Correva l’anno 1888
“I primi abitatori dell’isola della Maddalena dei quali si serbi memoria furono, secondo ne fanno fede le asserzioni degli attuali abitanti di essa, banditi Còrsi i quali, traversate le Bocche dì Bonifacio nei primi tempi moderni, allo scopo di sottrarsi dalle persecuzioni alle quali erano fatti segno nella loro isola madre, si rifugiarono verso il centro dell’Isola Maddalena, in una delle più alte regioni di essa chiamata la Trinità”. Così scriveva nel 1888 Florindo Florio-Sartori nel libro ‘L’Isola di Caprera e l’Eroe dei Due Mondi’ (Società in Accomandita A. Bellisario e C., Napoli). “Là, su di un piccolo altipiano chiuso a mo’ di conca tutto all’ intorno dalle creste granitiche delle alture, essi costrussero le loro casuccie, di cui ora non rimangono se non pochissime rovine, ed un piccolo forte d’ onde poteano scoprire da lungi il terreno ad est ed a nord del loro rifugio e dominarne le aspre e ripide vicinanze”. Il ‘piccolo forte’ citato dovevano essere i ruderi della presenza pisana, collocati a Guardia Vecchia (della quale abbiamo parlato nei numeri scorsi de Il Vento negli articoli dal titolo ‘Quando a Spalmatore c’erano i pirati. Quello che è interessante mettere in evidenza che già nel 1888, quelle prime case oltre che abbandonate, erano anche già dei ruderi. E questo a 120 anni circa dall’arrivo delle truppe d’occupazione (1767) che lì li trovarono, con a capo un certo Pietro Millelire (si trattava di 21 famiglie e quindi dovevano esserci almeno una ventina di case). Florindo Florio-Sartori non cita la presenza della chiesetta, costruita attorno al 1770, che comunque c’era, ma questo è un altro discorso. Nello stesso libro parla delle case dell’isola di Caprera dove, oltre a quella di Garibaldi annota la “Cascina Zicavo, a sud–est di quella di Garibaldi, su una piccola altura a nord dello Stagnale, a pochi passi da questo porto”. A sud di Cascina Zicavo “evvi la casa del pastore di Garibaldi, Simone Giovanni Maria”. Annota poi due altre cascine in prossimità di Casa Garibaldi “abitate da coloni già del defunto Generale” e “più su verso levante, su un’ampia terrazza, sono sparse altre quattro casucce, tutte disabitate ed alcune rovinate: un tempo erano le dimore dei pastori dell’isola”. ”Questo rimaneva, nel 1888, delle prime abitazioni corse che accoglievano, ai tempi dell’occupazione sardo-piemontese (1767), 15 famiglie. Anche in questo caso, poco dopo un secolo, di quegli insediamenti erano rimasti solo i ruderi.
Augustin Piras è sindaco di Bonifacio. La fillossera distrugge le vigne.
Domenico Lantieri è sindaco di La Maddalena. Ricoprirà l’incarico fino all’anno successivo.
Sono costruiti i forti di Monte Altura, Capo d’Orso e Baragge.
È in fase molto avanzata la costruzione degli impianti militari: a La Maddalena quelli di Nido d’Aquila, Punta Tegge, Padule, Peticchia, Guardia Vecchia, Punta Villa, Trinita; a Caprera: Arbuticci, Stagnali, Poggio Rasu, Punta Rossa. La costruzione delle grandi fortificazioni spinge i falegnami a consorziarsi e proporsi per qualunque lavoro. È la prima associazione di categoria nata a seguito degli interventi militari. “Già dal 1888 la Marina Militare aveva cominciato a costruire la sua città autosufficiente in uno stile architettonico in voga nel continente, l’eclettico “Stile umbertino”, portando alla città il nomignolo di “Piccola Parigi” o “Piccola Praga”.
Le strutture di supporto all’attività della base si estesero lungo tutto il settore costiero meridionale dell’isola sino a Punta Moneta, circondando di banchine, di scali e di magazzini la Cala Mangiavolpe, Chiesa, Camiciotto, Camicia, scavando e dragando la costa e il mare antistante.
