individui componenti lo Stato Maggiore dell’Isola Maddalena con indicazione dei servigi prestati come sotto per copie conformi all’originali delle diverse provvisioni di Brevetti e Patenti” Il Millelire forniva le seguenti notizie:

Capitano di Porto Cav. Domenico Millelire:

7 gennaio 1794, in allora nocchiere, Brevetto di Medaglia d’Oro;
20 giugno 1799, Brevetto di Primo Nocchiere col titolo e grado di Piloto;
10 febbraio 1804, Patente di Sottotenente fanteria;
28 giugno 1808, Patente di Sottotenente di bordo;
16 agosto 1810, Patente di Sottotenente di bordo effettivo;
18 novembre 1815, Patente di Capitano di Porto col grado di Lungotenente di Vascello;
4 maggio 1816, Patente di Cavaliere

Fungente le veci di Tenente di Porto Cav. Cesare Zonza:
25 aprile 1793, in allora timoniere, condecorato della Medaglia d’Argento;
6 dicembre 1809, in allora decorato della Medaglia d’Oro, col grado e titolo di Piloto;
6 settembre 1813, Patente di Cavaliere.

Il 27 maggio 1820, a stretto giro di corriere, Thaone Revel assicurava il Millelire di aver “…ricevuto il chiestole Stato dei servigi prestati da Lei, dal fungente le veci di Tenente, e dal ricevitore dei diritti d’ancoraggio, con copia delle rispettive Regie Provvisioni“.
Dall’esame dell’elenco dei brevetti stilato dal Millelire emerge subito una discordanza che fornisce la prova del disguido verificatosi all’atto del conferimento all’Eroe maddalenino della Medaglia d’Oro. Sappiamo infatti che dopo l’impresa del febbraio 1793, a Domenico Millelire e a Cesare Zonza furono conferite, rispettivamente, la medaglia d’oro e quella d’argento: ma mentre il decreto che assegna la medaglia a Cesare Zonza porta la data del 25 aprile 1793, appena due mesi dopo la gloriosa impresa, quello del Millelire fu stilato il 7 gennaio 1794, ciò ben oltre dieci mesi dopo. Apprendiamo inoltre che anche a Zonza, nel 1809, fu assegnata una medaglia d’oro, medaglia citata dal Prasca nella biografia dell’Ammiraglio Des Geneys, ma mai apparsa negli elenchi ufficiali degli insigniti della massima decorazione al valore. Di questa decorazione, lo stesso Prasca, peraltro, fa menzione quasi occasionalmente e non fornisce alcuna indicazione né alcuna traccia che consenta di farci risalire a come, quando e perché essa sia stata assegnata al valoroso maddalenino. Lo storico Salvatore Sanna, scavando da buon certosino negli archivi di Cagliari, ha rintracciato e pubblicato integralmente, nel recente volume “La ricerca dell’identità – 1792 – 1794”, edito a cura del Comune di La Maddalena, un Dispaccio di corte (doc. 384) indirizzato da Torino il 18 marzo 1795 al viceré Filippo Vivalda e firmato dal segretario di stato per gli affari di guerra e marina Di Cravanzana. Il documento, intestato “Ricompense da S.M. accordate agli infrascritti individui di Marina che si sono distinti all’attacco di due sciabecchi barbareschi occorso il 3 gennaio 1794” riporta un lungo elenco di premi in denaro e conferimenti di promozioni, nonché una medaglia d’oro assegnata a Zonza, II comìto comandante la Sultana, e due medaglie d’argento con trattenimento di £.50 e £.40, assegnate al II comìto della Santa Barbara “La Fedeltà” (nome di guerra di Tommaso Zonza) e al timoniere “La Speranza”. Al dispaccio, come ci informa il prezioso volume del Sanna, fece seguito l’invio delle decorazioni, spedite con lettera dal viceré Vivalda del 10 aprile 1795 (doc 386) diretta al comandante Vittorio Porcile a La Maddalena. “…..ho la soddisfazione – dice il viceré – di annunciarle le ricompense che S.M. si è degnata di accordare agli individui che si distinsero all’attacco dei due sciabecchi barbareschi