Due maddalenini nel 48
Con un gruppo di amici ascoltavamo in Piazza Garibaldi un comizio del dott. Taddei. Subito dopo, dai ‘due cani’ (Palazzo Giagnoni ndr), punto della piazza da dove spesso si svolgevano i comizi, prese la parola un giovane democristiano, il dott. Dell’Oglio, venuto a La Maddalena e in Sardegna per le elezioni del 18 aprile 1948. Sul più bello del comizio di quel giovane molto bravo e preparato, che parlava da giovani ai tanti giovani presenti nella piazza, di lavoro, benessere, istruzione e tante altre belle cose, Tore D’Oriano e Franco Ronchi, ci comunicarono che avevano licenziato tutti gli Allievi Operai dell’Arsenale. Fu una notizia per noi e anche per chi l’aveva portata, sconvolgente, perché anche loro facevano parte del gruppo Allievi.
Chiedemmo da chi avessero avuto l’informazione e ci dissero: “da persone bene informate”. Intanto l’oratore continuava imperterrito il suo comizio, e noi, vicino al portone del Comune, a rumoreggiare, ostacolando non poco la prosecuzione del comizio. Subito dopo, con Franco e Tore, ci recammo dal nostro vecchio istruttore Giosuè Orlando, che si trovava dai nipoti, i fratelli Dessì, in via Garibaldi, il quale ci confermò la brutta notizia, spronandoci, da buon educatore, a “fare da bravi che con le buone maniere e qualche calcio nel sedere tutto si sarebbe risolto in bene”. Non l’ascoltammo, quando, invece, altre volte, per tutti noi sul luogo di la voro le sue parole erano Vangelo! E arrabbiatissimi rientrammo nella piazza Garibaldi, e con le nostre grida ad impedire che il comizio del giovane si svolgesse regolarmente. Ma, il tenente dei Carabinieri, signor Giardina, uomo di grande umanità e preparazione professionale eccelsa, che si trovava sulla piazza, si avvicinò a noi e saputo il motivo della protesta ci impose con le buone maniere “di fare da bravi”, ed esporre il nostro caso, a fine comizio al dott. Dall’Oglio. Detto, fatto. Salimmo le scale del Dottor Cicchi e ci trovammo sul terrazzo nello spiazzo dei ‘due cani’ di terracotta. Subito dopo finito di parlare, esponemmo il nostro caso al giovane oratore. Ci promise, impegnando la sua parola d’onore, che a Roma avrebbe perorato la nostra causa di lavoro. E poiché molti di noi erano scettici ed increduli, comunque, di fronte ad uno che diceva di aiutarci, ringraziammo educatamente e scendemmo le scale dei ‘due cani’, avviliti, mortificati, senza speranza alcuna. L’indomani: disoccupati. A spasso a contare le lastre di granito di via Garibaldi, in fila.
Dopo alcuni giorni da disoccupato venne a trovarmi a casa Francesco Sanna il quale mi comunicò che il dottor Renzo Manca, segretario della D.C. maddalenina e don Capula volevano parlarci entrambi, al più presto possibile. Ci recammo prima dal dottor Manca, il quale ci diede una lettera da consegnare al presidente del consiglio Alcide De Gasperi, invitandoci di non parlare e fare i galantuomini: consegnare la lettera, ringraziare e fare da bravi: missione compiuta. Subito dopo ci recammo in sacrestia. Don Capula ci accolse con un sorriso di quaranta denti! “Finalmente vi si vede” ci disse. “O che io sono stato un cattivo pastore o voi eravate delle pecorelle smarrite”. Non rispondemmo. Ma ci guardammo in faccia io e Francè senza aprire bocca. Subito dopo don Capula, come capo indiscusso della comunità locale, ci consegnò una lettera indirizzata a De Gasperi, non tralasciando la raccomandazione di comportarci bene, da ragazzi bene educati! Ci disse che all’una, dalle ‘torpediniere’ (lungomare A. Mirabello ndr), il mezzo Porto Quieto ci avrebbe portato a Palau per proseguire per Sassari dove avremmo potuto consegnare le due missive, dopo il comizio, che si sarebbe tenuto in Piazza d’Italia il 9 aprile 1948 alle ore 18:00, precisò che a Palau ci saremmo imbarcati su un camion, con tanti altri dell’Azione Cattolica e simpatizzanti maddalenini, e che in serata saremmo rientrati a casa. Sanna mi consigliò di tenere le lettere io perché i due esponenti locali l’avevano consegnate nelle mie mani, ed io le misi in una tasca interna della giacca. Ci lasciammo con Francesco, dandoci appuntamento prima della partenza, al luogo d’imbarco.