Si procedette alla stabilizzazione e alla colmata della parte più interna di Cala Mangiavolpe, formando così la vasta Piazza La Renedda o Arenedda o Piazza Comando (oggi Piazza Umberto I), circondata dalle palazzine del comando (spianata dell’Ammiragliato).
Gli alloggi per i militari e i civili addetti all’arsenale, si svilupparono nel declivio retrostante, con un piano regolatore basato su uno schema ordinato ortogonalmente e attuato con palazzine a più piani ed a più appartamenti (area della Vigna del Giudizio).
Il nuovo impianto edilizio, considerato nel suo intero complesso, occupava una superficie sei volte più grande di quella dell’area urbana.
Tutti questi apprestamenti, richiedevano un fitto ordino di comunicazioni per mare e per terra. La viabilità interna, pur trattandosi di strade militari, si avvantaggiò notevolmente; queste strade contribuirono alla valorizzazione agricola di alcune aree periferiche, con aumento del prezzo dei suoli.
Nota correttamente il Baldacci che “la pianta cittadina è il risultato di una giustapposizione di due aspetti molti diversi ma interdipendenti: ad occidente si estende la città borghese ed a oriente quella militare, che occupa una superficie poco più che doppia. In altre piazzeforti marittime, come La Spezia e Taranto, questo fenomeno di interdipendenza è meno sentito, perché l’area borghese è legata ad un hinterland.
A la Maddalena, l’isola e l’isolamento, determinano un innesto così intimo ed una subordinazione così esplicita tra i due centri che la decadenza di quello militare si ripercuote immediatamente su quello borghese. La mancanza di altri congrui cespiti economici vincola ogni incremento del centro urbano alla base militare. E’ certo una subordinazione fortemente aleatoria, ma è anche la causa che ha consentito a questo roccioso arcipelago uno sviluppo cittadino, ed alla quale anzi La Maddalena deve la sua così avventurata esistenza.
E’ la conferma di quel rapporto simbiotico che si era già manifestato all’epoca della Regia Marina Sarda e che costituirà la costante interpretativa dell’insediamento anche nelle epoche successive”. (Nella foto, le aree espropriate per il Genio Militare a Moneta)
Lo scrittore Flavio Sartori in un suo libro su Caprera e l’ Eroe dei Due Mondi pubblicato nel 1888, annota che “i maddalenini si abbandonarono alle questioni interne e spesso, divisi in partiti, si fecero delle guerricciole per interessi di amministrazione comunale od ingerenze consimili; non rinunziando però mai alla speranza che qualche cosa si sarebbe pur fatto per migliorare la sorte del loro piccolo comune che in verità non si trovava in floride condizioni”. A“.A fronte di queste litigiosità era andata però formandosi, certamente anche per l’influsso positivo della presenza di Garibaldi, la tendenza all’aggregazione sociale cosciente: nel 1881 fu fondata a La Maddalena la Società di Mutuo Soccorso, aperta a uomini e donne di qualsiasi condizione e ceto sociale. Ho rilevato tra i soci fondatori le seguenti qualifiche: ufficiale in ritiro, fabbro ferraio, marittimo, donna di casa, muratore, agricoltore, pensionaria, proprietaria, fanalista, pensionato, negoziante. Nella prefazione dell’atto costitutivo è dichiarato lo scopo di: “Tracciare all’uomo la via di poter porgere aiuto al suo simile senza degradarne la dignità“. Perciò la parte intelligente di questo scoglio, stabilì di fondare una Società allo scopo di poter soccorrere il socio che l’avversaria fortuna dei tristissimi tempi in cui si correva lo aveste posto in condizione di abbisognare.
“I primi abitatori dell’isola della Maddalena dei quali si serbi memoria furono, secondo ne fanno fede le asserzioni degli attuali abitanti di essa, banditi Còrsi i quali, traversate le Bocche di Bonifacio nei primi tempi moderni, allo scopo di sottrarsi dalle persecuzioni alle quali erano fatti segno nella loro isola madre, si rifugiarono verso il centro dell’Isola Maddalena, in una delle più alte regioni di essa chiamata la Trinità”. Così scriveva nel 1888 Florindo Florio-Sartori nel libro “L’Isola di Caprera e l’Eroe dei Due Mondi (Società di Accomandata A. Bellisario e C., Napoli).