occorso lì 3 gennaio dello scaduto anno 1794. Come ravviserà dall’acchiusa nota che le trasmetto affinché si compiaccia di significar le sovrane beneficenze a quei che sono partecipi, e trovansi costà sotto il di lei comando, mentre ho prevenuto il sottotenente Millelire per farne altrettanto cogli altri che da lui dipendono. Le trasmetto parimenti qua compiegate le due medaglie, una d’oro e l’altra d’argento, affinché si compiaccia di conferirle al solito ai soggetti per i quali nella summentovata nota sono state rispettivamente destinate: cioè al comìto Zonza quella d’oro, e al timoniere La Speranza quella d’argento, riservandomi qua di far conferire l’altra pure d’argento destinata per il comìto La Fedeltà. Che sento trovasi qua sulla regia galeotta S. Filippo”.
Alla luce di questi preziosi documenti, il Sanna, nel controbattere quanto scritto dal C.C. Miozzi nel “Bollettino d’Archivio” dell’Ufficio Storico della Marina Militare a proposito della biografia di Tomaso Zonza, spesso confuso con Cesare, conclude dicendo che se l’autore avesse consultato questi documenti “…..avrebbe… compilato un elenco esatto e documentato, la Marina avrebbe avuto una medaglia d’oro in più da onorare e la comunità maddalenina un altro proprio valoroso da annoverare fra i suoi figli migliori”.
Sanna, poi, rilevato che il Regolamento che istituiva le decorazioni al valor militare fu varato in data successiva ai fatti del 1793, sostiene, non a torto che “….la medaglia d’oro a Cesare Zonza e quella d’argento al 2° comìto “La Fedeltà” (alias Tommaso Zonza), a rigore dovrebbero essere considerate le prime vere medaglie d’oro al valor militare della Marina, se si vuol far riferimento al Regolamento varato il 21 dicembre 1793″. Difatti sostiene sempre il Sanna, che, mentre decorazioni del 1787 (una delle quali era stata conferita ad Agostino Millelire), quelle date per gli stessi fatti del 1793 agli eroi del “capo di sotto” per l’attacco dei francesi contro Cagliari e, infine, quella d’argento al soldato Asmard (doc. 180), non sono mai state tenute in alcuna considerazione, o considerate semplici medaglie commemorative, “….quella assegnata a Domenico Millelire” stata ritenuta “….la prima medaglia d’oro della Marina, senza rilevare la contraddizione secondo cui per lo stesso motivo neppure quella poteva dirsi in linea con il fatidico Regolamento…. varato successivamente e senza che prevedesse, esplicitamente od implicitamente, alcun valore di retroattività”. Ed il Sanna conclude dicendo che “….la felice combinazione che ha dato forza e fortuna a Domenico Millelire…. e legata al fatto che le circostanze in cui questi si fece onore risultò -successivamente – che avevano coinvolto il giovane Napoleone ” e che “…..la politica estera antifrancese di fine ‘800, ed infine quella fascista, anch’essa di segno antifrancese, hanno esaltato l’episodio ed il personaggio facendolo incolpevole strumento di un’inaccettabile operazione propagandistica”. Pur non potendoci esimere dal dar ragione al Sanna che rivendica le altre medaglie “….scippate alla memoria ed al lustro della comunità isolana”, dobbiamo tuttavia rilevare, alla stregua del documento del 1820 esposto all’inizio, che, in conseguenza del noto “pasticciaccio” fra i due fratelli Millelire, il decreto che assegnava la medaglia a Domenico, rifatto totalmente, “a sanatoria”, porta la data del 7 gennaio 1794, successiva al fatidico Regolamento ed è forse per questo che la decorazione, a differenza delle altre, concesse con provvedimento di data anteriore, fu ufficialmente riconosciuta. Ed a dar maggior forza al nostro assunto è la lettera del 5 