CronologiaMillesettecento

Correva l’anno 1771

Parere dell’intendente generale per lo stabilimento di una colonia di greci in Longonsardo.

19 febbraio

Il Collegio dei Nobili di Cagliari riceve un nuovo regolamento.

11 marzo

Il comandante di La Maddalena, Gromis, accusa alcuni isolani di aver traghettato dei banditi corsi fino a Budelli, dove essi avrebbero obbligato dei pescatori napoletani a trasportarli sulla costa di Bonifacio.

21 giugno

A Sassari, veniva stipulato il contratto per la costruzione della “Torre” di Santo Stefano, su disegni e calcoli dell’architetto militare cav. Saverio Belgrano di Famolasco, esaminati a Torino dal capitano Theseo, che coordinava il piano delle torri costiere. In base a successivi sopralluoghi si stabili quindi la localizzazione della costruzione sulla punta a sinistra per chi entra nella cala di Villa Marina, ignorando il parere dato al viceré dal conte Bogino (18 maggio 1768) che suggeriva di ubicarla nella punta a dritta della cala ”come più avanzata nel mare e quindi a portata di meglio divisare i bastimenti che vengono da ogni parte, come altresì di scoprire la punta Rossa e quella di Sardegna, e corrispondersi colla medesima nell’occasione coi soliti segnali“. A giugno del 1773 la Torre era ultimata e il conte Robbiano ne precisava le funzioni affermando che suo soggetto e di difendere le isole intermedie recentemente occupate, piuttosto che per ovviare alle invasioni dei barbari. Queste dichiarazioni furono ben presto smentite dai fatti e quando, il 22 febbraio 1793, il corpo di spedizione francese comandato da Colonna Cesari sbarco a Santo Stefano, non ebbe difficoltà ad occupare la Torre che, troppo isolata rispetto alle altre fortificazioni di La Maddalena, non poté ricevere da quelle alcun aiuto; dopo aver subito un assedio di poche ore, infatti, essa capitolo consentendo a Napoleone Bonaparte di piazzare indisturbato le sue artiglierie contro La Maddalena.

luglio

Due galere genovesi arrivano nell’arcipelago, ma rifiutano di salutare la bandiera sarda, nonostante le proteste delle autorità isolane. La scusa: “per non scoprirsi col rombo del cannone ai barbareschi ronzanti nelle vicinanze“.

10 luglio

Vengono pubblicate le Istruzioni generali a tutti li censori del regno, che, pensate ed elaborate dal dottor Giuseppe Cossu come una sorta di testo unico della legislazione agraria, prefigurano un sistema di governo delle campagne tutto imperniato sulla figura del censore. Il provvedimento suscita una dura reazione del Bogino, che il 18 settembre ne ordina la sospensione.

18 luglio

Viceré di Sardegna è Antonio Francesco Gaetano conte Gallean de’ Caissotti di Robbione.

17 agosto

Una scossa di terremoto avvertita nelle prime ore della notte diffonde il panico nella città di Cagliari.