“Là, su di un piccolo altipiano chiuso a mò di conca tutto all’intorno dalle creste granitiche delle alture, essi costrussero le loro casuccie, di cui ora non rimangono se non pochissime rovine, e un piccolo forte d’onde poteano scoprire da lungi il terreno ad est ed a nord del loro rifugio e dominarne le aspre e ripide vicinanze”.
Il ‘piccolo forte’ citato dovevano essere i ruderi della presenza pisana, collocati a Guardia Vecchia. Quello che è interessante mettere in evidenza è che già nel 1888, quelle prime case oltre che abbandonate, erano anche già dei ruderi. E questo a 120 anni circa dall’arrivo delle truppe d’occupazione (1767) che li trovarono, con a capo un certo Pietro Millelire (si trattava di 21 famiglie e quindi dovevano esserci almeno una ventina di case). Florindo Florio-Sartori non cita la presenza della chiesetta della Trìnita, costruita attorno al 1770, che comunque c’era. Nello stesso libro parla delle case dell’isola di Caprera dove, oltre alla casa di Garibaldi annota la “Cascina Zicavo, a sud-est di quella di Garibaldi, su una piccola altura a nord dello Stagnale, a pochi passi da questo porto”. A sud di Cascina Zicavo “evvi la casa del pastore di Garibaldi, Simone Giovanni Maria”. Annota due altre cascine in prossimità di Casa Garibaldi “abitate da coloni già del defunto Generale” e “più verso levante, su un’ampia terrazza, sono sparse altre quattro casucce, tutte disabitate ed alcune rovinate: un tempo erano le dimore dei pastori dell’isola”. Questo rimaneva, nel 1888, delle prime abitazioni corse che accoglievano ai tempi dell’occupazione sardo-piemontese (1767) 15 famiglie.
15 febbraio
S’inaugurano i primi tronchi delle Ferrovie secondarie in Sardegna, Cagliari-Isili e Monti-Tempio.
21 febbraio
Muore a Milano il giornalista Vincenzo Brusco Onnis, repubblicano e grande amico di Mazzini (era nato a Cagliari nel 1822).
20 marzo
Per la prima volta si identifica il sito idoneo alla vendita dei prodotti ortofrutticoli e della pesca nella Piazza Olmi. In seguito, in quel punto, sorgerà il Civico Mercato. Il Sindaco di La Maddalena è Domenico Lantieri che rimarrà in carica per poco più di un anno.
25 marzo
Esce nelle edicole il settimanale “Lo stretto di Bonifacio: periodico gallurese settimanale“. Cesserà nel 1889. Il periodico è pubblicato ogni domenica a Santa Teresa, dal 25 marzo 1888. L’ultimo numero della collezione, posseduta in fotocopia dalla sola Biblioteca comunale di Santa Teresa, è datato 3 febbraio 1889. Il foglio, come risulta dal numero unico pubblicato nel 1904, è diretto da Genesio Lamberti, già direttore del suo predecessore «Le Bocche di Bonifacio» (→). Dalla precedente testata il giornale eredita il gerente Sebastiano Baffigo, che diventa proprietario responsabile, e gli pseudonimi Procaccino, Libellula, Universitarius, Ficcanaso, Anticlericale, Scricciolo, Il Galletto e Segenio, Italus dietro i quali si cela per lo più lo stesso Lamberti; tra i collaboratori compaiono Gio Andrea Cossu e Franceco De Rosa. La presenza di Lamberti e di De Rosa, insegnante e collaboratore della «Rivista di tradizioni popolari» di Angelo De Gubernatis, determina nel foglio un’attenzione particolare alle tematiche e ai problemi dell’istruzione. Le metodologie dell’insegnamento sono esaminate nella lunga serie di interventi La scuola non istruisce né educa firmati da De Rosa, a cui si affiancano articoli sulle rivendicazioni economiche degli insegnanti, Questione universitaria, con le discussioni intorno alla possibilità dell’ateneo sassarese di emanciparsi a università di prima classe così come previsto dalla legge Coppino, l’elogio dell’amministrazione comunale di Santa Teresa per il buon livello di insegnamento che assicura. Si propaganda