I fatti d’arme nell’arcipelago maddalenino nel 1793
A leggere le cronache del tempo di parte francese si trae l’impressione che ci siano state più vittime tra corsi e francesi durante i preparativi dell’attacco alla Sardegna che non tra i belligeranti durante l’attacco vero e proprio.
Confrontando le notizie a partire dal novembre 1792 emerge in tutta evidenza il contrasto tra il disordine regnante nella Corsica del sud e la calma nel nostro villaggio; anche se tutti i padroni marittimi che trafficavano in commerci con le nostre isole portavano notizie di un imminente attacco: di là risse, ruberie, omicidi, incendi causati dalle truppe volontarie francesi (marsigliesi sulle navi e corse per l’esercito) che, come ebbe a dire un loro attento storico, a causa della rivoluzione smisero di essere lavoratori senza per questo essere diventati soldati; da questa parte continuava il normale svolgimento della vita di tutti i giorni i cui ritmi erano scanditi da nascite, matrimoni, morti naturali, il lavoro sulle navi militari, su quelle mercantili e la cura dei poderi e del bestiame allora numeroso su tutto l’arcipelago.
Finalmente, dopo il fallimento dell’attacco principale alla Sardegna (quello di Cagliari del dicembre 1792, essendo l’assalto all’arcipelago, secondo l’ammiraglio Truguet, un diversivo il cui risultato interessava più ai Corsi che alla Francia), il 22 mattina del febbraio 1793 (dopo un falsa partenza di alcuni giorni prima causata dalle cattive condizioni del tempo) il convoglio franco-corso guidato dalla corvetta Fauvette e composto da più di venti imbarcazioni, si avviava alla conquista del nostro arcipelago che, stando alle premesse che avevano fatto alcuni membri corsi dell’Assemblea Nazionale Francese (Saliceti e Costantini), avrebbe dovuto essere poco più di una passeggiata.
Non era vero, del resto, che i maddalenini (o meglio gli isolani, come venivano abitualmente definiti gli abitanti dell’arcipelago) erano vecchi concittadini con numerosi e duraturi legami di sangue e d’affari con i corsi? Che ancora adesso, spesso e volentieri, prendevano moglie o marito in Corsica? Che parlavano la stessa lingua e, a quanto sostenevano gli agit-prop locali, erano quanto mai desiderosi di ricongiungersi con quella che, sino a venticinque anni prima, era stata la loro patria?
Se questo era davvero lo spirito degli attaccanti (e c’è da pensare che credessero veramente in una accoglienza non ostile) grande deve essere stata la sorpresa nel constatare con quanta determinazione gli isolani (militari e civili atti alle armi) si erano preparati ad accoglierli.
Maddalena, nel 1793, era una cittadina di circa 850 abitanti divisi in 190 famiglie le cui modeste case erano tutte intorno alla prima chiesa parrocchiale di S. Maria Maddalena alla cura della quale si alternavano due parroci: il calangianese Giacomo Mossa, ormai a fine carriera, ed il tempiese Luca Demuro. Si tenga presente che la chiesa era molto più modesta di quella che abbiamo conosciuto sino ai primi anni del 1950 e il nome lo tolse alla prima chiesetta ancora oggi esistente ( anche se più volte rimaneggiata e soprattutto privata del suo terreno circostante) e che da allora fu dedicata alla SS. Trinità (la Trinita in isolano) .
Il villaggio era difeso da due forti: S. Andrea (ex carceri sopra i Tozzi) e Balbiano sul lato ovest dello scalo vecchio, e da una flottiglia di navicelle i cui pezzi pregiati (in realtà si reggevano appena a galla) erano le due mezze galere S. Barbara e Beata Margherita a bordo delle quali prestava servizio buona parte della popolazione maddalenina (da li bassi uffiziali in giù, che all’epoca gli ufficiali dovevano essere di nobile lignaggio) ed un certo numero di forzati che stavano incatenati ai remi essendo le suddette navi a doppio sistema di propulsione (appunto a remi e a vela).
Per l’occasione flotta e popolazione erano state rinforzate da un reggimento di soldati (circa 150 persone) e da qualche decina di civili galluresi di terra ferma. In tutto circa 600 persone atte alle armi.