Mi recai a casa per avvisare i miei genitori della partenza e mangiare in fretta un boccone. Abitavo in via Principe Amedeo. Subito dopo, ripercorsi la strada a ritroso per recarmi da Sanna e poi proseguire alla volta dell’imbarco per Palau. Dalla stretta che va all’attuale officina Manconi, spuntò un Carabiniere che mi conosceva e in maniera perentoria mi afferrò il braccio destro e mi intimò: “Guarda, non lo faccio per te, ma per i tuoi genitori: butta la pistola che hai in tasca. So che vai a Sassari per ammazzare De Gasperi! Non farmi mettere le mani in tasca perché altrimenti dovrei arrestarti”. Rimasi interdetto, mortificato, senza parole, ma subito dopo mi ripresi e ad una rivoltai le tasche, tenendo della mano sinistra le due lettere. Alquanto irato, risposi al Carabiniere: “Ma mi ha preso per un assassino, come si permette di trattarmi così?” Subito dopo mi strappò le lettere damma mano, mettendosele in tasca ed iniziò a frugarmi, nel petto, in mezzo alle gambe, dappertutto. Gli dissi, ormai ripresomi dallo sconforto: “Vuole che mi denudi?” Subito dopo mi restituì le lettere dicendomi: “Andate a Sassari e fate da bravi; a te, per rispetto dei tuoi non abbiamo perquisito la casa, cosa che invece abbiamo fatto con Sanna”. Ci rimase male, non avendomi trovato manco soldi in tasca, ma solo il fazzoletto e le due lettere e senza scusarsi mi riconsegnò le lettere dicendomi: “Avete ragione, andate a Sassari e tanti auguri di ogni bene”. E così mi aveva pagato! Mi recai a trovare Quintino, il fratello di Francesco, e gli raccontai approssimativamente il fatto. Mi disse subito: “A te ti hanno frugato in una stretta, per mio fratello sono venuti a perquisirci la casa”. Non risposi, perché fatte le dovute considerazioni a me, nonostante tutto, era andata meglio!
Mi inoltrai in via Garibaldi e nei pressi del negozio Caprilli, trovai Francè, nero di rabbia. Mi raccontò il suo caso e subito presi le mie decisioni. “Vieni con me, io riporto le lettere a che ce le ha date e a Sassari ci vadano loro!”. Quel pezzo di strada che ci separava da chi ci consegnò le missive lo percorremmo in un baleno. Prima ci recammo dal Dottor Manca, che era anche il medico dei miei genitori e raccontammo il fatto. Ci invitò ad andare con lui, con la sua macchina, che ci avrebbe portato ben volentieri a consegnare le lettere. Ringraziammo e rifiutammo. Subito dopo ci recammo in sacrestia. Capula non ci fece aprire bocca dicendoci subito:” So tutto, so tutto. C’è troppa gente cattiva in questo paese: oggi ne avete buscato voi, domani chissà a chi toccherà! Troppa cattiveria, troppa cattiveria!” Io ero nervoso, avevo voglia di gridare, forse anche di picchiare, ma contai fino a mille: “Piazza Comando fin qui non dista manco trecento metri” (i telefonini non li avevano ancora inventati) e lui sapeva già tutto! Pensai in silenzio. Poi sbottai, però controllandomi bene e misurando le parole: “Monsignore, ecco la sua lettera, la ringrazio, ma a Sassari noi non ci andiamo più”. Lo stesso ripeté Francesco. Poi ripresi: “Mi perdoni, perché lei ha scelto me per portare le lettere a De Gasperi, aveva tante persone che vanno a Sassari, poteva darle ad uno di loro, perché proprio a me?”. Rispose beffardo, sorridendo con i suoi quaranta denti: “Tu fai il tornitore vero? So che sei anche bravo. Vedi abbiamo scelto te perché tu sei una ruota conduttrice, non una ruota condotta e neppure una intermedia: Era meglio che la lettera la portavi tu e non altri. Adesso devo lascarvi, speriamo bene a tutti voi. Auguri”. Ci congedò con queste parole.
A sera, riflettendo sulla infausta giornata passata, pensai al mio tornio dell’Arsenale, alle ruote condotte, intermedie e conduttrici ed anche a quella bellissima che aveva un numero primo, la 127 ma era tanto importante il suo compito nel tornio. Mi meravigliai, allora, che un prete conoscesse il tornio con l’ausilio che hanno quelle ruote dentate per farlo funzionare e produrre dei lavori meravigliosi, necessari in tutti i campi della produzione meccanica e tecnologica. Se le elezioni del 1948, anziché in aprile, si fossero svolte a settembre-ottobre, io un coltellino in tasca l’avrei avuto, certamente, anche perché ero ghiotto di fichidindia che spesso andavo a ‘comprare’ all’orto di zì Mulas, ed allora forse io non vi avrei mai potuto raccontare questa piccola storia vera! Perché anche con un piccolo coltellino mi avrebbero portato in galera. Allora!
Racconto del compianto Giovanni Murgia, pubblicato sul settimanale maddalenino Il Vento nel 2011