febbraio 1794 (doc. 337), con la quale il segretario di stato per gli affari di guerra e di marina Di Cravanzana (poco meno di un mese dopo la data esposta dal Millelire nell’elenco dei suoi brevetti), a conclusione della “vertenza”, comunicava al Viceré “….trasmetto qua compiegate per l’opportuno uso le commissioni per il grado di piloto di fregata a favore del piloto delle mezze galere Giò Agostino Millelire, egualmente che la copia del regio biglietto per il trattenimento di £.200 al di lui fratello nocchiere, onde resta corretto il noto sbaglio occorso per la duplicità de’ soprannomi”. Anche se non si fa specifico riferimento alla medaglia, poiché il “sovrassoldo”, in forza del Regolamento è ad essa connesso e conseguente, v’è proprio da supporre che l’intero provvedimento sia stato rifatto. Siamo quindi del parere che, a prescindere dalla strumentalizzazione che nei vari momenti poetici è stata operata attorno al nostro personaggio, “….la felice combinazione che ha dato forza e fortuna a Domenico Millelire”, sia molto più realisticamente una combinazione di natura meramente “burocratica”. Resta ora da affrontare il mistero della medaglia d’oro assegnata a Cesare Zonza, che come abbiamo premesso, “sembrerebbe” a questo punto risolto è che invece è destinato a infittirsi. Dal documento riportato in premessa, difatti, apprendiamo che a Cesare Zonza, facente le veci di Tenente di Porto nel 1820, la medaglia d’oro (non sappiamo per quali fatti, ma quasi certamente per un episodio contro i barbareschi) fu conferita il 6 dicembre 1809 e non v’è dubbio che si tratti dello stesso Cesare protagonista dei fatti del 1793 in quanto nell’elenco compare la medaglia d’argento conseguita in quell’occasione, ma no v’è traccia di una precedente medaglia d’oro. Sarebbero dunque due gli Zonza insigniti della decorazione e due le medaglie d’oro che la Marina potrebbe onorare e la comunità maddalenina annoverare fra i suoi eroici figli. D’altro canto, in entrambi i documenti visitati dal Sanna, il destinatario della medaglia compare col solo cognome di Zonza senza che vi sia alcuna certezza sul nome che, comunque, ben potrebbe anch’esso essere quello di Cesare che, in altri documenti vediamo essere al comando della Galeotta La Sultana nel maggio del 1794 e che pochi giorni dopo la battaglia del 3 gennaio, mentre era ancora in quarantena, vediamo di nuovo all’opera nella vigilanza contro i barbareschi nei pressi di Porto Vecchio, dove rimase vittima di una rapina. Tuttavia in molti atti da noi esaminati in un arco di tempo che va dal 1820 al 1850, ricorre spesso il nome di un Cesare Zonza, padrone mercantile, senz’altro omonimo del titolare della medaglia, che viene menzionato (ed egli stesso si sottoscrive), senza alcun titolo, mentre al “Nostro Cesare”, come abbiamo visto, oltre alla medaglia d’oro ed a quella d’argento, era stata conferita nel 1816 la Patente di Cavaliere, titolo tenuto in altissima considerazione, che “patron Zonza”, se fosse stato lo stesso Cesare dei fatti del 1793, non avrebbe mancato di ostentare. A confermare poi la presenza a La Maddalena di due Cesare Zonza è la lettera del 19 dicembre 1793 con la quale il Comandante Riccio, nell’inviare al viceré l’elenco dei maddalenini che avevano subito danni in occasione della tentata invasione gallo-corsa, enumera appunto due Cesare Zonza: il primo lamenta la perdita di un maiale e diciassette pecore e il secondo un danno alla casa. Rileviamo infine che, mentre il Cesare dei fatti del 1793 è indicato nei primi documenti con il grado di “timoniere” il Cesare dei fatti del 1794 ha il grado di comìto, cioè di nocchiere.