Comandava la base il signor Giuseppe Maria Riccio, piemontese o meglio pedemontanus contrariamente a quanto sostenuto in una pubblicazione del 1935 che lo dava per tempiese, mentre a capo della flotta c’era il nizzardo Felice de Costantin il quale fu, in realtà, il vero regista di tutte le operazioni e colui che prese tutte le decisioni operative. Per l’occasione fu concepita e realizzata alla Maddalena la cosiddetta bandiera da combattimento oggi finalmente esposta, grazie all’iniziativa di un gruppo di cittadini, nella sala consiliare del palazzo comunale.
Il comandante Riccio, recita la relazione ufficiale, a causa dell’età non avrebbe potuto seguire l’andamento dei combattimenti (che si prevedevano soprattutto di movimento) e si ridusse a dirigere il tiro dei cannoni del forte S. Andrea. Età che non impedì, comunque, al nostro signor Riccio di avere un figlio (Giovanni, Battista, Gavino, Carlo, Vincenzo, Innocenzo, Antonio, questi i nomi del bambino ) nato all’isola nove mesi dopo l’assalto (12 ottobre 1793).
I franco-corsi, per contro, erano 600 o, secondo altri, 800 persone (esclusi gli equipaggi) comandati dal generale Colonna Cesari, corso di
Quenza e nipote di Pasquale Paoli, coadiuvato, per le manovre a terra, dai luogotenenti Quenza e Napoleone Bonaparte.
Costoro, a loro volta, avevano agli ordini ufficiali e soldati provenienti da Sartene, Zicavo, Quenza, Livia, Zonza, Sorbollà e Bonifacio che di lì a poche ore avrebbero incrociato le armi con gente originaria di Bonifacio, Zonza, Sorbollà, Livia, Quenza, Zicavo e Sartene.
Mentre il comandante Riccio si insediava nel forte S. Andrea (Tozzi), sul quale venne innalzata la bandiera isolana con il motto “ Per Dio e per il Re Vincere o morire” che ripudiava una volta per tutte il pragmatico e filosofico “Viva chi vince”, De Costantin divise la gente idonea al combattimento, compresa parte degli equipaggi, in cinque gruppi per coprire il circuito dell’isola e parte di Caprera in modo da prevenire, tempestivamente, eventuali sbarchi nemici.
S. Stefano restava isolata, protetta, però, dalla torre quadrata di Villamarina, armata con tre cannoni, all’interno della quale operavano venticinque militari di marina del corpo degli invalidi (cioè anziani marinai) guidati da un tenente Carzia.
Sui litorali della Sardegna (cioè tra il Parau e Porto Pullo) per tutto il giorno 22 febbraio 1793 si radunarono 22 signori tempiesi (il che non significa necessariamente tutti appartenenti alla città di Tempio) guidati dal signor Giacomo Manca di Thiesi, capo della Milizia gallurese, più il suo cameriere personale.
Alle ore nove del 22 febbraio i franco-corsi effettuavano un raid a Spargi (cala Corsara) per procurarsi bestiame da vettovagliamento ed a mezzogiorno la corvetta Fauvette , armata come una fregata, andava ad imbozzarsi di fronte a Punta Tegge come per proteggere uno sbarco che venne simulato o tentato determinando, in ogni caso, una energica reazione del gruppo guidato dall’ufficiale di marina Vittorio Porcile di S. Antioco.
In realtà il grosso del convoglio sfilava verso S. Stefano (grosso modo nell’area detta il Pesce, oggi vi è un importante insediamento turistico) dove effettuava lo sbarco vanamente osteggiato, con scariche di fucileria, dai marinai della Torre portatisi momentaneamente sulla costa.
Nel pomeriggio del 22 la corvetta francese saggiava con varie bordate di cannone la resistenza delle mezze galere sarde ormeggiate, con pochissimo equipaggio, ancora a cala Gavetta al comando di Agostino Millelire, piloto della Beata Margherita, essendo gli ufficiali tutti a terra al comando dei gruppi di resistenza) e la capacità dei due fortini isolani che rispondevano caparbiamente.