la necessità di un’istruzione che sia obbligatoria, laica ed estesa a categorie come gli abitanti delle campagne, che verrebbero così sottratti al potere esercitato dai preti, situazione molto comune in Gallura, e le donne: a loro infatti, perché svolgano al meglio il proprio compito di mogli e madri, è necessario “ un largo corredo di cognizioni le quali si acquistano con l’istruzione e solamente nella scuola”. I principi generali richiamati in tema di educazione scolastica sono quelli propri della stampa democratica del periodo, a cui «Lo stretto di Bonifacio» aderisce. Ne sono testimonianza il forte anticlericalismo di cui sono permeati numerosi articoli, l’opposizione alla pena capitale, l’appoggio all’approvazione alla legge sul divorzio, e la denuncia dell’uso politico dell’istituto dell’ammonizione che, ripristinato, è applicato come misura repressiva nei confronti di socialisti, anarchici e internazionalisti. Coerentemente con queste posizioni sono condannate la scelta dell’Italia di aderire alla Triplice alleanza, in dispregio ai sentimenti filo-francesi dei veri patrioti, e la rottura del trattato commerciale con la Francia, particolarmente dannosa per la Gallura e la sua economia. Criticata è anche la politica imperialista del ministero Crispi: il governo italiano ha già “dilapidati nella infausta impresa africana” “cento milioni” che meglio sarebbero stati utilizzati in Gallura, ove “si contano solamente nove comuni” e vi sono zone completamente disabitate che potrebbero essere colonizzate, risvegliando “la quasi morta agricoltura”. Numerosi e attenti sono i richiami alla situazione economica e sociale gallurese: in particolare si richiede il miglioramento della viabilità, “la costruzione di un tronco di strada che allacciar deve la nazionale Tempio-Palau coll’altra Tempio-S. Teresa”, una nuova strada per La Maddalena, il prolungamento dei collegamenti ferroviari; si informa della presenza a Santa Teresa della Società di mutuo soccorso. Tra gli episodi di criminalità che infestano la Sardegna e della cui recrudescenza sono incolpati il progresso e la disattenzione del governo verso la regione si pubblica la notizia di una grassazione avvenuta a Solarussa. Il giornale ospita anche numerose corrispondenze dai paesi della Gallura, con particolare attenzione a La Maddalena, di cui più volte si rimarcano i legami economici e amministrativi con Santa Teresa, e a Bonifacio. Il giornale riprende la polemica, già inaugurata dal suo predecessore, sulla Corsica e sullo scarso patriottismo del popolo corso; in proposito cita Rousseau che nel Contratto sociale definisce la Corsica una terra valorosa e costante nel difendere la sua libertà, ma che, se “potesse oggi scoperchiare l’avello, e venire fra noi fragili mortali […] oh quanto si pentirebbe di aver acclamato ad un popolo non così fiero e geloso della sua libertà”. Da segnalare la notizia dell’imminente processo a Genova contro Ghiani Mameli per il fallimento della Cassa di risparmio di Cagliari. Sul piano della politica estera, l’attenzione è sempre rivolta alla Francia: fortificazioni, protezionismo e pericoli di guerra sono i temi ricorrenti. La parte letteraria si limita ad una poesia in sardo di Giovanni Pischedda e alla pubblicazione a puntate di Feste in Gallura di f.d.r. (Francesco De Rosa). Tra le rubriche: “In Gallura”; “Sciarada”; “Chicchirichi”; “Effemeridi di storia patria”; “Corrispondenze”; “Riceviamo e pubblichiamo”; “Varietà”, che accoglie numerosi i consigli di profilassi igienica, specie sulla vaccinazione contro il vaiolo che, come si apprende dalle corrispondenze, infestava ancora alcuni paesi dell’isola. Il periodico si compone di quattro fogli; la veste tipografica è nitida e curata.
