Caprera AnticaGiuseppe GaribaldiRubriche

Due giugno 1882

A Caprera Garibaldi muore il 2 giugno 1882, venerdì alle 6.22 del pomeriggio. Era tornato malato dal suo ultimo viaggio nel Sud e a Palermo, a metà aprile. Viaggio faticosissimo: a Palermo era stato portato in lettiga dal vapore all’albergo e si era dovuto chiedere alla folla di non applaudire perché l’emozione avrebbe potuto fargli male. Il 1º giugno si era aggravato improvvisamente. Contro il parere del medico, aveva voluto prendere un bagno, tiepido, e fare i suffumigi: sul momento ne aveva avuto qualche sollievo, ma poi la vita gli era gradatamente mancata. Alle quattro del pomeriggio era entrato in agonia.

Giaceva leggermente sollevato su due cuscini, guardando verso la finestra da cui si vedeva il mare e qualche linea delle isole di Corsica sullo Stretto. Intorno a lui c’erano Francesca Armosino, la moglie, e Menotti, il figlio primogenito (che ha 42 anni in questo giugno). Si era telegrafato a Ricciotti e Teresita, gli altri due figli,ma non arrivarono in tempo.«Due capinere entrarono dalla finestra aperta – ha scritto Ridley – ed egli mormorò agli amici di non mandarle via, perché erano forse le anime delle sue bambine, le due Rose, che venivano a prenderlo. Alle 18.20 chiese che gli fosse portato il bambino, Manlio, che aveva allora 9 anni: ma morì prima che arrivasse». Il suo medico personale, Enrico Albanese, arrivò con la Cariddi soltanto la mattina dopo: stilò il certificato di morte insieme col dottor Cappelletto, medico della Marina. Il decesso – vi si diceva – era avvenuto per paralisi della faringe. All’inizio, il Generale viene esposto sul letto, appoggiato su due cuscini, in una posizione in cui pare più seduto che adagiato. Indossa un poncho bianco e ha in testa una papalina di velluto.

Fanno servizio d’onore un picchetto e gli ufficiali della Cariddi. Si apre il testamento, in cui Garibaldi conferma la sua volontà di essere cremato. Ma la famiglia, dopo un rapido consulto, decide l’imbalsamazione: il dottor Albanese manda a prendere a Sassari le medicine necessarie. Comincia ad arrivare gente: i primi sono i maddalenini il cui sindaco, Bargone, ha fatto affiggere un manifesto in cui li invita ad accorrere «alla dimora dell’Eroe».

La sera del 4 arriva la nave da Porto Torres che porta da Sassari la delegazione di quella città, di cui Garibaldi è cittadino onorario. Porta una corona di bronzo cesellato e un drappo di velluto nero, foderato di bianco, con la scritta Sassari e Garibaldi: è stato ricamato dalle signore sassaresi, nella notte fra il due e il tre. Con la delegazione c’è anche il prefetto di Sassari, venuto a prendere possesso dell’isola come responsabile di tutte le operazioni funebri. Ritardano invece i balsami e le sostanze chimiche per l’imbalsamazione: Albanese è molto preoccupato, e qualcuno consiglia di chiamare da Napoli il professor Efisio Marini, lo scienziato cagliaritano diventato famoso per i suoi processi di pietrificazione dei corpi. Caprera comincia a riempirsi di gente già dal pomeriggio del 6. Ma il cielo minaccia al brutto, rinforza un vento di libeccio-grecale che da queste parti porta quasi sempre la pioggia. L’agenzia giornalistica «Stefani» annuncia che l’operazione di imbalsamazione è riuscita perfettamente.

Verso mezzogiorno, non si sa come, s’è sparsa la voce che il governo vuol traslare la salma a Roma. Si è raccolta subito una grande folla che grida: «Garibaldi ’un s’ha da tuccà, Garibaldi è ’u nosciu!», Garibaldi non si tocca, Garibaldi è nostro. Il campanaro, alle due, scatena le campane a stormo. Corrono i Carabinieri che lo arrestano, il prefetto parla alla folla, garantendo. Il 7 mattina, con la nave Washington,arrivano le rappresentanze delle Camere, l’onorevole Crispi, il principe Tommaso di Savoia, duca di Genova. La camera ardente è aperta alle 10.20 dell’8. Comincia una sfilata di migliaia di persone. Il Generale giace sul letto, ben conservato, col volto composto e l’espressione serena. Indossa la camicia rossa, il poncho bianco, la papalina di velluto nero ricamato.

Ora il corpo è completamente supino, e rivolge il fianco destro verso la finestra, perché il letto è stato leggermente spostato. Qualcuno della famiglia ha dato anche ordine di non caricare l’orologio, le cui lancette sono state fermate all’ora della morte. Anche il calendario a muro non è stato aggiornato. Nella camera non c’è altra luce che quella di una piccolissima lampada di porcellana. Tra il letto e la finestra la bara di noce, lavoro dei falegnami sassaresi fratelli Clemente. Il mare è sempre più infuriato. La gente sbarca perigliosamente da barche e scialuppe (Caprera era allora davvero un’isola, perchè non c’era il ponte che ora la unisce a La Maddalena).

Il funerale comincia alle 16. Il feretro è portato a spalla da dodici garibaldini, su una lunga barella costruita appositamente. Suonano tre bande musicali, quella del 38 Fanteria, quella della città di Sassari e quella di La Maddalena. Precede la bandiera dei Mille. Parlano il vicepresidente del Senato, Alfieri di Sostegno, e il vicepresidente della Camera, Domenico Farini, il generale Ferrero a nome dell’esercito, infine Crispi: «Gli Spartani ebbero Leonida – dice – , gli italiani Giuseppe Garibaldi, rappresentante del dovere e della vittoria». Quando finisce il funerale, Caprera offre uno spettacolo di desolazione. C’entra molto il vento, che la rade impietoso. Ma c’entra molto anche la folla, che ha fatto man bassa di souvenir: sassi, rami di cipresso, di lentisco, di mirto. Il ritorno a casa sarà avventuroso per tutti. I soli sassaresi sono cinquecento, e dovranno passare la notte sotto la pioggia battente riparati nelle tettoie degli animali; alle signore sarà destinata una capanna sulla spiaggia che Garibaldi usava per i bagni di mare. La gente ha anche fame: il comandante della Cariddi a sera farà scendere in mare una scialuppa con otto ceste di gallette, durissime. Soltanto il 9 mattina alle undici due scialuppe della Washington e un vaporetto li sbarcheranno intirizziti al molo di La Maddalena.

Ora Garibaldi è finalmente solo nella sua Caprera. Di qui è partito nel 1859 per la seconda guerra dell’indipendenza nazionale; di qui per l’impresa dei Mille; di qui, nel 1866, per la guerra del Veneto; di qui, nel settembre del 1870, per l’ultima grande avventura, la campagna delle Argonne in difesa della Francia repubblicana. Di qui è fuggito due volte di nascosto per le sue imprese di ribelle per la Patria, nel 1862 prima dell’Aspromonte e nel 1867 prima di Mentana. Quando c’è tornato nel 1860 aveva con sé – dice il suo biografo Sacerdote – «pochi sacchetti di zucchero, un sacco di legumi, un sacco di sementi, una cassa di maccheroni, una balla di merluzzo secco, e poche centinaia di lire». Veniva, a bordo del vapore Washington, da Napoli, dove aveva appena finito di regalare a Vittorio Emanuele II la metà esatta d’Italia.