Il tutto inizialmente senza danni reciproci.
La via per la Sardegna era, però, bloccata così i nostri non avrebbero potuto ricevere soccorsi e vettovagliamenti.
Nella notte del 22, sotto un violento acquazzone e disturbati da un forte vento, Quenza e Bonaparte predisponevano gli attacchi alla Torre al fine di rendere innocua la piccola guarnigione che vi si era trincerata chiudendo il ponte levatoio.
Mentre avveniva tutto ciò, all’isola, per ovviare a quello che al momento sembrava il maggior inconveniente e cioè l’isolamento dall’isola madre, veniva prelevato dal fortino Balbiano (a ponente dello scalo vecchio) il cannone più potente e portato a Punta Tegge (si presume dentro l’area della colonia estiva) da dove, nella mattina del 23 febbraio, i sottoposti nocchiero Domenico Millelire, il marinaio Antonio Alibertini, addetto alle forge per arroventare i proiettili del cannone, maddalenini, ed capo-cannoniere Francesco Mauran cominciarono a tirare contro la corvetta.
Il comandante della Fauvette, dopo che la sua nave venne colpita per quattro volte con alcuni feriti ed un morto tra i membri dell’equipaggio, abbandonava precipitosamente la posizione (tanto da lasciare sul posto le ancore dirigendo la prora prima verso la Sardegna per poi posizionarsi all’imboccatura di Villamarina.
A seguito di questa manovra tutti capirono che la torre era ormai in mano agli assalitori.
Infatti, occupata la torre, Quenza e Napoleone organizzarono durante tutta la giornata del 23 febbraio una batteria di quattro cannoni ed una bombarda nella zona detta la Puntarella (la piana sotto il Poggio Tondo di S. Stefano dove l’attuale parroco don Degortes ha fatto installare una croce di legno in memoria dell’episodio). La posizione era ideale per prendere d’infilata Cala Gavetta e quindi la flotta, il paese ed il forte S. Andrea.
Il cannoneggiamento sul nostro piccolo paese cominciò alle dieci di notte del 23 febbraio 1793.
L’operazione, stando ai servizi di “intelligence” francesi avrebbe dovuto causare la pressoché immediata resa dell’isola.
Invece, grazie alla perfetta conoscenza dei luoghi ed alle informazioni sulla reale consistenza e disposizione del nemico portate da un anziano marinaio maddalenino (la Grandeur, Salvatore Ornano) sfuggito insieme ad altri sei commilitoni alla cattura e rientrato all’isola a nuoto, iniziò la controffensiva dei nostri.
La flotta, guidata da Agostino Millelire, il quale (malgrado la vulgata a favore del fratello Domenico grazie alla propaganda antifrancese degli anni trenta del ‘900 era già stato insignito di medaglia d’oro per combattimenti contro i barbareschi nel 1787), venne trasferita nella notte tra il 23 e 24 prima a Cala Mangiavolpe e poi definitivamente al sicuro al passo della Moneta passando spavaldamente davanti alla batteria corsa i cui uomini, ovviamente, scaricarono sui nostri quante più fucilate poterono.
Domenico Millelire, il capo cannoniere Mauran ed il marinaio Antonio Alibertini, coadiuvati da altri commilitoni dei quali non ci è pervenuto il nome, scortati da Cesare Zonza al comando di una galeotta (tipo di imbarcazione in uso ai tempi) si portarono, per ordine del De Costantin, con una lancia sulla costa sarda di fronte a Villamarina nel luogo detto Punta Nera dove, con l’aiuto di alcuni galluresi, sistemarono due cannoni.
Mentre il collaudato trio, che già a Punta Tegge aveva dimostrato di saperci fare con i cannoni, si preparava ad attaccare le navi francesi alla fonda all’imboccatura di Villamarina, Cesare Zonza scivolava con la sua galeotta sotto la costa di Caprera.
L’albeggiare del 24 illuminava questa scena:
dalla Puntarella di S. Stefano (attualmente vi è una croce di legno in ricordo) Quenza e Napoleone bombardavano con continuità il paese; dalla Punta nera del Parao i nostri tre tiravano bordate contro la flotta francese avendo buon gioco nel colpirla essendo questa riunita all’imboccatura della cala di Villamarina.