«I nostri fratelli di Corsica boriosi di potersi appellare Francesi, rinnegano la vera patria; e guai all’audace che osa insultarli coll’umiliante nome d’Italiani». Con questo esordio Genesio Lamberti, direttore delle «Bocche di Bonifacio» giornale che si pubblicava a Santa Teresa nel 1884, apriva l’articolo «I Corsi e l’Italia» che avrebbe provocato una feroce polemica con la stampa corsa del tempo. «Le Petit Bastiais» rispondeva al piccolo giornale gallurese senza risparmio di insulti, che i Corsi «sono e vogliono restare francesi». Alla contesa si univa anche un giornale marsigliese, «Le Progrés De la Corse», il quale, per voce di un suo redattore, un certo Ortoli, brandendo la storia della Corsica e l’eroismo dei suoi figli affermava che questi più volte si erano sottratti al giogo dello straniero. All’Ortoli il Lamberti rispondeva: «Il redattore del Progrés De la Corse, così devoto alla Francia, ha mai sillabato il suo nome? No, certamente. Egli avrebbe arrossito prima di lanciare volgari insulti all’Italia». Le provocazioni nei confronti dei Corsi, e della stampa corsa in particolare, non si limitavano semplicemente agli articoli nei quali si rinfacciava la presunta codardia degli abitanti dell’isola per non essersi opposti alla vendita della propria terra alla Francia. C’erano anche le corrispondenze di tale Italus che scriveva da Bonifacio quando Eolo e Nettuno permettevano ai piroscafi di trasportare la posta. In realtà Italus altri non è che il Lamberti stesso, nascosto dietro pseudonimo, come risulta dalle firme apposte in coda agli articoli successivamente. L’iniziativa portata avanti dal giornale teresino non si spiega se non come il tentativo di ridestare nelle coscienze dei corsi un oramai dormiente, se non del tutto sopito, sentimento patriottico italiano. Italiana, come è noto, la Corsica era stata fino al secolo prima quando fu venduta alla Francia. Pasquale Paoli e altri fra i quali c’era anche un certo Carlo Maria Bonaparte, padre del più famoso Napoleone, avevano combattuto in nome di quel sentimento italiano sul quale spira ora il vento delle «Bocche di Bonifacio» nel tentativo di ridestarlo. Il giornale accusa la Francia di rinunciare a parte delle sue prerogative, abdicando per esempio all’esercizio della giustizia: per far ottenere la grazia ad un assassino è sufficiente esercitare pressioni, in maniera più o meno ortodossa, sul prefetto; d’altra parte accusa i Corsi di barattare il loro sentimento patriottico «per la loro prosperità materiale». Le preoccupazioni dei galluresi in questo periodo sono in realtà più urgenti e reali di quanto non sia il sentimento patriottico italiano dei cugini di Corsica. Sul secondo numero delle «Bocche di Bonifacio», sempre a firma del Lamberti, compare l’articolo «L’Italia dorme» dove si agitano i fantasmi di una possibile invasione francese della Sardegna. La Francia infatti, come si spiega nello stesso articolo, ha disposto un comando militare per le fortificazioni dei punti più importanti della Corsica. «La Sardegna, a due passi dalla Corsica, fa gola alla Francia: e noi a ragione temiamo per qualche gioco inaspettato». I timori del giornale gallurese non erano solamente allucinazioni dato che proprio nella zona fu studiato e predisposto il «Piano di difesa dell’Arcipelago di La Maddalena – 1 febbraio 1884» che porterà alla costruzione dell’imponente Batteria di Monte Altura. Con questa campagna di provocazione si intravede il tentativo di provocare quella parte del popolo Corso che ancora mal sopporta il giogo transalpino. La polemica fu portata avanti qualche anno più tardi dall’erede delle «Bocche di Bonifacio», lo «Stretto di Bonifacio»; giornale che come il predecessore era diretto da Genesio Lamberti e aveva per gerente Sebastiano Baffigo. Il periodico non esita a scomodare Rousseau che nel «Contratto sociale» aveva definito la Corsica una terra valorosa e costante nel difendere la sua libertà, ma se «potesse oggi scoperchiare l’avello, e venire fra noi fragili mortali […] oh quanto si pentirebbe di aver acclamato ad un popolo non così fiero e geloso della sua libertà». Questi due giornali fanno parte di quel fermento editoriale che alla fine del secolo aveva portato alla nascita di molti periodici, che potevano avere una vita più o meno lunga, legata spesso alle vicende dei loro patrocinatori. Sono dello stesso periodo la «Cronaca Sarda», giornale letterario pubblicato a Tempio, di cui era direttore Luigi Pompeiano, il «Gallura» e il «Limbara» che si pubblicava a Calangianus.