24 settembre

Un editto istituisce i consigli comunitativi nei villaggi, riforma i consigli civici delle città e abroga le Istruzioni generali del 10 luglio in tutte le parti incompatibili con esso. I feudatari, ritenendo che l’editto violi i loro privilegi di giurisdizione, non esiteranno a rivolgersi alla Corona spagnola. La terza maggiore riforma del Bogino, attuata con editto, riguarda il governo locale. Essa è preceduta da una visita ricognitiva, effettuata dal viceré Hallot des Hayes nella primavera del 1770, che ha messo in evidenza la disomogeneità in tutta l’isola delle forme di amministrazione comunale, specialmente in merito all’elezione dei consigli. Nascono i Consigli comunitativi; fino ad allora i Comuni erano governati dai feudatari; con l’Editto i feudatari erano estromessi dal governo dei Comuni, che erano affidati ai rappresentanti di tre classi in cui era suddivisa la popolazione dei paesi in base al censo, ma in pratica erano capeggiati dai nuovi ceti dei prinzipales (ricchi pastori e agricoltori) e della piccola nobiltà, che possiamo vagamente assimilare ad una nascente borghesia delle campagne, ceti che erano in contrapposizione con i feudatari assenteisti e con la rapace burocrazia feudale, capeggiata dai podatari, che erano gli amministratori dei feudi. Per quanto concerne i villaggi l’editto assegna il «maneggio» dei loro affari ad un consiglio comunitativo espresso per elezione dall’assemblea dei capifamiglia. Una volta nominato, il consiglio, composto da tre a sette membri secondo la popolazione di ciascun villaggio, si auto perpetua, provvedendo mediante cooptazione alla sostituzione annuale di un terzo dei suoi componenti. Salvo casi eccezionali e autorizzati dal viceré, non è più ammessa la riunione dell’assemblea generale della comunità. Alle riunioni del consiglio partecipa anche l’ufficiale di giustizia del feudatario, ma senza la facoltà di prender parte alla discussione e alla decisione sulle questioni trattate. Il consiglio è infatti posto sotto la protezione diretta del sovrano e quindi sottratto – almeno in linea teorica – ad ogni invadenza e prevaricazione del barone. Anche in questo caso il meccanismo della selezione fa però sì che il governo della comunità resti sotto il controllo di una ristretta élite di principales. Nondimeno, il segno anti feudale dell’istituzione dei consigli comunitativi è così immediatamente evidente che i baroni, vedendo minacciate le loro prerogative giurisdizionali, esprimono subito una vigorosa protesta. Ma è anche un provvedimento – questo i feudatari non hanno interesse a riconoscerlo – che conferisce dignità piena di soggetti politici a uomini sino ad allora vissuti stretti dai lacci mai del tutto sciolti della servitù medievale. All’editto del 1771 si deve infatti l’immediato acutizzarsi del contenzioso legale tra comunità e baroni, destinato a crescere sino all’incendio rivoluzionario di fine secolo.

26 settembre

Il re chiede ai vescovi sardi di impedire l’ammissione ai monasteri di fanciulle con meno di sette anni.

Correva l'anno 1771
Cimitero Marino di Bonifacio

27 settembre

Nel 1768, all’indomani degli accordi di Compiègne, quando cominciarono a circolare le prime voci relative all’imminente “affidamento” della Corsica alla Francia, il Senato genovese si vide recapitare una lettera del Consiglio Comunitativo di Bonifacio con la quale, preoccupati per la notizia “che debbano quanto prima disbarcare in questa isola 22 battaglioni di truppe francese […] e prendere il totale governo del regno”, gli amministratori bonifacini imploravano dal governo della Repubblica la “esclusione di una sì generica determinazione della quale questa fedelissima colonia è ben meritevole, […] sì come non ha avuto né ha niente in comune con i Corsi”, così non deve essere compresa in una si fatta generale determinazione». Gli abitanti di Bonifacio si chiamavano fuori, quindi, dagli accordi di cessione, sostenendo che la loro comunità (anzi, «colonia», ché tale la definivano ancora a seicento anni dalla fondazione!) non facesse parte della Corsica, ma dovesse invece considerarsi una sorta di appendice ligure sull’isola, come tale del tutto estranea ai problemi e alle vicende del restante territorio. Gli episodi successivi di resistenza passiva alla presa di possesso da parte dei Francesi non sono meno indicativi dello stato d’animo dei Bonifacini. Portato all’esasperazione dall’atteggiamento delle autorità locali, il 28 settembre 1771 il marchese di Monteynard, ministro responsabile per gli affari di Corsica, era quindi costretto a rivolgersi agli Anziani di Bonifacio per ribadire come «il faut que les habitants de Bonifacio se regardent comme sujets du Roy, de la même manière que tous les habitants de la Corse, ou qu’ils prennent le parti de quitter l’isle». L’ultimatum di Versailles, in linea con quello che si avviava a diventare l’atteggiamento della metropoli nella gestione della politica interna del nuovo possedimento, riassume nella sua sconcertante durezza le difficoltà di comprensione, da parte dell’amministrazione francese, di un particolarismo che perdura in gran parte fino ad oggi, e che definisce Bonifacio come una realtà storico-culturale e linguistica a sé stante nel panorama corso, al quale partecipa tuttavia a pieno titolo come elemento costitutivo dell’originalità insulare. La specificità bonifacina poggia essenzialmente su motivazioni di carattere storico e linguistico, che a loro volta trovano però spiegazione anche nelle peculiari condizioni geografiche del territorio. La municipalità di Bonifacio occupa infatti l’estremità meridionale della Corsica, a sud della linea che unisce il ponte di Vintilegne, sulla costa occidentale, al golfo di Santa Manza sul versante tirrenico. Il territorio di 13.800 ettari per 65 chilometri di costa comprende anche l’arcipelago di Lavezzi nello stretto che divide la Corsica dalla Sardegna, noto per l’appunto col nome di Bocche di Bonifacio. (In origine apparteneva a Bonifacio anche l’arcipelago della Maddalena, che fu oggetto di un contenzioso tra le autorità genovesi e quelle sardo-piemontesi conclusosi con l’occupazione di fatto delle isole da parte delle autorità sabaude. Teatro di scontri durante il periodo rivoluzionario, che videro attivo anche il giovane Napoleone Bonaparte, le «Isole Intermedie» (note anche con l’altro nome storico di tradizione genovese di «Isole dei Caruggi», legato agli esigui passaggi navigabili) restarono così all’Italia.