A Maddalena vi erano danni alle abitazioni e perdite di bestiame; dai due forti i colpi, con il passare delle ore diventavano sempre più radi in quanto si cominciava a risparmiare le munizioni che ormai scarseggiavano, così come i viveri per truppa e abitanti. Ricordiamo, infatti, che la fornitura di tutto ciò che serviva all’isola sia per usi militari che civili dipendeva da un farraginoso sistema di approvvigionamento che prevedeva l’invio da Cagliari e la conservazione in un magazzino (oggi scomparso) che si trovava non lontano dalla torre fortificata di S. Stefano. Il De Costantin, paventando una simile situazione, aveva fatto pervenire al Manca di Tiesi una richiesta urgente già il 22 febbraio ma quello, imperterrito, continuava a sostare al Parao ed a litigare con i sottoposti, evidentemente più preoccupato di uno sbarco in terraferma che di aiutare gli isolani.
A S. Stefano il comandante della Fauvette, in un primo momento, cercò rifugio in fondo alla cala, ma, accortosi dell’errore, tornò indietro e ordinò di formare due batterie ai lati della cala per poter incrociare i tiri contro i cannoni piazzati sulla costa.
Nel frattempo, conosciuto (evidentemente da qualche veloce staffetta a vela) il buon risultato ottenuto dalla batteria della Punta Nera, l’efficiente De Costantin provvedeva ad inviare, nel far della sera del 24 febbraio, altri due cannoni al Millelire per formare un’altra batteria allo Stentino sotto Capo d’Orso, così da poter battere la corvetta ed il convoglio di navi che si erano, nel frattempo, spostate più verso levante.
Durante la notte, mentre fervevano i lavori di posizionamento della nuova postazione con l’aiuto di alcuni pastori della costa, la corvetta con alcune altre imbarcazioni più leggere si portò nel canale tra S. Stefano e Caprera e alle 02,30 fu tentato uno sbarco su quest’ultima con un felucone, una gondola e due piccole lance trovandovi pronto all’appuntamento Cesare Zonza, il pilota che aveva accompagnato Millelire e gli altri, il quale a capo di 65 uomini (tra i pochi dell’equipaggio e civili isolani e galluresi) respinse il tentativo.
Da notare che al calar della notte a Caprera venivano accesi diversi fuochi per dare l’impressione che fossero presenti numerosi difensori.
Un nuovo tentativo di sbarco fallì anche il mattino del 25 febbraio, giorno delle grandi decisioni sia da una parte che dall’altra.
La notte del 24, nel magazzino di S. Stefano si tenne una riunione tra il Colonna-Cesari, sceso a terra per illustrare il crescente malumore a bordo della Fauvette e del resto del convoglio, ed i luogotenenti Quenza e Bonaparte alla fine della quale si decideva di operare l’attacco definitivo a Maddalena effettuando uno sbarco con tutte le forze disponibili il giorno dopo. A sostegno di questa operazione il 25 mattina il fuoco da parte francese riprese con vivacità.
A Maddalena serpeggiava la disperazione.
Dalla costa non arrivavano rinforzi né tanto-meno approvvigionamenti.
De Costantin radunò ufficiali e capifamiglia e tenne consulto per verificare la possibilità di un attacco all’arma bianca nella giornata del 26.
Intanto D. Millelire, Mauran e Alibertini tiravano sulla flotta ormai sbandata.
Da bordo della Fauvette durante la giornata del 25 febbraio 1793 arrivò al Quenza un foglio a firma del comandante in capo Colonna-Cesari che diceva: ”Cittadino luogotenente-colonnello, la circostanza esige di dare gli ordini più pressanti perché l’armata si metta al più presto in movimento e si ritiri……”
Tra le truppe a terra vinse lo sgomento; Quenza e Bonaparte si infuriarono perché sentivano ormai la vittoria prossima.
A bordo della Fauvette e delle altre imbarcazioni erano, al contrario, stufi di prendersi le cannonate per conto di tutti e fecero chiaramente capire che, se non si fossero sbrigati a imbarcarsi, avrebbero lasciato tutti a terra.