28 aprile
Muore a Monterotondo Pietro Stagnetti di Luigi che nacque ad Orvieto il 30 aprile 1827.
La famiglia lo mandò a studiare a Roma ospite di alcuni parenti ma nel 1846, essendo avverso al governo pontificio, si trasferì a Parigi, dove nel febbraio del 1848 partecipò ai moti che portarono alla caduta di Luigi Filippo e alla proclamazione della Repubblica.
Appresi gli avvenimenti italiani si imbarcò per l’Italia per combattere in Lombardia, prima con volontari livornesi, poi come ufficiale delle truppe romane.
Dopo la disfatta di Novara raggiunse Roma e si distinse nei combattimenti contro i francesi, come aiutante di campo di Garibaldi, durante la difesa della Repubblica.
Seguì Garibaldi nella ritirata fino alla pineta di Ravenna. Da lì Stagnetti in fuga, superato l’Appennino, raggiunse Livorno, da dove si imbarcò alla volta dell’America. Arrivato a New York, incontrò nuovamente Garibaldi e trovò lavoro con lui nella fabbrica di candele di Antonio Meucci. Durante l’esilio americano ebbe modo anche di formarsi una famiglia ma dopo qualche anno tornò in Italia, e non potendo rientrare nello Stato Pontificio per un provvedimento di messa in esilio, si stabilì a Genova e collaborò con i democratici del Comitato dell’emigrazione romana.
Nel 1859, si arruolò nei Cacciatori delle Alpi di Garibaldi come tenente.
Nel 1860 Stagnetti partecipò all’impresa dei Mille prima come capitano, poi maggiore aiutante di campo del Generale. Rimase ferito sia a Milazzo che a Reggio Calabria, ottenendo la Croce dell’ordine militare di Savoia. Entrò a Napoli in carrozza a fianco di Garibaldi, con il quale strinse una vera amicizia, e con lui si imbarcò il 9 novembre alla volta di Caprera, dove rimase qualche tempo. Sembra che Garibaldi lo abbia rimandato sul continente perché, nonostante la famiglia lasciata a New York, aveva iniziato una relazione con una donna della Maddalena da cui aveva avuto anche dei figli.
Entrò come ufficiale nell’esercito regolare. Ma si dimise nella primavera del ’64, ed era schedato come sovversivo dal ministero dell’Interno. Nel 1864 fu al seguito dell’Eroe dei Due Mondi nel viaggio trionfale di Londra, quindi, ancora nel suo Stato Maggiore nella campagna del 1866, dove si guadagnò una menzione onorevole a Bezzecca.
Alla fine della Campagna, tornò temporaneamente a Genova.
Nel 1867 fu inviato da Garibaldi, a Orvieto, per raccogliere volontari per la liberazione di Roma. Dopo la disfatta di Mentana, rimase attivo nelle associazioni di reduci.
Nel 1972 risultava residente a Roma.
Nel 1876, ammalato, si ritirò a vivere con la famiglia a Monterotondo dove morì
14 agosto
Muore all’età di 92 anni, Carlotta Capurro, figlia di Antonio e di Garbino Paola, ultima superstite dei riscattati condotti in schiavitù in seguito all’invasione barbaresca avvenuta a Carloforte il 3 settembre 1798.