28 settembre

All’indomani degli accordi di Compiègne, quando cominciarono a circolare le prime voci relative all’imminente cessione della Corsica alla Francia, il Senato genovese si vide recapitare una lettera del Magnifico Consiglio Comunitativo di Bonifacio con la quale, preoccupati per la notizia «che debbano quanto prima di sbarcare in questa isola 22 battaglioni di truppe francese per distribuirsi in tutte le rispettive piazze della medesima e prendere il totale governo del regno tutto con l’esclusione del governo della Serenissima Repubblica di Genova», gli amministratori bonifacini imploravano dal governo genovese «quella esclusione di una sì generica determinazione della quale questa fedelissima colonia è ben meritevole, che sì come non ha avuto né ha niente in comune con i Corsi, così non deve essere compresa in una si fatta generale determinazione».
Gli abitanti di Bonifacio si chiamavano fuori, quindi, dagli accordi di cessione, sostenendo che la loro comunità (anzi, «colonia», ché tale la definivano ancora a seicento anni dalla fondazione!) non facesse parte della Corsica, ma dovesse invece considerarsi una sorta di appendice ligure sull’isola, come tale del tutto estranea ai problemi e alle vicende del restante territorio.
Gli episodi successivi di resistenza passiva alla presa di possesso da parte dei Francesi non sono meno indicativi dello stato d’animo dei Bonifacini. Portato all’esasperazione dall’atteggiamento delle autorità locali, il 28 settembre 1771 il marchese di Monteynard, ministro responsabile per gli affari di Corsica, era quindi costretto a rivolgersi agli Anziani di Bonifacio per ribadire come «il faut que les habitants de Bonifacio se regardent comme sujets du Roy, de la même manière que tous les habitants de la Corse, ou qu’ils prennent le parti de quitter l’isle».

L’ultimatum di Versailles, in linea con quello che si avviava a diventare l’atteggiamento della metropoli nella gestione della politica interna del nuovo possedimento, riassume nella sua sconcertante durezza le difficoltà di comprensione, da parte dell’amministrazione francese, di un particolarismo che perdura in gran parte fino ad oggi, e che definisce Bonifacio come una realtà storico-culturale e linguistica a sé stante nel panorama corso, al quale partecipa tuttavia a pieno titolo come elemento costitutivo dell’originalità insulare.

5 ottobre

Il viceré, conte Tana, ordina un’indagine sulle terre coltivabili della Nurra, feudo della città di Sassari.

19 dicembre

Carlo Emanuele III decreta l’abolizione della feudalità in Savoia.