Difatti non ci fu tempo nemmeno per recuperare cannoni e bombarda che Bonaparte ed i granatieri addetti alla batteria stavano faticosamente trainando all’imbarco.
Tutta la scena non poteva sfuggire ai nostri sulla costa: infatti con rapida decisione armarono uno dei due lancioni di cui disponevano e ancora una volta D. Millelire, insieme a quindici commilitoni, coperto anche dalla batteria che rimaneva sulla costa, puntò dritto in mezzo al caos delle imbarcazioni francesi lanciando alcune bordate contro il felucone che si dirigeva verso di loro.
La flotta francese scivolava via verso Caprera ed i nostri toccavano terra a S. Stefano recuperando materiale bellico e quattro poveri cristi che non avevano fatto in tempo ad imbarcarsi.
Il 26 mattina la flotta francese era al nord-ovest di Punta Galera, diretta verso S. Manza, inseguita a distanza dalle mezze galere che tosto desistevano dall’inseguimento e rientrando alla base catturavano una imbarcazione proveniente da Bonifacio il cui equipaggio era convinto che Maddalena con il suo arcipelago fosse già possedimento francese.
Tra le forze isolane si ebbero, secondo le relazioni e non vi è da dubitarne perché queste sono suffragate dagli atti di morte presenti in chiesa, due feriti dei quali uno grave per aver avuto una gamba asportata da una palla di cannone.
Tra i francesi, per loro ammissione, un morto ed un ferito.
Le nostre cronache successive all’evento dicono genericamente: “Molti morti ha avuto il nemico, alcuni cadaveri essendosi ritrovati seppelliti sull’isola, e non pochi feriti”.
Difficile stabilire la verità alla ricostruzione della quale non hanno certo contribuito le relazioni successive del Manca di Tiesi (due) e di alcuni anonimi tempiesi che gonfiarono a dismisura gli avvenimenti nel malcelato tentativo di acquisire meriti; tanto meno quelle di parte francese che, per contro, ridimensionarono i fatti per scaricare la colpa al comportamento della flotta e del comandante generale Colonna-Cesari inviso ai notabili corsi per la parentela con il Paoli.
In ultimo agli isolani attuali, celebri in tutta la Gallura per i molti sfollamenti tanto da essere definiti “li maddalinini fugghjti”, rimane un dubbio non completamente risolto dai documenti ufficiali: fu quello del 1793 il primo sfollamento generale ed obbligatorio della serie terminata nel 1943?
Un anniversario perfetto: 150 anni.
Le corrispondenze dell’epoca tra vicerè, governatore di Sassari e i comandanti maddalenini certificano in modo inconfutabile che gli inabili al combattimento delle famiglie isolane nel mese di gennaio si sistemarono tra Luogosanto e Tempio con ampia soddisfazione dei regnanti che videro in quella decisione presa autonomamente dagli abitanti la volontà di battersi fino alla morte per difendere l’integrità del regno o come dicevano enfaticamente i funzionari del regno: per difendere la religione ed il Re.
Comunque sia, immediatamente dopo quelle intense quattro giornate di combattimenti la vita a Maddalena riprende a scorrere con i ritmi di sempre: il 2 marzo 1793 muore, a 23 anni, Michele Digosciu di Calangiano (Calangianus), il sardo gravemente ferito nei combattimenti; il 7 marzo 1793 nasce, a dieci giorni dalla fine della guerra, Carlo Vincenzo Favale di Filippo e Francesca Zonza; le vadine continuano allegramente a scorrere verso il mare.
Il 6 aprile 1793 la Gazzetta di Torino pubblica l’elenco delle ricompense e così Maddalena, grazie ai suoi semplici difensori e complice inconscio il giovane Napoleone Bonaparte entra, per la prima volta, nella storia grande. Cogliamo, ancora una volta, l’occasione per ribadire che la medaglia d’oro conferita per questi episodi a Domenico Millelire non fu la prima in assoluto in quanto ne era stata conferita una al fratello Agostino in occasione di un duro scontro navale contro i barbareschi avvenuto nel 1787.
Circolo maddalenino