19 febbraio

Nasce nell’isola di La Maddalena, Giuseppe Varriani, arruolatosi nella Regia Marina in qualità di timoniere partecipò alle Campagne di guerra per l’indipendenza del 1861 e del 1866 ottenendo una Medaglia al valor militare,  divenne quindi Commissario generale della Regia Marina nonché Ufficiale e Cavaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e della Corona d’Italia. Morì nell’isola il 1 agosto 1882 all’età di 62 anni.

7 aprile

Allarme sanitario per le condizioni del Cimitero (Vecchio). Una corrispondenza del comandante delle Isole Andreis al Viceré di Cagliari, del 7 aprile 1820, testimonia poi le difficili condizioni igienico sanitarie del Cimitero. Scrisse infatti Andreis che “il camposanto è senza terra” e che “le malattie da tre estati a questa parte sono causate dalle esalazioni di corpi trovati ancora scoperti. Essendo la nostra caserma vicina (Andreis probabilmente si riferisce al casermaggio, la caserma ancora individuabile nella parte alta di via Balbo), l’estate scorsa quasi tutto il contingente si è ammalato”. Andreis chiedeva quindi che sia il Consiglio Comunitativo che attraverso il Parroco venisse chiesto agli abitanti “che intervenissero ogni festa per 2 ore al trasporto della terra necessaria ……”.

16 maggio

Contrabbando postale

27 settembre

Muore all’età di 64 anni, Giovanni Brandi, lasciando la moglie in attesa del terzo figlio. Avvocato di Bonifacio, appartenente ad una ricca famiglia borghese. Brandi fu uno dei personaggi più significativi nella storia della Maddalena durante il periodo delle guerre napoleoniche. L’avvocato Brandi di Bonifacio, viceconsole inglese, imparentato con la famiglia Millelire e con gli Azara Buccheri, donò alla chiesa parrocchiale un quadro del maestro Antonio Cano Truca di Sassari, frate francescano e valente artista, scultore e architetto. La tela, raffigurante San Filippo Neri davanti a Maria e a Gesù Bambino con angeli e San Giovannino, è da sempre collocata in una cappella di sinistra.

"Isolani de La Maddalena", dipinto risalente al 1820 che in alcune pubblicazioni ho letto attribuito ad Agostino Verani. In realtà si tratta del figlio Giuseppe per lungo tempo a servizio dei Savoia in Sardegna dove realizzò una serie di acquerelli degli antichi costumi sardi che oggi, tra gli altri, ci permettono di vedere come vestivano gli isolani6 ottobre

Con l’Editto delle Chiudende, Vittorio Emanuele I, mettendo in atto un proponimento del suo predecessore Carlo Emanuele III, diede avvio, soprattutto dietro la spinta dei precorsi suggerimenti boginiani, ad una vasta riforma tesa a promuovere il rifiorimento dell’agricoltura in Sardegna. Con questo atto si autorizzava la recinzione dei terreni che per antica tradizione erano fino ad allora considerati di proprietà collettiva, introducendo di fatto la proprietà privata. L’editto mirava a favorire la modernizzazione e lo sviluppo dell’agricoltura locale, che versava in gravi condizioni di arretratezza, e nel suo passaggio più cruciale conteneva l’autorizzazione a qualunque proprietario a liberamente chiudere di siepe, o di muro, vallar di fossa, qualunque suo terreno non soggetto a servitù di pascolo, di passaggio, di fontana o d’abbeveratoio. Egual licenza era concessa ai comuni, per i terreni di loro proprietà, ed in tutti i terreni chiusi in applicazione dell’editto era “libera qualunque coltivazione, compresa quella del tabacco“. In Sardegna la riforma agraria del governo sabaudo, sollecitata da diversi studi economici svolti in precedenza, non tenne conto della diversità dei vari territori e soprattutto del fatto che nell’isola vigeva ancora il sistema feudale, che si innestava nel sistema tradizionale degli ademprivi, rendendo la situazione giuridica dei terreni altamente complessa. L’uso degli ademprivi, inoltre, prevedeva la rotazione degli impieghi della terra, che un anno era destinata a pascolo e l’anno successivo a seminagione secondo determinazioni comunitarie locali. Delle chiudende si parlava già da tempo, poiché la recinzione dei propri terreni da parte dei proprietari privati era, sia pur moderatamente, sempre esistita. Nel 1806 cominciava a rilevare la frequenza di abbattimenti di recinzioni da parte dei pastori per entrare abusivamente con il bestiame in terre private, tanto che si emanarono apposite norme per la repressione del fenomeno. La spinta all’agricoltura si corredava di varie norme d’agevolazione, comprese una che concedeva, come racconta Pietro Martini, “nobiltà gratuita a coloro che piantassero quattromila ulivi”, una che concedeva titolo a richiedere fidecommessi a chi disponesse di 400 piante d’ulivo, e soprattutto una che dava a tutti la facoltà di “chiudere i terreni aperti per formarvi degli uliveti”, che prevedeva sanzioni per chi non impiantasse ulivi nelle terre chiuse (esproprio e riassegnazione ad aspiranti ulivicoltori) e che introduceva la pena di morte per i capi di eventuali complotti di diroccatori di chiudende. Ma se da un lato l’operato del governo puntava a risanare l’agricoltura ristrutturando la rete dei “monti granatici e d’abbondanza” (l’ammasso cui conferire le produzioni agricole frumentarie), dall’altro era costretta a creare nel 1807 i “monti di riscatto”, monti di pegno resisi indispensabili dopo che l’usura aveva raggiunto livelli preoccupanti per l’ordine sociale. La pastorizia, nelle sue millenarie tradizioni, era debole e disturbante nell’ottica economica piemontese: se già il Gemelli aveva sottolineato come l’istituto dell’alternanza nell’uso delle terre recasse gravi danni da mancato guadagno e da freno contro gli investimenti, altri studiosi consideravano una “piaga” il modo di allevamento semi-brado caratteristico dell’isola. L’editto infranse il tradizionale principio “ubi feuda, ibi demania” (dove ci sono beni feudali, là ci sono i demani) che faceva parte del diritto intermedio già da diverso tempo. Fu accolto subito con criticità da alcuni conoscitori dell’Isola, in particolare dall’Angius, che nel 1822 scriveva che “i pastori cominciarono a maledire irreligiosamente l’editto delle chiudende e a cercare di reprimere l’ambizione di alcuni chiudenti […]. Queste doglianze furono dall’Ufficio economico della provincia trovate giuste; non pertanto la invocata legge restò inerte”. Gli effetti dell’editto furono di diverse nature. Il marchese Ettore Veuillet d’Yenne, nel 1820 era Luogotenente Generale, sarebbe divenuto viceré quando nel 1821 Carlo Felice, suo immediato predecessore, divenne re. Il marchese, la cui reputazione militare era di massimo prestigio, ebbe la luogotenenza e raggiunse l’isola proprio pochissimo tempo dopo l’emanazione dell’editto, nel novembre dello stesso anno. Fu viceré fino al 1822 (e gli successero nella carica il conte conte Galleani d’Agliano e, nel 1823, il conte Roero di Monticelli); scrisse due relazioni, la prima il 22 settembre 1832, la seconda il successivo 6 ottobre, che ne contengono una cronaca sufficientemente istruttiva: “È veramente eccessivo l’abuso che fecesi delle chiudende da alcuni proprietari. Siffatto abuso è quasi generale. Si chiusero a muro ed a siepe dei boschi ghiandiferi, si chiusero al piano e ai monti i pascoli migliori per «obbligare i pastori a pagarne un altissimo fitto» e si incorporarono perfino le pubbliche fonti e gli abbeveratoi per meglio dettare ai medesimi la legge”. Rincarando la dose, aggiunse che l’editto «giovò soltanto nella sua esecuzione ai ricchi e potenti». Vedi anche: La legge delle chiudende

30 ottobre

Il sovrano dispone che fino al giugno 1821 i grani importati dalla Sardegna negli stati di terraferma siano completamente liberati dai dazi doganali.